Citazione da Ennio Flaiano (1910 – 1972).
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martedì 5 novembre 2019
Il fascismo
martedì 8 gennaio 2019
sabato 27 ottobre 2018
domenica 8 luglio 2018
Possibili ritorni
«Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo
devo alla passione antifascista.
La mia sensibilità al fascismo continua ad essere assai
forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i panni
dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo
italiano.
Il fascismo non è morto.
Quando tra gli imbecilli ed i furbi si stabilisce una
alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte.»
Leonardo Sciascia
in M. Padovani, La Sicilia come metafora,
Milano,1989, p. 85.
domenica 14 gennaio 2018
Giuseppe Leone, il paesaggio e la fotografia
Un articolo di N. Giaramidaro, del 2014, sul grande fotografo ragusano Giuseppe Leone.
Da Edizioni Kalós •
4 aprile 2014
“Il paesaggio è il grande malato
d’Italia. Quello che fu il Bel Paese fa scempio di se stesso, è sommerso dal
cemento. Che cosa sta succedendo agli italiani, che cosa ci acceca? È ancora
possibile indignarsi, recuperare memoria storica, riguadagnare spazio
all’insegna della Costituzione?” Queste le domande a proposito del libro di
Salvatore Settis “Paesaggio Costituzione cemento – la battaglia per
l’ambiente contro il degrado civile”.
Estrapolando dalle pagine del grande
archeologo si legge: “I danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come individui
e come collettività. Uccidono la memoria storica, feriscono la nostra salute
fisica e mentale, offendono i diritti delle generazioni future. L’ambiente è
devastato impunemente ogni giorno, il pubblico interesse calpestato per il
profitto di pochi. Le leggi che dovrebbero proteggerci sono dominate da un
paralizzante “fuoco amico” fra poteri pubblici, dai conflitti di competenza fra
Stato e Regioni. Ma in questo labirinto è necessario trovare la strada… È
necessario un nuovo discorso sul
paesaggio... La qualità del paesaggio e dell’ambiente non è un lusso, è una
necessità, è il miglior investimento sul nostro futuro. Non può essere svenduta
a nessun prezzo. Contro la colpevole inerzia di troppi politici, è necessaria
una forte azione popolare che
rimetta sul tappeto il tema del bene
comune come fondamento della democrazia, della libertà, della
legalità, dell’uguaglianza”. Scheletri edilizi, città industriali morte, strade
che finiscono nel nulla: “paesaggi” che fanno pensare a bombardamenti di guerre
mai combattute se non clandestinamente, a colpi di mazzette. E’ un panorama che
ci è familiare.
Una mano sembra darla la fotografia.
Ma – dice Roland Barthes – “fotografare è un po’ morire”. Andate a dirlo a
Giuseppe Leone, se riuscite a trovarlo fra i muri a secco delle pianure iblee,
tra casali, carrubi, trazzere, olivi saraceni, acciottolati con pietre
d’inciampo e lisci, paesotti più giù o più su sulle linee ortogonali del suo
Summilux. Fra i riti delle feste religiose che sembrano “paesaggi” antropomorfi
con la loro ripetitività sempre diseguale: un abbozzo di gesto che muta la
scena come un nuovo germoglio nella campagna, un albero caduto, un muro che non
c’è più, un abbandono ancora impunemente maturato.
Peppino Leone fotografo con l’occhio
veloce, uomo dalle visioni rapide, abbastanza piccolo per sfuggire alle
lentezze degli over un metro e ottanta, sorriso che spalanca porte e
qualcos’altro, sapienza estro e immaginazione che altrove determinano fortune
senza freni. E’ il fotografo che più di tutti, in Sicilia, ha fotografato il
paesaggio. Non conosciamo le campagne né le topografie urbane delle altre
province così come quelle ragusane, scoperte con emozione sui libri firmati da
Leone, oppure svelate dai 30×40 in bianco e nero delle sue oramai innumerevoli
mostre.
Immagini ritagliate con il “rasoio di
Ockham”, cioè scelte semplici, con l’obiettivo attento a togliere il
soverchiante per riprendere senza arzigogoli nella forma e nella sostanza: un
rettangolo pulito di bianchi, grigi e neri, oppure di colori che non escono
dalle loro ragionevoli gradazioni. La memoria. Anche se secondo Emil Cioran “La
sola funzione della memoria è aiutarci a rimpiangere”. Ma Alexander von
Humboldt diceva che si deve “ritrarre il paesaggio come forma di conoscenza”,
almeno.
Quindi niente vedute, belvederi,
panorami, landscapes. Peppino Leone non vuole suscitare il desiderio di
visitare i luoghi, i suoi luoghi; il suo fine non è la meraviglia – lui che è
nato e vive nel barocco siciliano – ma fornire elementi di riflessione sull’ormai
drammatico rapporto uomo-natura. Posso utilizzare una frase di Cornell Capa,
fratello del più famoso Robert, a proposito del paesaggio, dei luoghi di
Peppino Leone: “Mostrare le cose che devono essere corrette e mostrare le cose
che devono essere apprezzate”. E Moholy Nagy soggiunge: “Bisogna contribuire
alla costruzione del proprio tempo con i mezzi che gli sono propri”. Anche con
la fotografia.
Possiamo imparentare Leone con gli
americani della “Neotopografia”, Stephen Shore, Robert Adams e diversi altri
che hanno nomi più difficili da pronunciare. Fotografavano, e continuano a
fotografare, il paesaggio alterato dall’uomo.
Non è un caso che il primo libro di
Leone, “La pietra vissuta”, pubblicato da Sellerio nel 1978, oltre a un testo
sul paesaggio dell’architetto Mario Giorgianni, contenga un saggio di Rosario
Assunto, filosofo delle forme e precursore della tutela del paesaggio “naturale
o progettato dall’uomo”. Nel suo fondamentale libro del ’73 (edizioni
Novecento) “Il paesaggio e l’estetica”, si può intravedere il problema di fondo
che il filosofo si pone: le categorie, anzi la “categoria”, cioè la bellezza,
“l’idea che tutte le altre riunifica e in cui si affratella la verità e il
bene”.
C’è nelle fotografie di Leone, fra
carrubi, noci, muri di pietra, guglie di montagne e campanili, preziose
facciate e miraggi siciliani un riverbero non lieve dell’idea di bellezza così
come intesa dal nisseno Assunto; bellezza che tramuta una veduta, una
panoramica in un paesaggio dal quale traspare la storia dell’uomo e quella
della natura.
Per questo mi autorizzo a sospettare
che i luoghi di Montalbano sono come scelti da Peppino Leone:
Montalbano-Camilleri, seppure nella finzione e nella finzione della finzione,
non hanno potuto sottrarsi alla ineluttabilità della bellezza.
lunedì 25 dicembre 2017
Le Storie di legno di Iano Catania
Quella di Palazzo Montesano è una
mostra e nel contempo un museo, o meglio un’istallazione postmoderna destinata
a divenire permanente: la difficoltà a definirla sta non nei contenuti ma nel
soggetto che li ha realizzati, l’artista. Che, di norma si cela dietro la sua
opera, attraverso la quale spera di suscitare attenzione, stupore, consenso o
dissenso e alla fine, diciamolo chiaro, apprezzamento per il proprio messaggio.
Parliamo di un comune artista. Non il nostro, che si chiama,
lo sapete tutti, Iano Catania e si definisce artigiano, non artista. Ebanista,
puntualizza. Cioè antepone alla creazione artistica, il rapporto umano con le
persone e la materia; e pertanto l’etica all’estetica.
Non ci addentreremo nel complesso dibattito sulla funzione
dell’arte, sulla preminenza o no dei contenuti, sul suo rapporto con la società
e la politica. Perché voglio parlare della persona non delle sue opere.
Che mi piace definire poeta: uno che non solo crea ma
racconta.
Non lo dico io, lo dice Platone – sulla cui autorevolezza
penso siamo tutti d’accordo – e la sua definizione di poeta la traggo dal Simposio:
Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.
Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.
Il poeta Catania ha creato e raccontato centinai di storie
(alcune le leggerete nell’allestimento) le ha raccontato col suo personale “verso”
per oltre sessant’anni ribadendo, a chi ha voglia di ascoltarlo, il suo rapporto con l’arte e con la materia
oggetto della sua creazione, il legno; il suo punto di vista sulla gestione
della pòlis e sui valori, quelli comuni e quelli personali.
Foto Tony Vasile - 2013 |
*
Ad Jano Catania piace parlare. E lo
fa con capacità affabulatoria, padronanza semantica e sintattica, dentro
percorsi narrativi dove il proprio vissuto si insinua come grimaldello etico.
Del proprio percorso di
vita, in particolare del primo dentro il quale si situa il difficile approccio
col mondo del lavoro, compresa la dura esperienza di migrante, ha un ricordo
netto e chiaro. Il giovane meridionale che incontra prima la città di Milano e
poi approda a Francoforte, Zurigo, Basilea e Ginevra è privo di linguaggi e di
difese nei confronti di quelle “culture” ostili ed ammalianti. La madre gli ha
ricordato che da quelle parti molta gente ha
perso la bussola, tornando – o peggio non tornando affatto – del tutto diversi.
Foto Tony Vasile |
*
Sì la madre. La prima ed unica storia
che vi propongo (le altre le leggerete al Museo)
è il racconto dell’amore filiale, della sacralizzazione dei
valori umani e familiari.
Nel 1992 muore la madre e Sebastiano Catania decide di
ricordarla con un “segno” imperituro, collocato nel luogo sacro di devozione
popolare più amato dai chiaramontani, il Santuario della Madonna di Gulfi. La
materia con cui esprimersi, ovviamente, il legno. Nasce così, pezzo dopo pezzo,
un corpus che si inserisce in
consonanza estetica e funzionale nella sacrestia: prima la cappella con grande
Crocefisso, poi il primo e il secondo armadio (replica dell’antico casciarizzo), due cassettiere, il
massiccio tavolo centrale, la porta del Giubileo, le teche lignee per gli ex
voto; e poi esaurito ogni spazio in questo primo ambiente, in chiesa, l’ambone,
l’altare conciliare, la croce astile e
persino le bacheche all’ingresso. Un lavoro, oltre che corposo, impegnativo e
lungo, ultimato solo qualche anno fa. Che va più che ammirato letto, perché c’è
incisa la visione del sacro e del mondo dell’autore, quella pietas che sostiene il percorso umano
dell’artigiano Catania: percorso intriso in pari misura di lavoro e
accettazione dei valori antichi della sua comunità, che intende perpetuare e
additare alle nuove generazioni.
foto Tony Vasile |
*
C’è anche il racconto di quando a Chiaramonte c’erano decine
e decine di botteghe artigiane (falegnami, fabbri, imbianchini-pittori,
lattonieri, conciapelli e calzolai, putiari
ecc.) presenze che animavano spazi dell’abitato e del vissuto quotidiano. In un
rapporto di mutualità e cooperazione, mista a diffidente competizione, che faceva
interagire uomini e utènsili – preziosi e rari in un’economia ancora elementare
con preminenza della manualità – attraverso i cancelli o le porte finestrate
dei dammusi casa e putia.
Non si buttava via niente: i circieddi del falegname o gli scàmpoli viaggiavano verso le altre
botteghe, incrociando altri scarti o frammenti che esaudivano momentanei e
precari assemblaggi e rattoppi nelle altre botteghe; o richieste di vicine e
ragazzi (ricordate i carramatti, le spade, i fantasiosi giocattoli della nostra
fanciullezza: da lì venivano, non dal Toys
Market o da Amazon).
Un giorno il maestro Giovanni De Vita, la cui bottega era a
due passi da quella di Catania, doveva spedire, a Parigi ad un’importante
mostra, un dipinto raffigurante S. Paolo (oggi esposto nella Pinacoteca) e
siccome parliamo di circa cinquant’anni
fa, bisognava creare l’imballaggio
adatto: la soluzione nella bottega e mastria
dell’amico Iano Catania!
E non era un caso isolato. Poco prima era stata la volta del
lattoniere, per il foglio di lamierino zincato su cui dipingere la Madonna di
Gulfi destinata ad un’edicola votiva del vicino cortile; e anche questa volta, oltre
al lattoniere, era intervenuto il falegname per il telaio, il muratore
scalpellino per azzizzare l’icona
corrosa dal tempo e dalle sbandate dei carramatti, il ferraro per la grata di protezione, e quanti altri non so. Di certo
so – me l’ha raccontato con ironia e compiacenza il maestro Catania – che il
tutto spesso, dedotte le spese vive, era gratis
et amore.
Il lattoniere ad esempio era Saro Bentivegna – bottega a metà
via Corallo – altro personaggio casa e
putia, fascinato dalla memoria e strenuo difensore dei frammenti e valori
del tempo andato, e alcuni li conservava in un’angolo della bottega, per chi aveva
voglia di sentirne il racconto antico, condito dal ritmico battere del
martello. E c’erano pure il sarto, il ciabattino, il fotografo, il pingisanti …
La gran parte come i protagonisti dell’Antologia di Spoon River
– non dissimili per percorsi di vita e tenace attaccameto al lavoro, famiglia e
valori – dormono sulla collina. La polvere del tempo intrisa di memorie e
vissuti si è in parte depositata nellla vecchia bottega di Iano Catania. Oggi,
lui stesso, ci invita (attraverso l’audace ed essenziale allestimento del
figlio Raffaele a Palazzo Montesano) a sbirciare dentro la sua bottega tra
attrezzi, scampoli di lavori, saggi e realizzazioni, per leggervi non del tutto sopraffatte dalla
polvere del tempo le cento storie di questa antica e orgogliosa comunità intrisa
di etica contadina e religioso attaccamento ai valori del lavoro e della
famiglia. Come atto d’amore: prima di tutto alla sua famiglia e poi
alla sua città.
domenica 3 dicembre 2017
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