Quella di Palazzo Montesano è una
mostra e nel contempo un museo, o meglio un’istallazione postmoderna destinata
a divenire permanente: la difficoltà a definirla sta non nei contenuti ma nel
soggetto che li ha realizzati, l’artista. Che, di norma si cela dietro la sua
opera, attraverso la quale spera di suscitare attenzione, stupore, consenso o
dissenso e alla fine, diciamolo chiaro, apprezzamento per il proprio messaggio.
Parliamo di un comune artista. Non il nostro, che si chiama,
lo sapete tutti, Iano Catania e si definisce artigiano, non artista. Ebanista,
puntualizza. Cioè antepone alla creazione artistica, il rapporto umano con le
persone e la materia; e pertanto l’etica all’estetica.
Non ci addentreremo nel complesso dibattito sulla funzione
dell’arte, sulla preminenza o no dei contenuti, sul suo rapporto con la società
e la politica. Perché voglio parlare della persona non delle sue opere.
Che mi piace definire poeta: uno che non solo crea ma
racconta.
Non lo dico io, lo dice Platone – sulla cui autorevolezza
penso siamo tutti d’accordo – e la sua definizione di poeta la traggo dal Simposio:
Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.
Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.
Il poeta Catania ha creato e raccontato centinai di storie
(alcune le leggerete nell’allestimento) le ha raccontato col suo personale “verso”
per oltre sessant’anni ribadendo, a chi ha voglia di ascoltarlo, il suo rapporto con l’arte e con la materia
oggetto della sua creazione, il legno; il suo punto di vista sulla gestione
della pòlis e sui valori, quelli comuni e quelli personali.
Foto Tony Vasile - 2013 |
*
Ad Jano Catania piace parlare. E lo
fa con capacità affabulatoria, padronanza semantica e sintattica, dentro
percorsi narrativi dove il proprio vissuto si insinua come grimaldello etico.
Del proprio percorso di
vita, in particolare del primo dentro il quale si situa il difficile approccio
col mondo del lavoro, compresa la dura esperienza di migrante, ha un ricordo
netto e chiaro. Il giovane meridionale che incontra prima la città di Milano e
poi approda a Francoforte, Zurigo, Basilea e Ginevra è privo di linguaggi e di
difese nei confronti di quelle “culture” ostili ed ammalianti. La madre gli ha
ricordato che da quelle parti molta gente ha
perso la bussola, tornando – o peggio non tornando affatto – del tutto diversi.
Foto Tony Vasile |
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Sì la madre. La prima ed unica storia
che vi propongo (le altre le leggerete al Museo)
è il racconto dell’amore filiale, della sacralizzazione dei
valori umani e familiari.
Nel 1992 muore la madre e Sebastiano Catania decide di
ricordarla con un “segno” imperituro, collocato nel luogo sacro di devozione
popolare più amato dai chiaramontani, il Santuario della Madonna di Gulfi. La
materia con cui esprimersi, ovviamente, il legno. Nasce così, pezzo dopo pezzo,
un corpus che si inserisce in
consonanza estetica e funzionale nella sacrestia: prima la cappella con grande
Crocefisso, poi il primo e il secondo armadio (replica dell’antico casciarizzo), due cassettiere, il
massiccio tavolo centrale, la porta del Giubileo, le teche lignee per gli ex
voto; e poi esaurito ogni spazio in questo primo ambiente, in chiesa, l’ambone,
l’altare conciliare, la croce astile e
persino le bacheche all’ingresso. Un lavoro, oltre che corposo, impegnativo e
lungo, ultimato solo qualche anno fa. Che va più che ammirato letto, perché c’è
incisa la visione del sacro e del mondo dell’autore, quella pietas che sostiene il percorso umano
dell’artigiano Catania: percorso intriso in pari misura di lavoro e
accettazione dei valori antichi della sua comunità, che intende perpetuare e
additare alle nuove generazioni.
foto Tony Vasile |
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C’è anche il racconto di quando a Chiaramonte c’erano decine
e decine di botteghe artigiane (falegnami, fabbri, imbianchini-pittori,
lattonieri, conciapelli e calzolai, putiari
ecc.) presenze che animavano spazi dell’abitato e del vissuto quotidiano. In un
rapporto di mutualità e cooperazione, mista a diffidente competizione, che faceva
interagire uomini e utènsili – preziosi e rari in un’economia ancora elementare
con preminenza della manualità – attraverso i cancelli o le porte finestrate
dei dammusi casa e putia.
Non si buttava via niente: i circieddi del falegname o gli scàmpoli viaggiavano verso le altre
botteghe, incrociando altri scarti o frammenti che esaudivano momentanei e
precari assemblaggi e rattoppi nelle altre botteghe; o richieste di vicine e
ragazzi (ricordate i carramatti, le spade, i fantasiosi giocattoli della nostra
fanciullezza: da lì venivano, non dal Toys
Market o da Amazon).
Un giorno il maestro Giovanni De Vita, la cui bottega era a
due passi da quella di Catania, doveva spedire, a Parigi ad un’importante
mostra, un dipinto raffigurante S. Paolo (oggi esposto nella Pinacoteca) e
siccome parliamo di circa cinquant’anni
fa, bisognava creare l’imballaggio
adatto: la soluzione nella bottega e mastria
dell’amico Iano Catania!
E non era un caso isolato. Poco prima era stata la volta del
lattoniere, per il foglio di lamierino zincato su cui dipingere la Madonna di
Gulfi destinata ad un’edicola votiva del vicino cortile; e anche questa volta, oltre
al lattoniere, era intervenuto il falegname per il telaio, il muratore
scalpellino per azzizzare l’icona
corrosa dal tempo e dalle sbandate dei carramatti, il ferraro per la grata di protezione, e quanti altri non so. Di certo
so – me l’ha raccontato con ironia e compiacenza il maestro Catania – che il
tutto spesso, dedotte le spese vive, era gratis
et amore.
Il lattoniere ad esempio era Saro Bentivegna – bottega a metà
via Corallo – altro personaggio casa e
putia, fascinato dalla memoria e strenuo difensore dei frammenti e valori
del tempo andato, e alcuni li conservava in un’angolo della bottega, per chi aveva
voglia di sentirne il racconto antico, condito dal ritmico battere del
martello. E c’erano pure il sarto, il ciabattino, il fotografo, il pingisanti …
La gran parte come i protagonisti dell’Antologia di Spoon River
– non dissimili per percorsi di vita e tenace attaccameto al lavoro, famiglia e
valori – dormono sulla collina. La polvere del tempo intrisa di memorie e
vissuti si è in parte depositata nellla vecchia bottega di Iano Catania. Oggi,
lui stesso, ci invita (attraverso l’audace ed essenziale allestimento del
figlio Raffaele a Palazzo Montesano) a sbirciare dentro la sua bottega tra
attrezzi, scampoli di lavori, saggi e realizzazioni, per leggervi non del tutto sopraffatte dalla
polvere del tempo le cento storie di questa antica e orgogliosa comunità intrisa
di etica contadina e religioso attaccamento ai valori del lavoro e della
famiglia. Come atto d’amore: prima di tutto alla sua famiglia e poi
alla sua città.