martedì 5 novembre 2019

Il fascismo

Citazione da Ennio Flaiano (1910 – 1972).

Il Fascismo conviene agli italiani perché è nella loro natura e racchiude le loro aspirazioni, esalta i loro odi, rassicura la loro inferiorità. Il Fascismo è demagogico ma padronale, retorico, xenofobo, odiatore di culture, spregiatore della libertà e della giustizia, oppressore dei deboli, servo dei forti, sempre pronto a indicare negli “altri” le cause della sua impotenza o sconfitta. Il fascismo è lirico, gerontofobo, teppista se occorre, stupido sempre, ma alacre, plagiatore, manierista. Non ama la natura, perché identifica la natura nella vita di campagna, cioè nella vita dei servi; ma è cafone, cioè ha le spocchie del servo arricchito. Odia gli animali, non ha senso dell’arte, non ama la solitudine, né rispetta il vicino, il quale d’altronde non rispetta lui. Non ama l’amore, ma il possesso. Non ha senso religioso, ma vede nella religione il baluardo per impedire agli altri l’ascesa al potere. Intimamente crede in Dio, ma come ente col quale ha stabilito un concordato, do ut des. È superstizioso, vuole essere libero di fare quel che gli pare, specialmente se a danno o a fastidio degli altri. Il fascista è disposto a tutto purché gli si conceda che lui è il padrone, il padre.”


domenica 8 luglio 2018

Possibili ritorni


«Credo che se sono diventato un certo tipo di scrittore, lo devo alla passione antifascista.

La mia sensibilità al fascismo continua ad essere assai forte, la riconosco ovunque ed in ogni luogo, persino quando riveste i panni dell’antifascismo, e resto sensibile all’eternamente possibile fascismo italiano.

Il fascismo non è morto.

Quando tra gli imbecilli ed i furbi si stabilisce una alleanza, state bene attenti che il fascismo è alle porte.»

Leonardo Sciascia in M. Padovani, La Sicilia come metafora, Milano,1989, p. 85.




domenica 14 gennaio 2018

Giuseppe Leone, il paesaggio e la fotografia

Un articolo di N. Giaramidaro, del 2014, sul  grande fotografo ragusano Giuseppe Leone.


Da Edizioni Kalós  •  4 aprile 2014

“Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Quello che fu il Bel Paese fa scempio di se stesso, è sommerso dal cemento. Che cosa sta succedendo agli italiani, che cosa ci acceca? È ancora possibile indignarsi, recuperare memoria storica, riguadagnare spazio all’insegna della Costituzione?” Queste le domande a proposito del libro di Salvatore Settis  “Paesaggio Costituzione cemento – la battaglia per l’ambiente contro il degrado civile”.
Estrapolando dalle pagine del grande archeologo si legge: “I danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come individui e come collettività. Uccidono la memoria storica, feriscono la nostra salute fisica e mentale, offendono i diritti delle generazioni future. L’ambiente è devastato impunemente ogni giorno, il pubblico interesse calpestato per il profitto di pochi. Le leggi che dovrebbero proteggerci sono dominate da un paralizzante “fuoco amico” fra poteri pubblici, dai conflitti di competenza fra Stato e Regioni. Ma in questo labirinto è necessario trovare la strada… È necessario un nuovo discorso sul paesaggio... La qualità del paesaggio e dell’ambiente non è un lusso, è una necessità, è il miglior investimento sul nostro futuro. Non può essere svenduta a nessun prezzo. Contro la colpevole inerzia di troppi politici, è necessaria una forte azione popolare che rimetta sul tappeto il tema del bene comune come fondamento della democrazia, della libertà, della legalità, dell’uguaglianza”. Scheletri edilizi, città industriali morte, strade che finiscono nel nulla: “paesaggi” che fanno pensare a bombardamenti di guerre mai combattute se non clandestinamente, a colpi di mazzette. E’ un panorama che ci è familiare.
Una mano sembra darla la fotografia. Ma – dice Roland Barthes – “fotografare è un po’ morire”. Andate a dirlo a Giuseppe Leone, se riuscite a trovarlo fra i muri a secco delle pianure iblee, tra casali, carrubi, trazzere, olivi saraceni, acciottolati con pietre d’inciampo e lisci, paesotti più giù o più su sulle linee ortogonali del suo Summilux. Fra i riti delle feste religiose che sembrano “paesaggi” antropomorfi con la loro ripetitività sempre diseguale: un abbozzo di gesto che muta la scena come un nuovo germoglio nella campagna, un albero caduto, un muro che non c’è più, un abbandono ancora impunemente maturato.
Peppino Leone fotografo con l’occhio veloce, uomo dalle visioni rapide, abbastanza piccolo per sfuggire alle lentezze degli over un metro e ottanta, sorriso che spalanca porte e qualcos’altro, sapienza estro e immaginazione che altrove determinano fortune senza freni. E’ il fotografo che più di tutti, in Sicilia, ha fotografato il paesaggio. Non conosciamo le campagne né le topografie urbane delle altre province così come quelle ragusane, scoperte con emozione sui libri firmati da Leone, oppure svelate dai 30×40 in bianco e nero delle sue oramai innumerevoli mostre.
Immagini ritagliate con il “rasoio di Ockham”, cioè scelte semplici, con l’obiettivo attento a togliere il soverchiante per riprendere senza arzigogoli nella forma e nella sostanza: un rettangolo pulito di bianchi, grigi e neri, oppure di colori che non escono dalle loro ragionevoli gradazioni. La memoria. Anche se secondo Emil Cioran “La sola funzione della memoria è aiutarci a rimpiangere”. Ma Alexander von Humboldt diceva che si deve “ritrarre il paesaggio come forma di conoscenza”, almeno.
Quindi niente vedute, belvederi, panorami, landscapes. Peppino Leone non vuole suscitare il desiderio di visitare i luoghi, i suoi luoghi; il suo fine non è la meraviglia – lui che è nato e vive nel barocco siciliano –  ma fornire elementi di riflessione sull’ormai drammatico rapporto uomo-natura. Posso utilizzare una frase di Cornell Capa, fratello del più famoso Robert, a proposito del paesaggio, dei luoghi di Peppino Leone: “Mostrare le cose che devono essere corrette e mostrare le cose che devono essere apprezzate”. E Moholy Nagy soggiunge: “Bisogna contribuire alla costruzione del proprio tempo con i mezzi che gli sono propri”. Anche con la fotografia.
Possiamo imparentare Leone con gli americani della “Neotopografia”, Stephen Shore, Robert Adams e diversi altri che hanno nomi più difficili da pronunciare. Fotografavano, e continuano a fotografare, il paesaggio alterato dall’uomo.
Non è un caso che il primo libro di Leone, “La pietra vissuta”, pubblicato da Sellerio nel 1978, oltre a un testo sul paesaggio dell’architetto Mario Giorgianni, contenga un saggio di Rosario Assunto, filosofo delle forme e precursore della tutela del paesaggio “naturale o progettato dall’uomo”. Nel suo fondamentale libro del ’73 (edizioni Novecento) “Il paesaggio e l’estetica”, si può intravedere il problema di fondo che il filosofo si pone: le categorie, anzi la “categoria”, cioè la bellezza, “l’idea che tutte le altre riunifica e in cui si affratella la verità e il bene”.
C’è nelle fotografie di Leone, fra carrubi, noci, muri di pietra, guglie di montagne e campanili, preziose facciate e miraggi siciliani un riverbero non lieve dell’idea di bellezza così come intesa dal nisseno Assunto; bellezza che tramuta una veduta, una panoramica in un paesaggio dal quale traspare la storia dell’uomo e quella della natura.

Per questo mi autorizzo a sospettare che i luoghi di Montalbano sono come scelti da Peppino Leone: Montalbano-Camilleri, seppure nella finzione e nella finzione della finzione, non hanno potuto sottrarsi alla ineluttabilità della bellezza.

lunedì 25 dicembre 2017

Le Storie di legno di Iano Catania

Quella di Palazzo Montesano è una mostra e nel contempo un museo, o meglio un’istallazione postmoderna destinata a divenire permanente: la difficoltà a definirla sta non nei contenuti ma nel soggetto che li ha realizzati, l’artista. Che, di norma si cela dietro la sua opera, attraverso la quale spera di suscitare attenzione, stupore, consenso o dissenso e alla fine, diciamolo chiaro, apprezzamento per il proprio messaggio.
Parliamo di un comune artista. Non il nostro, che si chiama, lo sapete tutti, Iano Catania e si definisce artigiano, non artista. Ebanista, puntualizza. Cioè antepone alla creazione artistica, il rapporto umano con le persone e la materia; e pertanto l’etica all’estetica.
Non ci addentreremo nel complesso dibattito sulla funzione dell’arte, sulla preminenza o no dei contenuti, sul suo rapporto con la società e la politica. Perché voglio parlare della persona non delle sue opere.
Che mi piace definire poeta: uno che non solo crea ma racconta.
Non lo dico io, lo dice Platone – sulla cui autorevolezza penso siamo tutti d’accordo – e la sua definizione di poeta la traggo dal Simposio:

Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.

Il poeta Catania ha creato e raccontato centinai di storie (alcune le leggerete nell’allestimento) le ha raccontato col suo personale “verso” per oltre sessant’anni ribadendo, a chi ha voglia di ascoltarlo,  il suo rapporto con l’arte e con la materia oggetto della sua creazione, il legno; il suo punto di vista sulla gestione della pòlis e sui valori, quelli comuni e quelli personali.

Foto Tony Vasile - 2013

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Ad Jano Catania piace parlare. E lo fa con capacità affabulatoria, padronanza semantica e sintattica, dentro percorsi narrativi dove il proprio vissuto si insinua come grimaldello etico.
Del proprio percorso di vita, in particolare del primo dentro il quale si situa il difficile approccio col mondo del lavoro, compresa la dura esperienza di migrante, ha un ricordo netto e chiaro. Il giovane meridionale che incontra prima la città di Milano e poi approda a Francoforte, Zurigo, Basilea e Ginevra è privo di linguaggi e di difese nei confronti di quelle “culture” ostili ed ammalianti. La madre gli ha ricordato che da quelle parti molta gente ha perso la bussola, tornando – o peggio non tornando affatto – del tutto diversi.
Foto Tony Vasile

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Sì la madre. La prima ed unica storia che vi propongo (le altre le leggerete al Museo)
è il racconto dell’amore filiale, della sacralizzazione dei valori umani e familiari.
Nel 1992 muore la madre e Sebastiano Catania decide di ricordarla con un “segno” imperituro, collocato nel luogo sacro di devozione popolare più amato dai chiaramontani, il Santuario della Madonna di Gulfi. La materia con cui esprimersi, ovviamente, il legno. Nasce così, pezzo dopo pezzo, un corpus che si inserisce in consonanza estetica e funzionale nella sacrestia: prima la cappella con grande Crocefisso, poi il primo e il secondo armadio (replica dell’antico casciarizzo), due cassettiere, il massiccio tavolo centrale, la porta del Giubileo, le teche lignee per gli ex voto; e poi esaurito ogni spazio in questo primo ambiente, in chiesa, l’ambone, l’altare conciliare,  la croce astile e persino le bacheche all’ingresso. Un lavoro, oltre che corposo, impegnativo e lungo, ultimato solo qualche anno fa. Che va più che ammirato letto, perché c’è incisa la visione del sacro e del mondo dell’autore, quella pietas che sostiene il percorso umano dell’artigiano Catania: percorso intriso in pari misura di lavoro e accettazione dei valori antichi della sua comunità, che intende perpetuare e additare alle nuove generazioni.

foto Tony Vasile

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C’è anche il racconto di quando a Chiaramonte c’erano decine e decine di botteghe artigiane (falegnami, fabbri, imbianchini-pittori, lattonieri, conciapelli e calzolai, putiari ecc.) presenze che animavano spazi dell’abitato e del vissuto quotidiano. In un rapporto di mutualità e cooperazione, mista a diffidente competizione, che faceva interagire uomini e utènsili – preziosi e rari in un’economia ancora elementare con preminenza della manualità – attraverso i cancelli o le porte finestrate dei dammusi casa e putia.
Non si buttava via niente: i circieddi del falegname o gli scàmpoli viaggiavano verso le altre botteghe, incrociando altri scarti o frammenti che esaudivano momentanei e precari assemblaggi e rattoppi nelle altre botteghe; o richieste di vicine e ragazzi (ricordate i carramatti, le spade, i fantasiosi giocattoli della nostra fanciullezza: da lì venivano, non dal Toys Market o da Amazon).

Un giorno il maestro Giovanni De Vita, la cui bottega era a due passi da quella di Catania, doveva spedire, a Parigi ad un’importante mostra, un dipinto raffigurante S. Paolo (oggi esposto nella Pinacoteca) e siccome parliamo di  circa cinquant’anni fa, bisognava creare l’imballaggio adatto: la soluzione nella bottega e mastria dell’amico Iano Catania!
E non era un caso isolato. Poco prima era stata la volta del lattoniere, per il foglio di lamierino zincato su cui dipingere la Madonna di Gulfi destinata ad un’edicola votiva del vicino cortile; e anche questa volta, oltre al lattoniere, era intervenuto il falegname per il telaio, il muratore scalpellino per azzizzare l’icona corrosa dal tempo e dalle sbandate dei carramatti, il ferraro per la grata di protezione, e quanti altri non so. Di certo so – me l’ha raccontato con ironia e compiacenza il maestro Catania – che il tutto spesso, dedotte le spese vive, era gratis et amore.
Il lattoniere ad esempio era Saro Bentivegna – bottega a metà via Corallo – altro personaggio casa e putia, fascinato dalla memoria e strenuo difensore dei frammenti e valori del tempo andato, e alcuni li conservava in un’angolo della bottega, per chi aveva voglia di sentirne il racconto antico, condito dal ritmico battere del martello. E c’erano pure il sarto, il ciabattino, il fotografo, il pingisanti
La gran parte come i protagonisti dell’Antologia di Spoon River – non dissimili per percorsi di vita e tenace attaccameto al lavoro, famiglia e valori – dormono sulla collina. La polvere del tempo intrisa di memorie e vissuti si è in parte depositata nellla vecchia bottega di Iano Catania. Oggi, lui stesso, ci invita (attraverso l’audace ed essenziale allestimento del figlio Raffaele a Palazzo Montesano) a sbirciare dentro la sua bottega tra attrezzi, scampoli di lavori, saggi e realizzazioni,  per leggervi non del tutto sopraffatte dalla polvere del tempo le cento storie di questa antica e orgogliosa comunità intrisa di etica contadina e religioso attaccamento ai valori del lavoro e della famiglia. Come atto d’amore: prima di tutto alla sua famiglia e poi alla sua città.