giovedì 18 aprile 2013

Passeggiata nel passato alla scoperta delle neviere



> Le neviere che incontreremo nella passeggiata per gli antichi tratturi sul crinale dell’Arcibessi, immersi nel risveglio primaverile della natura
Sabato 20 aprile, ore 15






La neviera di S. Giuseppe

La struttura in miglior stato di conservazione, forse perché tra quelle di più recente costruzione, sorge in prossimità del bivio Maltempo. Sullo stipite dell'apertura, utilizzata per estrarre i blocchi ghiacciati, è scolpita la data «1886». Fu tra quelle usate fin nell’immediato dopoguerra: una delle ultime ad accogliere la neve di Serra di Burgio (è il nome della contrada dove sorge) nelle sue capienti viscere.
Era nota come «la neviera di S. Giuseppe», forse perché proprietà dell’omonima chiesa. Nei primi decenni del novecento venne presa in affitto e gestita da mio nonno Giuseppe Cultrera Barbabianca (Chiaramonte 1876 – 1978).


Accanto verso sud est, sottomessa alla stradina tangente, se ne intravede un'altra, da tempo trasformata in cisterna. Era nota nell'ultima fase d'utilizzo come la nivera di Catalano, dal cognome del gestore od appaltatore.  


Maltempo

Il vasto altopiano a sud est dell’Arcibessi è denominato Maltempo. La Serra di Burgio è la parte più settentrionale: e qui troviamo, oltre alle due precedenti, altre quattro interessanti strutture per la conservazione della neve, delle quali ci è ignota la denominazione e l’appartenenza.  Come le due precedenti, sono adiacenti allo stradale, di antica costruzione, che collegava la zona montana con la vallata comisana. 

La prima sorge, pochi metri più in alto a ovest, sul degradare della collina. La struttura in buono stato di conservazione è ancora attorniata dal recinto in pietrame a secco. Il maggiore interro della struttura  la pone fra le più antiche testimonianze dell’industria della neve: concorre ad assodare l’ipotesi l’originale apertura sul prospetto realizzata con tre massi megalitici.


La lupa

La neviera dell'Arcibessi, situata in alto (845 metri s.l.m.) sull'omonimo monte, è tutta scavata nella roccia e con una capienza di gran lunga superiore a tutte le altre.
Raccontava don Vito Landolina – uno degli ultimi impresari del settore, appaltante della raccolta della neve e rivenditore del ghiaccio – che varie volte non si riuscì, in estate, a svuotarla del tutto. E che quando le operazioni di accumulo, stipaggio e chiusura ermetica del prodotto, erano accurate, l'enorme massa ghiacciata si manteneva solida e duratura per tutta la stagione calda.
Forse per questo il popolo la chiamava "la lupa": per riempire il suo insaziabile ventre uno sciame di oltre cento raccoglitori, complice anche l'esiguità delle nevicate, non bastava. Il popolo la chiamava anche, storpiando dialettalmente la denominazione colta del monte, Uccibessi. Esternando, nell'una e nell'altra identificazione, quel misto d'affetto ed astio, consueto nella classe popolare, che del lavoro sostanziava l’ambivalenza di fatica e sostentamento.
Due documenti attestano la sua vetustà.
·         Un rivelo del 1681 nel quale si legge: « E in più la Niviera in detto territorio e nella contrada della Montagna chiamata la Niviera di Archibes, confinante con la via pubblica et aliis».
·         Ed un atto del 13 aprile 1694, notaio Giuseppe Cannizzo: « Item nivariu noncupata d’Arcibessi, potitam in territorio huius terrae et contrada dicta d’Arcibessi
Neviera Archibès
Ancor oggi è tra quelle meglio conservate. La parte emergente dal terreno è costruita con blocchi di pietra tenera intagliata ed è sormontata da una copertura, a spiovente, in larghe basole di pietra. Attorno sono ancora visibili resti dei muretti di recinzione, come pure le due botola per introdurvi la neve e l'apertura frontale da cui si estraevano, in estate, i blocchi ghiacciati.
Con arrogante arbitrio la sovrastano, disarmoniche presenze, due antenne radiotelevisive.


1783

A poca distanza è ubicata la neviera sull'architrave della quale  si legge inciso «1783». La solida struttura è addossata al declivio del monte e sprofonda per oltre otto metri interamente cavati nella roccia, culminando con una volta a botte in conci squadrati, chiusa da doppio spiovente, impermeabilizzato dalle larghe basole di pietra.
Neviera dei Macellai
Era nota anche come «la neviera dei macellai»; perché proprietari e gestori furono, perlomeno nella fase ultima, i macellai chiaramontani che per la lavorazione e conservazione delle carni, specie in estate, attinsero a quella preziosa riserva di ghiaccio.
Fu attiva fin nel primo dopoguerra, e vi lavorò, fino al 1915, Giuseppe Gueli (1866-1936) un esperto delle tecniche di raccolta e conservazione della neve.
Fino a pochi anni fa sorgeva, proprio accanto, una rustica casetta: forse un edificio connesso alla lavorazione della neve. La neviera, di recente è stata restaurata con destinazione di cisterna.

Primosole

Sul fronte nord est dell'Arcibessi sorge un'altra famosa ed antica neviera, conosciuta con l'immaginifica denominazione di Primosole. Mi spiegava un anziano contadino, già nel passato lavoratore delle neviere, che il nome gli deriva dall'elevazione e dalla posizione, essendo affacciata ad est verso Palazzolo, da dove la mattina spunta "il primo sole". Era seconda solo a quella dell'Arcibessi; ed anch'essa di solida costruzione e di facile utilizzo.
Sul pianoro che con lieve digradare si estende attorno, si depositava abbondante e soffice la neve, che i raccoglitori con facilità, (o facendola rotolare o conficcandola, dopo averla compressa, in un lungo bastone) consegnavano al suo capiente ventre.
Fu utilizzata per l'ultima volta nei primi del novecento e poi abbandonata sia per la vetustà della struttura e sia perché ubicata in una zona meno facile da raggiungere dai “nuovi mezzi di trasporto”, i carretti, che l'apertura della rotabile per Ragusa, verso sud, e per Vittoria, verso ovest, rendeva competitivi, rispetto al tradizionale trasporto a basto con lunghe carovane di muli ed asini.
La struttura e la tipologia costruttiva, infine, ci rimandano alla prima e più antica fase della «industria della neve».

Altipiano dell'Arcibessi

Tratto da: 
G. Cultrera,
L'Industria della neve Neviere degli Iblei,
Utopia edizioni, 2001


Le schede, 
sulle neviere  
sono desunte 
del volume  sopra indicato.

martedì 9 aprile 2013

Postille d'arte 1/2/3


Chiaramonte Gulfi: architetti e scultori dei secol XVI e XVII
Due gaginiani tardo manieristi - Nicolò Mineo  operante  tra fine ‘500 ed inizio ‘600  e Simone Mellini attivo tra inizio seicento e metà dello stesso secolo – e uno scultore  barocco intriso di classicismo provinciale - Benedetto Cultraro (1670 – post 1750)


Sono artisti artigiani nell’alveo della scultura rinascimentale –  che in Sicilia ebbe artefici indiscussi i numerosi discendenti di Giandomenico Gagini – gli scalpellini, mastri e capomastri, operanti dal secolo XVI e fino al terremoto del 1693 a Chiaramonte.
Alcuni anche di notevoli capacità. Come Nicolò Mineo (1542 – 1625) che veniva già considerato dal Di Marzo un originale gaginiano, autore persino della cosiddetta Cona nell’antica Chiesa di S. Giorgio oltre che della cappella del Rosario nella chiesa di S. Filippo in Chiaramonte. Ipotesi che è risultata parzialmente inesatta, a seguito di un recente ritrovamento nell’archivio storico di Ragusa di un documento che dà paternità dell’opera ragusana ad Antonio Gagini, che ne esigeva il pagamento nel 1576.
Mentre non ci sono dubbi per la cappella del Rosario, ricollocata dopo il terremoto del 1693 nella sacrestia dell’attuale chiesa di S. Filippo, accanto alla lapide sepolcrale che ne ricorda l’artefice: «magister nicolaus de mineo artifex nobilis et sculptor excellens hic mortuus requiescit, vixit annos 83. obiit 21 xbris 1625».
Il Melfi, studioso locale del secolo passato, lo dice originario di Caltagirone. Ma nel Rivelo della popolazione del 1593, risulta stabilmente residente a Chiaramonte, nel quartiere S. Filippo, proprio accanto alla chiesa dove portò a termine l’ultima opera: «Mastro Nicolao di Minio, figlio di Antonio, sposato con Violanti, residente nel quartiere di S. Filippo, di anni 50, con 3 figli, con un limpio (reddito tassabile) di 102 onze».
Appare chiaro che la sua opera artistica non è riconducibile esclusivamente all’arco di cappella della Madonna del Rosario (nel quale lavoro venne sicuramente coadiuvato dai figli, data l’avanzata età) concluso nel 1624, un anno prima della sua scomparsa. Ma se quest’opera sopravvisse al terremoto, lo stesso non avvenne per molte altre testimonianze del rinascimento, andate perdute immediatamente o destinate a lento degrado per la loro precarietà e per l’incuria degli uomini. Tra queste certamente l’elegante cappella dell’Annunziata, quella della chiesa di S. Francesco, il prospetto della chiesa di S. Giovanni e quello del Salvatore (buona parte del portale è oggi conservata nella nuova chiesa del Salvatore).
Due di queste opere, la cappella dell’Annunziata e il portale del Salvatore, potrebbero aver ricevuto il contributo artistico del Mineo. Questa, che è solo un’ipotesi attributiva, trova sostegno storico e stilistico nelle testimonianze dei memorialisti locali che ritengono le due opere di scalpello gaginiano (il Melfi addirittura la ritiene del contemporaneo Antonio Gagini, quello della Cona di S. Giorgio ad Ibla, che come abbiamo visto, oggi sicura filologia documentale gli restituisce), e  nel confronto tra l’arco di cappella in S. Filippo, opera di certa fattura del Mineo, ed i resti del portale del Salvatore (si raffrontino ad esempio il fregio centrale della cappella e quello del portale con due figure mitologiche antropomorfe, affrontate al centro, somiglianti per stile e per modalità di esecuzione).
Ciò non esclude che Antonio Gagini, o altri della sua bottega, abbiano lavorato per gli edifici di culto di Chiaramonte; in ogni caso sembra verosimile che il Mineo sia stato il principale riferimento per le committenze dei chiaramontani tra fine Cinquecento e primi decenni del secolo successivo.

*

Continuatore di Nicolò Mineo  e probabilmente discepolo ed aiuto fu Simone Mellini, pure lui originario di Caltagirone, operante dagli inizi del ‘600 e ritenuto dagli scrittori locali,  a Chiaramonte Gulfi, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza e il monumentale abside, la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù, tutte opere realizzate a Chiaramonte.
L’arco di tempo in cui fu attivo si può racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.

*

Imitatore di entrambi, ma non discepolo essendo di due generazioni più giovane, fu Benedetto Cultraro (1670 – 1750 c.). Di lui ci è giunta un’opera firmata e datata: «io benedetto cultraro di chia/te (Chiaramonte) l’ho scolpito  1711». Il Cultraro dà saggio di perizia tecnica e capacità di sintesi stilistica, nel ristretto spazio (mt. 2 x 1) del bassorilievo su pietra dura, destinato all’altare della cappella del Crocifisso all’interno della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Alla sua abilità tecnica si deve anche il baldacchino, in pietra e legno, che accoglie la statua della Madonna di Gulfi: dove sono evidenti le ascendenze berniniane ed il fascino manieristico. Che ritroviamo, sempre stemperato nel classicismo mutuato dai maestri locali, nella decorazione della chiesa di S.Maria la Vetere (più nota come Santuario di Gulfi) specie nelle due porte esterne. Replica stile e soggetti antropomorfi nelle tre porte del prospetto della chiesa di S. Giovanni Battista a Vittoria,  attribuitegli, per certa documentazione.
Della sua valentia di scultore ed intagliatore del legno sono testimonianza alcune cornici (quella del quadro di S. Teresa, nella chiesa omonima e quello dell’Immacolata, nella chiesa di S. Maria di Gesù) e il «fercolo» di S. Vito (datato 1719).

> Nota: Pubblicato  col titolo Postille d'arte 1, 2, 3 il 30 marzo, 1 e 2 aprile 2013 in questo stesso blog.
 I tre testi, sono qui riuniti, con lievissime varianti ed esclusione delle illustrazioni.

domenica 7 aprile 2013

*


Versione libera (molto libera!)
di una celebre  lirica i Catullo


Vivamus mea Lesbia, atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum. 



Viviamo l’amore, mia dolce Lesbia
le invidie dei vecchi astiosi
valutiamole meno di un soldo!
E continui a sorgere e tramontare il sole:
chè quando questa breve luce si spegnerà
ci sarà per noi una notte di sonno perenne.
Ora dammi mille baci, più cento
e ancora mille, poi altri cento
e mille ancora, che saranno tanti
da non capirci nulla,
(alla faccia di chi ci vuol male)
e nessuno potrà più contarli …

Gaio Valerio Catullo, Liber :(Vivamus mea Lesbia)

mercoledì 3 aprile 2013

Mistero & magia

Chiaramonte Gulfi (RG):
La grotta di S. Giuseppe ed il tesoro svelato


 Una delle figure più comuni del piccolo borgo di Chiaramonte era la lavandaia, occupazione che si mantenne, nella sua manualità faticosa, fino al dopoguerra, quando la civiltà dei consumi e ancor più l’ìntroduzione dell’acqua corrente nelle abitazioni la resero anacronistica ed inutile.
Andava nelle case dei benestanti, ma anche in quelle dei popolani “che potevano permetterselo”, e raccoglieva i panni sporchi, poi con enormi truscie si recava ad una delle sorgenti ubicate attorno all’abitato ed occupato lo spazio del lavatoio pubblico, che si era conquistato a costo di notevoli lotte, si poneva al faticoso lavoro. Perché lavoro faticoso era quello della lavandaia, china tutto il giorno a sciacquare e strizzare i panni; anche se il tempo scorreva tra una notizia lieta ed una triste, condito dalla “nobile arte” del pettegolezzo. Uno dei veicoli più notevoli della diffusione degli accaduti all’interno della comunità era senz’altro il lavatoio pubblico, assieme naturalmente al curtigghiu.
Ora una di queste lavandaie, abitante nel quartiere popolare che si sviluppava sopra la sorgente detta Fontana e che da essa mutuava il nome di Borgo Fontana, una notte d’estate, come suol dirsi, ci spurtau u suonnu e dopo ripetuti ma vani tentativi di ripigghiallu si alzò e presa una delle truscie si avviò al vicino lavatoio. Tanto valeva almeno fare qualcosa, anche perché spesso la fatica è il miglior rimedio.
Era notte fonda, ma la luna alta nel cielo che si rifletteva nell’acqua del lavatoio, garantiva luce sufficiente per un accurato lavoro.
Stava per iniziare quando udì un rumore come di qualcosa o qualcuno che stesse avvicinandosi. Un rumore sinistro, perché subito istintivamente la donna si nascose, per non essere vista ma per vedere.
Dalla stradella che tortuosa costeggiava il dorsale della collina su cui si adagiava il paese e che metteva in comunicazione con la fontana per poi proseguire verso la grotta di S. Lucia ed immettersi nell’arteria nota col nome di strada romana, venivano lentamente tre figure. Sarà che la notte di per sé acuisce la paura, sarà che quelle tre cose animate avevano uno strano incedere, è certo però che la donna si fece piccola piccola, trattenendo anche il fiato. L’agitazione divenne paura, la paura terrore.
Quando le passarono vicino vide che si trattava di un prete, a dorso di un mulo condotto per la cavezza da un altro sconosciuto. Il gruppo oltrepassato il lavatoio si diresse verso la grotta di S. Giuseppe che sorge una ventina di metri oltre; e lì si fermò.
Il prete con piglio autoritario indicò lo spazio antistante l’altare di  S. Giuseppe  e l’altro (doveva essere certamente il suo sagrestano, pensò la donna; ma non erano del paese perché altrimenti li avrebbe riconosciuti; né mai aveva visto nei dintorni un simile prete e sagrestano) iniziò a scavare una fossa abbastanza larga, e profonda a vita d’uomminu. Il prete frattanto disceso dalla cavalcatura traeva dal basto una bisaccia  piena d’oro (non che il prete avesse posto fuori dalla bisaccia l’oro, ma la donna, pur attanagliata dalla paura, ebbe chiara la percezione che di oro si trattava). Quindi porse il tesoro all’uomo che frattanto aveva finito di cavare la buca, e che meccanicamente lo prese iniziando ad interrarlo.
Quando nel buio repentino si alzò il braccio armato del prete e colpì l’uomo che ignaro gli voltava le spalle, alla donna si gelò il fiato in gola. Tutto avvenne così rapidamente, e irrealmente, che la sventurata non ebbe neppure il tempo di pensare e si ritrovò intenta a fissare il prete assassino che prono sulla fossa recitava il segreto per sciogliere quell’incantesimo:

Ppi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
e ss’arrumpiri supra sta valata un cuddiruni
c’a-ssiri mpastatu cu farina ri tri mulina

e acqua ri tri funtani
cuottu cu fraschi ri tri fumazzari

Quella gelida aura che aveva accompagnato l’arrivo del prete lo seguì mentre scompariva nella notte.
La donna dapprima rimase rannicchiata nel suo nascondiglio, poi lentamente riprese coraggio ed accertatasi che tutto fosse tornato tranquillo, recuperò i panni e corse a casa.
A letto stavolta non cercava il sollievo del sonno. Cogli occhi sbarrati riviveva la scena e lentamente rientrava in sé; e la realtà di ciò che poco prima era accaduto le appariva nella sua mostruosità. Anche se una sottile curiosità la legava al misterioso evento. Di truvature ne conosceva tante: tutte le lavandaie nelle lunghe giornate di lavoro raccontavano di qualche conoscente che aveva cercato di scioglierne una, ma col deludente risultato di ritornare a mani vuote perché non aveva eseguito il rituale “com’era giusto”.
Lei però non ne avrebbe parlato con alcuno: di ciò era certa. Meno certa era che avrebbe cancellato dalla mente l’evento. Anzi cominciava a vagheggiare l’idea di tentare di entrare in possesso del tesoro, dal momento che conosceva con precisione quello “che andava fatto”.
Al mattino aveva già le idee chiare. Chiamato l’ignaro marito si fece giurare che avrebbe eseguito quello che stava per chiedergli senza esigere spiegazioni né frapporre ostacoli, per strani che fossero sembrati i suoi dettami. Fu così convincente e risoluto il suo fare, che l’uomo, pur controvoglia, si dichiarò disponibile.
Sicché dapprima gli impose di recarsi dai tre mulini ad acqua di Murana ri sutta, Murana ri supra e Supranu, per prelevare “un pugno” di farina da ciascuno. Poi fu la volta delle tre fontane (Furrieri, Funtana e a ‘Razia). Infine si recò a raccogliere frasche e legna nelle tre concimaie del paese, ri Ghésu, ri Santu Vitu e ro Sarbaturi.
Avuto l’occorrente la donna confezionò il pane: con tre parti di farina dai tre differenti mulini, tre parti d’acqua dalle tre fontane, ed usando per la cottura legna raccolta nelle tre concimaie. Quindi si pose in attesa della mezzanotte con quel segreto dentro che non aveva partecipato neppure al marito che, poverino, si era adattato controvoglia a quelle strane incombenze.
U ciccagninu (come chiama il popolo il suono della campana di mezzanotte) rimbalzò nella stretta gola della cava Fontana: la donna era già lì, con la luna piena che la illuminava, accanto alla grotta di S. Giuseppe con il magico pane stretto tra le mani. E tremava di paura e d’emozione. Mentre in ginocchio, proprio sul luogo della sepoltura, spezzava il pane eseguendo il rito previsto, si “aprì l’incantesimo” ed apparve, con in mano il tesoro, l’uomo morto:

O chi viristi o chi sintisti:
pirchì accussì prestu mi vinisti a liberari!
«Di certo tu vedesti e sentisti, per essere venuta così presto a liberarmi!»

Fu così che la lavandaia e il marito si arricchirono, e l’incantesimo della grotta di S. Giuseppe fu sciolto.

Tratto da
Giuseppe Cultrera, IL SEGNO E IL RITO, 2005;
(capitolo III Il rito magico, pagina 39-41).

martedì 2 aprile 2013

Postille d'arte - 3


Benedetto Cultraro (sec. XVII), scultore in Chiaramonte

Seguito dei post (20 marzo 2013, Nicolò Mineo) e (1 aprile 2013, Simone Mellini)

Imitatore di entrambi, ma non discepolo essendo di due generazioni più giovane, fu Benedetto Cultraro (1670 – 1750 c.). Di lui ci è giunta un’opera firmata e datata: «io benedetto cultraro di chia/te (Chiaramonte) l’ho scolpito  1711». Il Cultraro dà saggio di perizia tecnica e capacità di sintesi stilistica, nel ristretto spazio (mt. 2 x 1) del bassorilievo su pietra dura, destinato all’altare della cappella del Crocifisso all’interno della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Alla sua abilità tecnica si deve anche il baldacchino, in pietra e legno, che accoglie la statua della Madonna di Gulfi: dove sono evidenti le ascendenze berniniane ed il fascino manieristico. Che ritroviamo, sempre stemperato nel classicismo mutuato dai maestri locali, nella decorazione della chiesa di S.Maria la Vetere (più nota come Santuario di Gulfi) specie nelle due porte esterne. Replica stile e soggetti antropomorfi nelle tre porte del prospetto della chiesa di S. Giovanni Battista a Vittoria,  attribuitegli, per certa documentazione.
Della sua valentia di scultore ed intagliatore del legno sono testimonianza alcune cornici (quella del quadro di S. Teresa, nella chiesa omonima e quello dell’Immacolata, nella chiesa di S. Maria di Gesù) e il «fercolo» di S. Vito (datato 1719).


Benedetto Cultraro, 
Angelo reggicartella, 1746. 
Chiaramonte Gulfi, 
Santuario di Gulfi

lunedì 1 aprile 2013

Antonino Di Vita: Acrille









Sul sito on line dell'Encicopedia Treccani sono pubblicati due articoli dell'archeologo prof. Antonino Di Vita su Chiaramonte Gulfi ( il primo del 1959 ed il secondo - un aggiornamento - del 1994). Li ripropongo a ricordo dell'illustre studioso, scomparso nel 2011.


CHIARAMONTE GULFI

TRECCANI        Enciclopedia dell' Arte Antica (1959)
di Antonino Di Vita

CHIARAMONTE GULFI. - Paese della Sicilia orientale in provincia di Ragusa. È il centro abitato più vicino all'insediamento dell'antica città di Akrillai (Ακριλλαι), fondata dai coloni di Akre (Ακραι). Akrillai è ricordata da Tito Livio (xxiv, 35, 8-10; 36, 1), da Plutarco (Marc., 18, 2) a proposito di un episodio della II guerra punica, e da Stefano Bizantino (s. v.). L'identificazione è stata possibile grazie alle fonti ed ai numerosi resti archeologici venuti in luce a N-O dell'odierno abitato, in insediamenti posti all'inizio della pianura che si estende alle spalle di Camarina. Il centro doveva essere attraversato da quella importante arteria congiungente Siracusa a Selinunte attraverso Agrigento, della quale si hanno ininterrotte notizie dal VI sec. a. C. fino al 1290. La località ebbe, verosimilmente, nome di "Gulfi", in seguito all'occupazione araba. Ha concorso alla identificazione del luogo l'antico toponimo tuttora esistente e significativo "Cianuriddu", "Planucrille".
Le più importanti tracce preelleniche della zona vennero in luce nelle località "Paraspola" e "Pipituna". Si tratta di grotte funerarie ellissoidali contenenti scheletri isolati e riuniti in gruppi con il capo rivolto a valle e poggiante su un gradino. Il corredo funebre consta di numerosi vasi attestanti una continuità da una prima fase castellucciana ad una fase del tipo "Thapsos". In contrada Piano del Conte è stato possibile rintracciare un abitato che ha restituito abbondante ceramica databile fra il iv sec. a. C. ed il I d. C Ciò testimonia una continua occupazione del luogo. In una tomba a fossa, è stata trovata una coppa emisferica recante la firma del fabbricante Menemachos la cui bottega in Delo ha prodotto la varietà più tarda delle coppe dette megaresi. Sono state trovate monete che giungono fino all'imperatore Valente. Dalle necropoli di età imperiale provengono anche vetri interessanti, fra cui uno, intatto, con una scena di caccia sul corpo. Esso va datato fra la fine del III e gli inizî del IV sec. d. C. Citiamo, infine, sette titoli cristiani in greco, uno in latino ed un titolo ebraico (in caratteri greci), tutti fra il IV e il V sec. d. C. Dalla chiesetta bizantina di S. Elena provengono avanzi di interessanti sculture. Numerosi i resti bizantini della località S. Nicola.

Bibl.: A. Di Vita, Vetro romano con scena di caccia da Chiaramonte Gulfi, in Siculorum Gymnasium, n. s., IV, 1951, pp. 60-65; id., Iscrizioni funerarie siciliane di età cristiana, in Epigraphica, XII, 1950, p. 104 ss.; id., Ricerche archeologiche in territorio di Chiaramonte Gulfi (Akrillai), Catania 1954; id., La penetrazione siracusana nella Sicilia sud-orientale alla luce delle più recenti scoperte archeologiche, in ΚΩΚΑΛΟΣ, II, 2, 1956.


CHIARAMONTE GULFI 

Enciclopedia dell' Arte Antica II Supplemento (1994)

di Antonino Di Vita

CHIARAMONTE GULFI (v. vol. Il, p. 547). - Nonostante sia stata proposta una localizzazione al guado del Dirillo (Uggeri), il centro antico che, formatosi a partire dal VI sec. a.C., prosperò in età ellenistico-romana e sopravvisse alla conquista araba fino al 1299 col nome di «Gulfi» nella pianura ai piedi del nuovo abitato medievale di Ch. G., è tuttora identificato - e con validi motivi d'ordine diverso (storico, topografico, archeologico, linguistico) - con Akrillai-Acrillae.
Nell'area occupata dall'antico centro greco-romano- bizantino non s'è avuto alcuno scavo sistematico, anche se è stato programmato un piano di ricerche topografiche volto a chiarire l'impianto urbano.
Scoperte di un certo rilievo sono invece avvenute nel territorio di Ch. G.: in località Mandredidonna, nella pianura presso il Dirillo (probabilmente l'antico Achàtes),sono stati raccolti avanzi castellucciani e sono stati ripresi saggi di scavo nell'abitato di Scornavacche, il quale, a tutt'oggi, costituisce il più importante villaggio di ceramisti, attivo a cavallo del IV-III sec. a.C., che si sia mai scavato in Sicilia. D'importanza rilevante i corredi di una necropoli romana di II sec. in contrada Mazzarrone, località che occupa anch'essa, come Scornavacche, un pianoro digradante sulla riva sinistra del Dirillo. Oltre a un raro bicchiere «corinzio» (il secondo dalla Sicilia), è stata recuperata numerosa terra sigillata africana che mostra come i centri della pianura camarinese lungo il fiume fruissero sia della via interna che portava ad Acre sia di quella che risaliva lungo il fiume verso N, in direzione di Licodia. E in effetti al limite settentrionale del territorio di Ch. G. (e della provincia di Ragusa), in località Ragoleto, ancora una volta sui pendii di un pianoro che strapiombava sul fiume, la costruzione della diga sul Dirillo ha portato alla luce un notevole gruppo di sepolcri databili nel V sec. d.C. da cui proviene, fra l'altro, una lucerna in terra sigillata importata dall'area dell'odierna Tunisia.
Si tratta, in entrambi i casi, di prove tangibili e significative della penetrazione, attraverso i centri romani della costa meridionale e lungo le antiche principali vie di comunicazione dell'Isola, delle ceramiche fini delle vicine Zeugitana e Bizacena.

Bibl.: G. Di Stefano, Appunti per la carta archeologica della regione camarinese in età romana, in Kokalos, XXVIII-XXIX, 1982-1983 (1984), pp. 332-340; G. Ragusa, Chiaramente Gulfi nella storia della Sicilia, Modica 1986, pp. 24-41; A. M. Fallico, Necropoli romana tarda alla diga del Dirillo e ceramica romana del territorio di Chiaramente Gulfi, in G. Di Stefano (ed.), Archeologia Iblea 1987,Ragusa 1987, pp. 107-111, 211-213.
Per le stazioni preistoriche del territorio: G. Di Stefano in Tabellarius, Ragusa, genn. 1975, pp. 6-10; id., in Piccola guida delle stazioni preistoriche degli Iblei, Ragusa 1984, pp. 67-76.
Per i materiali del territorio chiaramontano esposti al Museo di Ragusa: P. Pelagatti,Il museo archeologico di Ragusa, in SicA, XI, 1970, pp. 21-31, passim (ripubblicato in G. Di Stefano, P. Pelagatti, Ragusa archeologica, Ragusa 1984, pp. 19-30 e inArcheologia Iblea..., cit., pp. 9-12); G. Di Stefano, Ricerche a Camarina e nel territorio della provincia di Ragusa, in Kokalos, XXX- XXXI, 1984-1985 (1988), pp. 779-782; id., in BTCGI, V, 1987, pp. 276-280 s.v. -
Della splendida fiasca vitrea da Ch. G. al museo di Siracusa si ha ora una nuova edizione con riproduzioni a colori a cura del Comune di Ch. G.: A. Di Vita, Vetro romano con scene di caccia da Chiaramonti Gulfi (con aggiornamento di M. Sternini), s. 1. 1991.


Postille d'arte - 2

Simone Mellini, architetto e scultore in Chiaramonte 
(sec. XVI/XVII)

Continuatore di Nicolò Mineo (1542-1625) e probabilmente discepolo ed aiuto fu Simone Mellini, pure lui originario di Caltagirone, operante dagli inizi del ‘600 e ritenuto dagli scrittori locali,  a Chiaramonte Gulfi, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico:
 le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della piazza, ed una cappella interna non più esistente; 
la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza e il monumentale abside; 
la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) 
e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù, 
tutte opere realizzate a Chiaramonte.

L’arco di tempo in cui fu attivo si può racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.

 < segue  dal post Artifex nobilis (20 marzo 2013)
continua con > Benedetto Cultraro  ((2 aprile 2013)