martedì 9 aprile 2013

Postille d'arte 1/2/3


Chiaramonte Gulfi: architetti e scultori dei secol XVI e XVII
Due gaginiani tardo manieristi - Nicolò Mineo  operante  tra fine ‘500 ed inizio ‘600  e Simone Mellini attivo tra inizio seicento e metà dello stesso secolo – e uno scultore  barocco intriso di classicismo provinciale - Benedetto Cultraro (1670 – post 1750)


Sono artisti artigiani nell’alveo della scultura rinascimentale –  che in Sicilia ebbe artefici indiscussi i numerosi discendenti di Giandomenico Gagini – gli scalpellini, mastri e capomastri, operanti dal secolo XVI e fino al terremoto del 1693 a Chiaramonte.
Alcuni anche di notevoli capacità. Come Nicolò Mineo (1542 – 1625) che veniva già considerato dal Di Marzo un originale gaginiano, autore persino della cosiddetta Cona nell’antica Chiesa di S. Giorgio oltre che della cappella del Rosario nella chiesa di S. Filippo in Chiaramonte. Ipotesi che è risultata parzialmente inesatta, a seguito di un recente ritrovamento nell’archivio storico di Ragusa di un documento che dà paternità dell’opera ragusana ad Antonio Gagini, che ne esigeva il pagamento nel 1576.
Mentre non ci sono dubbi per la cappella del Rosario, ricollocata dopo il terremoto del 1693 nella sacrestia dell’attuale chiesa di S. Filippo, accanto alla lapide sepolcrale che ne ricorda l’artefice: «magister nicolaus de mineo artifex nobilis et sculptor excellens hic mortuus requiescit, vixit annos 83. obiit 21 xbris 1625».
Il Melfi, studioso locale del secolo passato, lo dice originario di Caltagirone. Ma nel Rivelo della popolazione del 1593, risulta stabilmente residente a Chiaramonte, nel quartiere S. Filippo, proprio accanto alla chiesa dove portò a termine l’ultima opera: «Mastro Nicolao di Minio, figlio di Antonio, sposato con Violanti, residente nel quartiere di S. Filippo, di anni 50, con 3 figli, con un limpio (reddito tassabile) di 102 onze».
Appare chiaro che la sua opera artistica non è riconducibile esclusivamente all’arco di cappella della Madonna del Rosario (nel quale lavoro venne sicuramente coadiuvato dai figli, data l’avanzata età) concluso nel 1624, un anno prima della sua scomparsa. Ma se quest’opera sopravvisse al terremoto, lo stesso non avvenne per molte altre testimonianze del rinascimento, andate perdute immediatamente o destinate a lento degrado per la loro precarietà e per l’incuria degli uomini. Tra queste certamente l’elegante cappella dell’Annunziata, quella della chiesa di S. Francesco, il prospetto della chiesa di S. Giovanni e quello del Salvatore (buona parte del portale è oggi conservata nella nuova chiesa del Salvatore).
Due di queste opere, la cappella dell’Annunziata e il portale del Salvatore, potrebbero aver ricevuto il contributo artistico del Mineo. Questa, che è solo un’ipotesi attributiva, trova sostegno storico e stilistico nelle testimonianze dei memorialisti locali che ritengono le due opere di scalpello gaginiano (il Melfi addirittura la ritiene del contemporaneo Antonio Gagini, quello della Cona di S. Giorgio ad Ibla, che come abbiamo visto, oggi sicura filologia documentale gli restituisce), e  nel confronto tra l’arco di cappella in S. Filippo, opera di certa fattura del Mineo, ed i resti del portale del Salvatore (si raffrontino ad esempio il fregio centrale della cappella e quello del portale con due figure mitologiche antropomorfe, affrontate al centro, somiglianti per stile e per modalità di esecuzione).
Ciò non esclude che Antonio Gagini, o altri della sua bottega, abbiano lavorato per gli edifici di culto di Chiaramonte; in ogni caso sembra verosimile che il Mineo sia stato il principale riferimento per le committenze dei chiaramontani tra fine Cinquecento e primi decenni del secolo successivo.

*

Continuatore di Nicolò Mineo  e probabilmente discepolo ed aiuto fu Simone Mellini, pure lui originario di Caltagirone, operante dagli inizi del ‘600 e ritenuto dagli scrittori locali,  a Chiaramonte Gulfi, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza e il monumentale abside, la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù, tutte opere realizzate a Chiaramonte.
L’arco di tempo in cui fu attivo si può racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.

*

Imitatore di entrambi, ma non discepolo essendo di due generazioni più giovane, fu Benedetto Cultraro (1670 – 1750 c.). Di lui ci è giunta un’opera firmata e datata: «io benedetto cultraro di chia/te (Chiaramonte) l’ho scolpito  1711». Il Cultraro dà saggio di perizia tecnica e capacità di sintesi stilistica, nel ristretto spazio (mt. 2 x 1) del bassorilievo su pietra dura, destinato all’altare della cappella del Crocifisso all’interno della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Alla sua abilità tecnica si deve anche il baldacchino, in pietra e legno, che accoglie la statua della Madonna di Gulfi: dove sono evidenti le ascendenze berniniane ed il fascino manieristico. Che ritroviamo, sempre stemperato nel classicismo mutuato dai maestri locali, nella decorazione della chiesa di S.Maria la Vetere (più nota come Santuario di Gulfi) specie nelle due porte esterne. Replica stile e soggetti antropomorfi nelle tre porte del prospetto della chiesa di S. Giovanni Battista a Vittoria,  attribuitegli, per certa documentazione.
Della sua valentia di scultore ed intagliatore del legno sono testimonianza alcune cornici (quella del quadro di S. Teresa, nella chiesa omonima e quello dell’Immacolata, nella chiesa di S. Maria di Gesù) e il «fercolo» di S. Vito (datato 1719).

> Nota: Pubblicato  col titolo Postille d'arte 1, 2, 3 il 30 marzo, 1 e 2 aprile 2013 in questo stesso blog.
 I tre testi, sono qui riuniti, con lievissime varianti ed esclusione delle illustrazioni.

Nessun commento:

Posta un commento