mercoledì 3 aprile 2013

Mistero & magia

Chiaramonte Gulfi (RG):
La grotta di S. Giuseppe ed il tesoro svelato


 Una delle figure più comuni del piccolo borgo di Chiaramonte era la lavandaia, occupazione che si mantenne, nella sua manualità faticosa, fino al dopoguerra, quando la civiltà dei consumi e ancor più l’ìntroduzione dell’acqua corrente nelle abitazioni la resero anacronistica ed inutile.
Andava nelle case dei benestanti, ma anche in quelle dei popolani “che potevano permetterselo”, e raccoglieva i panni sporchi, poi con enormi truscie si recava ad una delle sorgenti ubicate attorno all’abitato ed occupato lo spazio del lavatoio pubblico, che si era conquistato a costo di notevoli lotte, si poneva al faticoso lavoro. Perché lavoro faticoso era quello della lavandaia, china tutto il giorno a sciacquare e strizzare i panni; anche se il tempo scorreva tra una notizia lieta ed una triste, condito dalla “nobile arte” del pettegolezzo. Uno dei veicoli più notevoli della diffusione degli accaduti all’interno della comunità era senz’altro il lavatoio pubblico, assieme naturalmente al curtigghiu.
Ora una di queste lavandaie, abitante nel quartiere popolare che si sviluppava sopra la sorgente detta Fontana e che da essa mutuava il nome di Borgo Fontana, una notte d’estate, come suol dirsi, ci spurtau u suonnu e dopo ripetuti ma vani tentativi di ripigghiallu si alzò e presa una delle truscie si avviò al vicino lavatoio. Tanto valeva almeno fare qualcosa, anche perché spesso la fatica è il miglior rimedio.
Era notte fonda, ma la luna alta nel cielo che si rifletteva nell’acqua del lavatoio, garantiva luce sufficiente per un accurato lavoro.
Stava per iniziare quando udì un rumore come di qualcosa o qualcuno che stesse avvicinandosi. Un rumore sinistro, perché subito istintivamente la donna si nascose, per non essere vista ma per vedere.
Dalla stradella che tortuosa costeggiava il dorsale della collina su cui si adagiava il paese e che metteva in comunicazione con la fontana per poi proseguire verso la grotta di S. Lucia ed immettersi nell’arteria nota col nome di strada romana, venivano lentamente tre figure. Sarà che la notte di per sé acuisce la paura, sarà che quelle tre cose animate avevano uno strano incedere, è certo però che la donna si fece piccola piccola, trattenendo anche il fiato. L’agitazione divenne paura, la paura terrore.
Quando le passarono vicino vide che si trattava di un prete, a dorso di un mulo condotto per la cavezza da un altro sconosciuto. Il gruppo oltrepassato il lavatoio si diresse verso la grotta di S. Giuseppe che sorge una ventina di metri oltre; e lì si fermò.
Il prete con piglio autoritario indicò lo spazio antistante l’altare di  S. Giuseppe  e l’altro (doveva essere certamente il suo sagrestano, pensò la donna; ma non erano del paese perché altrimenti li avrebbe riconosciuti; né mai aveva visto nei dintorni un simile prete e sagrestano) iniziò a scavare una fossa abbastanza larga, e profonda a vita d’uomminu. Il prete frattanto disceso dalla cavalcatura traeva dal basto una bisaccia  piena d’oro (non che il prete avesse posto fuori dalla bisaccia l’oro, ma la donna, pur attanagliata dalla paura, ebbe chiara la percezione che di oro si trattava). Quindi porse il tesoro all’uomo che frattanto aveva finito di cavare la buca, e che meccanicamente lo prese iniziando ad interrarlo.
Quando nel buio repentino si alzò il braccio armato del prete e colpì l’uomo che ignaro gli voltava le spalle, alla donna si gelò il fiato in gola. Tutto avvenne così rapidamente, e irrealmente, che la sventurata non ebbe neppure il tempo di pensare e si ritrovò intenta a fissare il prete assassino che prono sulla fossa recitava il segreto per sciogliere quell’incantesimo:

Ppi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
e ss’arrumpiri supra sta valata un cuddiruni
c’a-ssiri mpastatu cu farina ri tri mulina

e acqua ri tri funtani
cuottu cu fraschi ri tri fumazzari

Quella gelida aura che aveva accompagnato l’arrivo del prete lo seguì mentre scompariva nella notte.
La donna dapprima rimase rannicchiata nel suo nascondiglio, poi lentamente riprese coraggio ed accertatasi che tutto fosse tornato tranquillo, recuperò i panni e corse a casa.
A letto stavolta non cercava il sollievo del sonno. Cogli occhi sbarrati riviveva la scena e lentamente rientrava in sé; e la realtà di ciò che poco prima era accaduto le appariva nella sua mostruosità. Anche se una sottile curiosità la legava al misterioso evento. Di truvature ne conosceva tante: tutte le lavandaie nelle lunghe giornate di lavoro raccontavano di qualche conoscente che aveva cercato di scioglierne una, ma col deludente risultato di ritornare a mani vuote perché non aveva eseguito il rituale “com’era giusto”.
Lei però non ne avrebbe parlato con alcuno: di ciò era certa. Meno certa era che avrebbe cancellato dalla mente l’evento. Anzi cominciava a vagheggiare l’idea di tentare di entrare in possesso del tesoro, dal momento che conosceva con precisione quello “che andava fatto”.
Al mattino aveva già le idee chiare. Chiamato l’ignaro marito si fece giurare che avrebbe eseguito quello che stava per chiedergli senza esigere spiegazioni né frapporre ostacoli, per strani che fossero sembrati i suoi dettami. Fu così convincente e risoluto il suo fare, che l’uomo, pur controvoglia, si dichiarò disponibile.
Sicché dapprima gli impose di recarsi dai tre mulini ad acqua di Murana ri sutta, Murana ri supra e Supranu, per prelevare “un pugno” di farina da ciascuno. Poi fu la volta delle tre fontane (Furrieri, Funtana e a ‘Razia). Infine si recò a raccogliere frasche e legna nelle tre concimaie del paese, ri Ghésu, ri Santu Vitu e ro Sarbaturi.
Avuto l’occorrente la donna confezionò il pane: con tre parti di farina dai tre differenti mulini, tre parti d’acqua dalle tre fontane, ed usando per la cottura legna raccolta nelle tre concimaie. Quindi si pose in attesa della mezzanotte con quel segreto dentro che non aveva partecipato neppure al marito che, poverino, si era adattato controvoglia a quelle strane incombenze.
U ciccagninu (come chiama il popolo il suono della campana di mezzanotte) rimbalzò nella stretta gola della cava Fontana: la donna era già lì, con la luna piena che la illuminava, accanto alla grotta di S. Giuseppe con il magico pane stretto tra le mani. E tremava di paura e d’emozione. Mentre in ginocchio, proprio sul luogo della sepoltura, spezzava il pane eseguendo il rito previsto, si “aprì l’incantesimo” ed apparve, con in mano il tesoro, l’uomo morto:

O chi viristi o chi sintisti:
pirchì accussì prestu mi vinisti a liberari!
«Di certo tu vedesti e sentisti, per essere venuta così presto a liberarmi!»

Fu così che la lavandaia e il marito si arricchirono, e l’incantesimo della grotta di S. Giuseppe fu sciolto.

Tratto da
Giuseppe Cultrera, IL SEGNO E IL RITO, 2005;
(capitolo III Il rito magico, pagina 39-41).

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