La grotta di S. Giuseppe ed il tesoro svelato
Una
delle figure più comuni del piccolo borgo di Chiaramonte era la lavandaia,
occupazione che si mantenne, nella sua manualità faticosa, fino al dopoguerra,
quando la civiltà dei consumi e ancor più l’ìntroduzione dell’acqua corrente
nelle abitazioni la resero anacronistica ed inutile.
Andava
nelle case dei benestanti, ma anche in quelle dei popolani “che potevano
permetterselo”, e raccoglieva i panni sporchi, poi con enormi truscie si recava ad una delle sorgenti
ubicate attorno all’abitato ed occupato lo spazio del lavatoio pubblico, che si
era conquistato a costo di notevoli lotte, si poneva al faticoso lavoro. Perché
lavoro faticoso era quello della lavandaia, china tutto il giorno a sciacquare
e strizzare i panni; anche se il tempo scorreva tra una notizia lieta ed una
triste, condito dalla “nobile arte” del pettegolezzo. Uno dei veicoli più
notevoli della diffusione degli accaduti all’interno della comunità era
senz’altro il lavatoio pubblico, assieme naturalmente al curtigghiu.
Ora
una di queste lavandaie, abitante nel quartiere popolare che si sviluppava
sopra la sorgente detta Fontana e che
da essa mutuava il nome di Borgo Fontana, una notte d’estate, come suol dirsi, ci spurtau u suonnu e dopo ripetuti ma
vani tentativi di ripigghiallu si
alzò e presa una delle truscie si
avviò al vicino lavatoio. Tanto valeva almeno fare qualcosa, anche perché
spesso la fatica è il miglior rimedio.
Era
notte fonda, ma la luna alta nel cielo che si rifletteva nell’acqua del
lavatoio, garantiva luce sufficiente per un accurato lavoro.
Stava
per iniziare quando udì un rumore come di qualcosa o qualcuno che stesse
avvicinandosi. Un rumore sinistro, perché subito istintivamente la donna si
nascose, per non essere vista ma per vedere.
Dalla
stradella che tortuosa costeggiava il dorsale della collina su cui si adagiava
il paese e che metteva in comunicazione con la fontana per poi proseguire verso
la grotta di S. Lucia ed immettersi nell’arteria nota col nome di strada romana, venivano lentamente tre
figure. Sarà che la notte di per sé acuisce la paura, sarà che quelle tre cose
animate avevano uno strano incedere, è certo però che la donna si fece piccola
piccola, trattenendo anche il fiato. L’agitazione divenne paura, la paura
terrore.
Quando
le passarono vicino vide che si trattava di un prete, a dorso di un mulo
condotto per la cavezza da un altro sconosciuto. Il gruppo oltrepassato il
lavatoio si diresse verso la grotta di S. Giuseppe che sorge una ventina di
metri oltre; e lì si fermò.
Il
prete con piglio autoritario indicò lo spazio antistante l’altare di S. Giuseppe e l’altro (doveva essere certamente il
suo sagrestano, pensò la donna; ma non erano del paese perché altrimenti li
avrebbe riconosciuti; né mai aveva visto nei dintorni un simile prete e
sagrestano) iniziò a scavare una fossa abbastanza larga, e profonda a vita d’uomminu. Il prete frattanto
disceso dalla cavalcatura traeva dal basto una bisaccia piena d’oro (non che il prete avesse
posto fuori dalla bisaccia l’oro, ma la donna, pur attanagliata dalla paura,
ebbe chiara la percezione che di oro si trattava). Quindi porse il tesoro all’uomo che frattanto aveva
finito di cavare la buca, e che meccanicamente lo prese iniziando ad
interrarlo.
Quando nel buio
repentino si alzò il braccio armato del prete e colpì l’uomo che ignaro gli
voltava le spalle, alla donna si gelò il fiato in gola. Tutto avvenne così
rapidamente, e irrealmente, che la sventurata non ebbe neppure il tempo di
pensare e si ritrovò intenta a fissare il prete assassino che prono sulla fossa
recitava il segreto per sciogliere quell’incantesimo:
Ppi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
e ss’arrumpiri supra sta valata un cuddiruniPpi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
c’a-ssiri mpastatu cu farina ri tri mulina
e acqua ri tri funtani
cuottu cu fraschi ri tri fumazzari
Quella
gelida aura che aveva accompagnato l’arrivo del prete lo seguì mentre
scompariva nella notte.
La
donna dapprima rimase rannicchiata nel suo nascondiglio, poi lentamente riprese
coraggio ed accertatasi che tutto fosse tornato tranquillo, recuperò i panni e
corse a casa.
A
letto stavolta non cercava il sollievo del sonno. Cogli occhi sbarrati riviveva
la scena e lentamente rientrava in sé; e la realtà di ciò che poco prima era
accaduto le appariva nella sua mostruosità. Anche
se una sottile curiosità la legava al misterioso evento. Di
truvature ne conosceva tante: tutte
le lavandaie nelle lunghe giornate di lavoro raccontavano di qualche conoscente
che aveva cercato di scioglierne una, ma col deludente risultato di ritornare a
mani vuote perché non aveva eseguito il rituale “com’era giusto”.
Lei
però non ne avrebbe parlato con alcuno: di ciò era certa. Meno certa era che
avrebbe cancellato dalla mente l’evento. Anzi cominciava a vagheggiare l’idea
di tentare di entrare in possesso del tesoro, dal momento che conosceva con
precisione quello “che andava fatto”.
Al
mattino aveva già le idee chiare. Chiamato l’ignaro marito si fece giurare che
avrebbe eseguito quello che stava per chiedergli senza esigere spiegazioni né
frapporre ostacoli, per strani che fossero sembrati i suoi dettami. Fu così
convincente e risoluto il suo fare, che l’uomo, pur controvoglia, si dichiarò disponibile.
Sicché
dapprima gli impose di recarsi dai tre mulini ad acqua di Murana ri sutta, Murana ri
supra e Supranu, per prelevare
“un pugno” di farina da ciascuno. Poi fu la volta delle tre fontane (Furrieri, Funtana e a ‘Razia).
Infine si recò a raccogliere frasche e legna nelle tre concimaie del paese, ri Ghésu, ri Santu Vitu e ro Sarbaturi.
Avuto
l’occorrente la donna confezionò il pane: con tre parti di farina dai tre
differenti mulini, tre parti d’acqua dalle tre fontane, ed usando per la cottura
legna raccolta nelle tre concimaie. Quindi
si pose in attesa della mezzanotte con quel segreto dentro che non aveva
partecipato neppure al marito che, poverino, si era adattato controvoglia a
quelle strane incombenze.
U ciccagninu (come chiama il popolo il suono della campana di
mezzanotte) rimbalzò nella stretta gola della cava Fontana: la donna era già
lì, con la luna piena che la illuminava, accanto alla grotta di S. Giuseppe con
il magico pane stretto tra le mani. E tremava di paura e d’emozione. Mentre in
ginocchio, proprio sul luogo della sepoltura, spezzava il pane eseguendo il
rito previsto, si “aprì l’incantesimo” ed apparve, con in mano il tesoro,
l’uomo morto:
O chi viristi o chi sintisti:pirchì accussì prestu mi vinisti a liberari!
«Di certo tu vedesti e
sentisti, per essere venuta così presto a liberarmi!»
Fu
così che la lavandaia e il marito si arricchirono, e l’incantesimo della grotta
di S. Giuseppe fu sciolto.
Tratto
da:
Giuseppe
Cultrera, IL SEGNO E IL RITO, 2005;
(capitolo III Il rito magico, pagina 39-41).
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