giovedì 28 marzo 2013

Socrate (V secolo a.C.)

Nell'Apologia di Socrate, Platone che ne fu discepolo, attribuisce al filosofo ingiustamente condannato a morte, questo icastico addio:



... Quando i miei figlioli saranno grandi, castigateli, o Ateniesi, tormentateli come io ho tormentato voi se vi sembrano di avere più cura del denaro o d'altro piuttosto che della virtù; e se mostrano di essere qualche cosa senza valere nulla, svergognateli come ho fatto io con voi per ciò che non curano quello che conviene curare e credono di valere quando non valgono nulla. Se farete ciò, avremo avuto da voi ciò che era giusto avere, io e i miei figli.
Ma vedo che è tempo ormai di andar via, io a morire, voi a vivere. Chi di noi avrà sorte migliore, occulto è a ognuno, tranne che a Dio. 






Jacques-Louis David, 
Morte di Socrate
1787

lunedì 25 marzo 2013

Felicità


Felicità raggiunta, si cammina
per te sul fil di lama.
Agli occhi sei barlume che vacilla,
al piede, teso ghiaccio che s'incrina;
e dunque non ti tocchi chi più t'ama.

Se giungi sulle anime invase
di tristezza e le schiari, il tuo mattino
e' dolce e turbatore come i nidi delle cimase.
Ma nulla paga il pianto del bambino
a cui fugge il pallone tra le case.


EUGENIO MONTALE, 
Felicità raggiunta, si cammina (da Ossi di seppia, 1925).

domenica 24 marzo 2013

Contro l'inverno dello spirito...


Fondare biblioteche 
è un po’ come costruire ancora granai pubblici; 
ammassare riserve contro l’inverno dello spirito 
che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire...

Marguerite Yourcenar  (1903-1987),  Memorie di Adriano

giovedì 21 marzo 2013

Vincenzo Rabito

La storia del novecento attraverso 
gli occhi di un contadino chiaramontano
Terra matta opera postuma di Vincenzo Rabito, dopo la riduzione teatrale è ora anche un film

Al chiaramontano Vincenzo Rabito (1899/1981) rivelazione letteraria nel 2007 con Terra matta sono dedicati due giorni sabato e domenica prossimi: all'originale lettura - stavolta cinematografica del duo Costanza Quatriglio (regista) e Chiara Ottaviano (sceneggiatore e produttore) - della sua esemplare autobiografia. Chiaramonte, sua patria,  gli ha dedicato un convegno nazionale di studi nel 2008; il Teatro Stabile di Catania, una lettura teatrale diretta egregiamente da Vincenzo Pirrotta ...
Un invito a partecipare: per conoscere anche l'originale progetto dell'Archivio degli iblei proposto da Chiara Ottaviano, aperto al contributo di tutti i chiaramontani e ragusani...


Su Vincenzo Rabito e la sua opera, a seguire ripropongo un mio articolo, 
pubblicato nel 2000 su Pagine dal Sud col titolo  "Un Gattopardo popolare?"

A settant’anni Vincenzo Rabito, cantoniere in pensione della Provincia regionale di Ragusa, decise di sciogliere i grumi della memoria nei traballanti caratteri di una vecchia Lettera 22 e spargerli sulle circa duemila pagine di un’originale ed estemporanea autobiografia. Chiuso nella sua stanza per oltre sette anni, dal 1969 al 1975, pagina dopo pagina ripercorse la propria vicenda umana che attraversava il secolo più esemplare – definito oggi dagli storici con l’appellativo di “breve”- per avvenimenti tumultuosi e scoperte scientifiche e tecnologiche.
Ogni sera a fine lavoro, richiudeva il “volume” lo assicurava con una doppia legatura e lo riponeva in un cassetto che chiudeva accuratamente a chiave. Sicchè nessuno conobbe questo suo tenace esercizio di alchemia letteraria: e sarebbe certamente rimasto un ipogeico percorso narrativo se alcuni anni dopo, esattamente nel 1981, e proprio in occasione della sua morte, uno dei figli, il più giovane, che aveva avuto sentore del travaglio narrativo, non lo avesse snidato dal cassetto segreto. Per riporlo in altro cassetto come cimelio affettivo.
A vent’anni di distanza Giovanni Rabito, quel figlio, fa pervenire il manoscritto alla prestigiosa «Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus» con la titolazione postuma di «Fontanazza, autobiografia 1899 – 1970». Ed è subito notorietà: il manoscritto ottiene ex aequo il Premio Pieve - Banca Toscana, mentre la stampa nazionale dà ampio risalto al caso letterario: «Il premio Pieve  Banca Toscana ha fatto emergere dal fondo magmatico della scrittura popolare – scriveva Beppe Del Colle su Famiglia Cristiana, n.ro 38 del 2000 – un capolavoro…».
«Rabito – si legge nella motivazione del Premio - si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da potere essere paragonato a un Gattopardo popolare»
*
Vincenzo Rabito nasce a Chiaramonte nel 1899, proprio nell’anno in cui scompare il letterato più illustre di questa terra, il barone Serafino Amabile Guastella, che era stato il disincantato cantore dei villani. Ai quali apparteneva la famiglia del nostro, che nelle terre di Fontanazza, aveva espresso la propria dolorante epopea di contadini del Sud. Fontanazza come Fontamara coi suoi cafoni in cerca di una redenzione impossibile; anche se i padroni chiaramontani erano meno arroganti e brutali di quelli del  paesello della Marsica dove Silone colloca la sua narrazione.
Baroni tanto filantropi quanto spiantati, come lo stesso Guastella costretto ad insegnare per vivere, o don Paolo Cultrera Fontanazza, che due secoli prima, in occasione del “terremoto grande” del 1693, raccolse e soccorse i deboli ed i derelitti, donando parte delle proprie ricchezze, o quel barone Melfi, contemporaneo del Rabito, esponente socialista del piccolo centro, che si era interessato a procuragli un posto stabile di lavoro. Molto più propensi alle speculazioni letterarie (anche se spesso velleitarie ed approssimative) che alla conduzione delle loro aziende agricole: esemplarmente rappresentati nel padre del citato Melfi, il barone Corrado, che aveva speso la propria esistenza e parte del patrimonio in ricerche archeologiche e pubblicazioni (quasi un centinaio) sugli aspetti più disparati di storia, arte, folclore, araldica della sua patria.
Ma c’erano, o c’erano stati, anche il barone Gaetano Guastella, il barone Spataro Guttadauro, il notaio Salvatore Ventura, il dottor Nicosia, il baronello Saverio Del Lago: tutti alla ricerca di notorietà letteraria.
                                                                             *
Agli antipodi è il narratore Rabito: scrive per sé e in una lingua sui generis, originalissima e personale in perenne dissidio con la lingua e sintassi italiana noncurante della più elementare ortografia e tutta impastata di sicilianismi; teso solo a trasmettere fluente e caldo il fiume dei ricordi sulla carta.
Un esercizio terapeutico, un conto da chiudere con la storia (la sua visione di storia), una ricerca improbabile di catarsi, il consuntivo all’appuntamento, sempre differito ed ora non più procastinabile?
«Più scriveva – ricorda uno dei figli – più si divertiva, più si convinceva di stare facendo la cosa più importante della sua vita, anche se escludo che mio padre sia mai stato sfiorato dall’idea della pubblicazione».
Pubblicazione che si rivela dapprima difficoltosa, nonostante l’impegno della prestigiosa fondazione di Pieve Santo Stefano, – mi dice un altro dei figli – per l’ampiezza dello scritto e per le difficoltà di trascrizione, ma poi avviata da una prestigiosa casa editrice, la Einaudi (nel 2007 il manoscritto è stato pubblicato – col titolo di Terra matta - nella collana Supercoralli e nel  2009 nella ET). La chiave che ha aperto il cassetto serrato da Vincenzo Rabito, dischiudendo l’epopea di Terra matta, ha proiettato lo scritto del villano nel dorato mondo letterario, invano concupito e rincorso dai conterranei baroni e notabili.      (2000)

mercoledì 20 marzo 2013

Mondo antico


A proposito 
di cultura classica 
e di tempi moderni


Scartabellando tra i miei  file ho trovato una recensione del 2005 non ricordo più dove e quando pubblicata: è una breve nota sulla rivista Kronos, quaderni del liceo classico "Umberto I" Ragusa , n. 21, dicembre 2004. 
Mi piace riproporla agli amici per l'attualità del tema e delle modeste notazioni...




«Qualche giorno fa ho ricevuto, attraverso un comune amico, una copia della rivista Kronos (Dicembre 2004), voce del liceo classico Umberto I di Ragusa: ad inviarla era il Prof. Vincenzo Giannone, preside dell’istituto e reale artefice ed entusiasta animatore di questo repertorio di cultura classica in terra iblea.
Intanto sono invitanti l’elegante aspetto esteriore, l’impaginazione funzionale e discreta; il contenuto (quattro o cinque saggi) ci conduce sottovoce –  ma con salda filologia ed acuta analisi – nel suggestivo mondo dei classici. Non elencherò i temi dei saggi di quest’ultimo numero. Interessanti, istruttivi od intriganti, come quelli dei numeri precedenti (siamo già al fascicolo 21!): vanno letti, magari solo scorsi, addentati per frammenti, uno sì e tre no… fate voi. In ogni caso, alla fine, questo percorso ipogeico, ci darà soddisfazione. Ma anche salutare insofferenza per il tentativo ogni giorno più evidente di rendere sempre più marginale e riduttivo, anche nello stesso percorso scolastico, questo mondo antico. Che sopravviverà alla nostra civiltà, a veline, passaparola, piccoli e grandi fratelli.
Perché?
La prima pagina di questo numero, a mò di prologo, riporta la traduzione di un frammento di una epigrafe paleocristiana (la stele è conservata nel Museo di castello Ursino, Catania) 

Ogni cosa che nasce
sulla terra
e nel cielo sconfinato
nasce per te, o Morte.
All’improvviso
m’hai rubato il mio bambino!
Ma che bisogno avevi?
Forse che,
se diventava vecchio,
non era sempre tuo?

Cento, mille, duemila anni fa o fra tremila anni, le domande e i tentativi di risposta dell’uomo restano sempre uguali: nel cammino a ritroso lo scopriamo.
PS. La versione italiana dell’epigrafe è del  prof. Vincenzo Giannone. »


POSTILLE D'ARTE 1

Artifex nobilis et sculptor excellens
Nicolò Mineo, un gaginiano tardo manierista, 
  operante  a Chiaramonte, tra fine ‘500 ed inizio ‘600

Sono artisti artigiani nell’alveo della scultura rinascimentale –  che in Sicilia ebbe artefici indiscussi i numerosi discendenti di Giandomenico Gagini – gli scalpellini, mastri e capomastri, operanti dal secolo XVI e fino al terremoto del 1693 a Chiaramonte.
Alcuni anche di notevoli capacità. Come Nicolò Mineo (1542 – 1625) che veniva già considerato dal Di Marzo un originale gaginiano, autore persino della cosiddetta Cona nell’antica Chiesa di S. Giorgio oltre che della cappella del Rosario nella chiesa di S. Filippo in Chiaramonte. Ipotesi che è risultata parzialmente inesatta, a seguito di un recente ritrovamento nell’archivio storico di Ragusa di un documento che dà paternità dell’opera ragusana ad Antonio Gagini, che ne esigeva il pagamento nel 1576.
Mentre non ci sono dubbi per la cappella del Rosario, ricollocata dopo il terremoto del 1693 nella sacrestia dell’attuale chiesa di S. Filippo, accanto alla lapide sepolcrale che ne ricorda l’artefice: «magister nicolaus de mineo artifex nobilis et sculptor excellens hic mortuus requiescit, vixit annos 83. obiit 21 xbris 1625».

Il Melfi, studioso locale del secolo passato, lo dice originario di Caltagirone. Ma nel Rivelo della popolazione del 1593, risulta stabilmente residente a Chiaramonte, nel quartiere S. Filippo, proprio accanto alla chiesa dove portò a termine l’ultima opera: «Mastro Nicolao di Minio, figlio di Antonio, sposato con Violanti, residente nel quartiere di S. Filippo, di anni 50, con 3 figli, con un limpio (reddito tassabile) di 102 onze».

Appare chiaro che la sua opera artistica non è riconducibile esclusivamente all’arco di cappella della Madonna del Rosario (nel quale lavoro venne sicuramente coadiuvato dai figli, data l’avanzata età) concluso nel 1624, un anno prima della sua scomparsa. Ma se quest’opera sopravvisse al terremoto, lo stesso non avvenne per molte altre testimonianze del rinascimento, andate perdute immediatamente o destinate a lento degrado per la loro precarietà e per l’incuria degli uomini. Tra queste certamente l’elegante cappella dell’Annunziata, quella della chiesa di S. Francesco, il prospetto della chiesa di S. Giovanni e quello del Salvatore (buona parte del portale è oggi conservata nella nuova chiesa del Salvatore).
Due di queste opere, la cappella dell’Annunziata e il portale del Salvatore, potrebbero aver ricevuto il contributo artistico del Mineo. Questa, che è solo un’ipotesi attributiva, trova sostegno storico e stilistico nelle testimonianze dei memorialisti locali che ritengono le due opere di scalpello gaginiano (il Melfi addirittura la ritiene del contemporaneo Antonio Gagini, quello della Cona di S. Giorgio ad Ibla, che come abbiamo visto, oggi sicura filologia documentale gli restituisce), e  nel confronto tra l’arco di cappella in S. Filippo, opera di certa fattura del Mineo, ed i resti del portale del Salvatore (si raffrontino ad esempio il fregio centrale della cappella e quello del portale con due figure mitologiche antropomorfe, affrontate al centro, somiglianti per stile e per modalità di esecuzione). 
.

Bibl: G. Cultrera, Artisti & artigiani, Chiaramonte, 2003;
 G. Cultrera, Il segno e il rito, Utopia Edizioni, 2005.



Illustrazioni: (accanto al titolo e al centro pagina)Nicolò Mineo, due particolari dell'Arco di Cappella  nella chiesa di S. Filippo di Chiaramonte Gulfi.


 (accanto) Fregio del prospetto del Santuario di Gulfi, opera  di Benedetto Cultraro (sec. XVII).



1<  [ continua con 
> Simone Mellini  [1 aprile 2013]
> Benedetto Cultraro]

 

martedì 19 marzo 2013

Chiaramonte: un viaggio nel passato

L'industria della neve  - le ultime neviere - un itinerario nel bosco dell'Arcibessi



Le neviere furono una presenza viva ed attiva dal XVII al XIX  secolo: sul crinale del monte Arcibessi ne furono cavate oltre venti.
Una struttura, per quattro quinti ipogeica, scavata nella roccia e sormontata da una copertura in muratura, che serviva a contenere la neve raccolta sul finire dell’autunno e durante l’inverno, dalla quale veniva estratta in blocchi ghiacciati in l’estate per essere venduta nelle città limitrofe, specialmente costiere.
Serviva a raffreddare la calura estiva, a conservare carne, pesce e cibi deteriorabili, a confezionare dolci - rinomati i sorbetti  le granite –  bevande fresche. Era indispensabile nella medicina  e chirurgia: per tali finalità, specialmente, in ogni città era aperta (e spesso garantita e statuita da delibera del decurionato) una bottega del ghiaccio.

Oggi tutto ciò appare surreale, folklorico, lontano. Eppure l’industria della neve – così si indicava, con accezione ottocentesca, la raccolta lavorazione e distribuzione della neve solidificata – fu una fiorente attività commerciale, con struttura organizzata (la società della neve ed i consoli, erano sue emanazioni) e presenza costante in alcuni centri montani degli Iblei, Chiaramonte innanzitutto. Evocano quell’epoca e quel duro lavoro, le strutture delle neviere ancora presenti sull’altopiano dell’Arcibessi: testimonianze di storia, economia di sostentamento, archeologia industriale.
Per tutto ciò – per quello che evocano, testimoniano, stimolano – vanno tutelate.

Il Sentiero per le neviere, indicato da apposita segnaletica, accompagna il curioso o il turista in una porzione di quel mondo e storia del nostro passato.
Partendo dalla chiesette delle Grazie si percorre l’antico sentiero utilizzato in estate dai  cavaddari per trasportare a valle e alle città marine il ghiaccio estratto dalle neviere poste più in alto, specie delle due comprese nell’itinerario quella dei Macellai e quella dell’Arcibessi, due tra le più grandi ed ancora ben conservate. Anzi una, quella dei Macellai che porta incisa sull’architrave del portello dal quale si estraevano i blocchi ghiacciati la data 1768, è stata a cura della Forestale restaurata e ristrutturata come recipiente. L’altra, gli alunni della scuola elementare di Roccazzo, facente parte dell’Istituto comprensivo S. A. Guastella di Chiaramonte, l’hanno adottata: potrete leggerlo sulla tabella posta accanto, assieme a brevi note informative sull'antica struttura, che nei secoli andati fu il sostituto dei moderni frigo.


       ^ Un particolare del sentiero
                 Neviera dei Macellai >

< Foto sotto il titolo: 
Neviera dell'Arcibessi (La lupa)


Testo: Giuseppe Cultrera 
Bibliografia:
Giuseppe Cultrera, L'Industria della neve. Neviere degli Iblei
Chiaramonte G. Utopia Edizioni, 2001

venerdì 15 marzo 2013

Giuseppe Comitini  (1884-1951),  poeta popolare

Due libri “segreti” hanno reso affascinante ed intrigante la vicenda umana ed artistica di Giuseppe Comitini, personaggio straordinario ed “ordinario” nello stesso tempo, della Chiaramonte del primo novecento.
Uno, Cosi ri casa,  una raccolta di poesie “schiticchiose” era di difficile reperimento in quando esaurito da tempo (e chi ne possedeva una copia sgualcita la teneva ben stretta), dell’altro Come e perché uccisi mia moglie se ne favoleggiava l’esistenza e il contenuto misterioso.
Ricordo di averli incrociati durante gli studi universitari: il primo tramite la nipote, che me ne prestò un volume quasi intonso, del quale ancora possiedo la fotocopia, il secondo scovato nella libreria di un compagno di studi, che malvolentieri me lo diede a leggere (il perché lo capì bene quando, qualche sera dopo, il padre si presentò urlante a casa mia, pretendendo la restituzione di quel “reperto” sprovvedutamente sottratto dal figlio «E’ stato fatto sparire! E questa è l’unica, o una delle poche copie esistenti e non voglio che vada in giro»).
Vabbè per la “gran malafiura” e i rimbrotti del figlio: ma ne era valsa la pena. Mi affascinò il personaggio, il racconto, la reale vicenda a fosche tinte che, scoprì, aveva inciso nel profondo del vissuto collettivo (e forse per ciò, rimossa velocemente, assieme alle copie del libro eretico).
Il progetto giovanile di una ricerca sull’argomento, assieme alla riedizione dell’opera poetica, restò senza approdo: il materiale raccolto però mi fu utile in un paio di occasioni (una conferenza sulla letteratura popolare, un paragrafo nelle Neviere degli Iblei, il breve saggio Poeti popolari a Chiaramonte per un volumetto di Sergio D’Angelo).
Rimosso? No. Qualche anno fa, ho avuto la ventura di trovare tra i materiali della antica tipografia Fornaro (già Vacirca ed ancor prima Fratelli Ferrante) due manoscritti che servirono per la stampa del volume Cosi ri casa, edito dal citato Vacirca nel 1939. Oltre al corpus delle poesie edite, erano presenti altre composizioni rimaste inedite e, cosa che mi incuriosì maggiormante, tra i manoscritti e la versione stampata, erano numerose e rilevanti le varianti.
Dovevo riprendere il discorso: perché a volte non sei tu che insegui un filo, un indizio; è quel filo e quell’indizio che ti girano attorno, fin quando non decidi di affrontarlo e cercarlo di dipanare per raccontarlo, prima a te stesso e poi agli altri.
Quello che vi propongo è questo racconto, fatto di frammenti, indizi, poesie “schiticchiose” (mi piace questo termine, che sentivo usare alle vecchie mie zie e che ben rende la pregnanza semantica del dialetto).
La scelta, tra le  poesie di Giuseppe Comitini, privilegia la “corda” scanzonata, quella che tanto affascinò i contemporanei e che aleggiò dopo la sua scomparsa, ravvivata dagli epigoni ed ammiratori. E tutt’oggi, fra i più anziani, trova estimatori…
Dà titolo al libro la più nota delle sue poesie Prucissioni figurata; rappresentazione corale, ilare e disincantata, di un piccolo borgo montano che entrava nel nuovo secolo (siamo nel 1905) con fiducia e speranze. Il prosiego, invece, si dimostrò, per tutti, difficile e tragico: due guerre tra le più terribili che l’umanità abbia conosciuto, crisi economica, sociale e politica. Nel libro di versi Cosi ri casa, pubblicato nel ’39, c’è sia questa poesia (che rappresenta l’ante quem) che quelle che descrivono o si situano fra le due guerre. Della seconda che incombeva, la varia umanità del piccolo borgo e l’autore, che ne era il cantore, sembrano presagirne l’esito; e l’ironia scanzonata, sembra rattenersi, come un groppo alla gola.

  • dalla Premessa a Prucissioni figurata, scelta di poesie edite ed inedite di Giuseppe Comitini, a cura di Giuseppe Cultrera. Chiaramonte Gulfi, Dettagli, 2012; pagina 7.

  • quella che segue è invece una delle poesie riproposte, quella che dà titolo al libro (pagina 25) e che nel 1931 al concorso di poesia popolare indetto dal quotidiano Il popolo di Sicilia di Catania, ottenne il primo premio da una prestigioa giuria, presieduta da Vitaliano Brancati.


Prucissioni figurata


Un tiempu, o me paisi, - ‘nta la simana Santa
niscia lu Cristu mortu, - lu cleru ca ‘cci canta
un coru d’angiliddi - la Matri Addulurata
e sceni di passioni - viventi, strata, strata.

Li carusiddi fimmini - vistuti di Maria
‘ccu la vistina a luttu - e longa la purìa:
Maria la Mantalena, - S. Pietru, S. Giuvanni
e chianci la Vironica - ‘cc’un fazzulettu granni!

Appriessu veni Cristu - ‘ccu la pisanti cruci,
tiratu di li sbirri - ca fannu tanti vuci;
di tantu ‘ntantu casca - spintu di lu surdatu
lu Cirinneu è pronti - e Cristu è sullivatu!

Li fimmineddi chiancinu - pinzannu chi duluri
pruvau lu Santu Patri - lu nostru Redenturi;
lu vecchiu di San Pietru - la Vergini Maria,
la Mantalena stissa - ‘ccu tutta a cumpagnia.

Na vota mi ricordu - lu Cristu lu facia
un certu Suzzu Baccu, - so suoru, la Maria
e lu surdatu ‘nfami - don Vitu Fasulinu
cumpagnu di lu Suzzu - ed anzi, so vicinu.
Iunciennu ‘nta lu Cursu, - luocu di ‘rriunioni
la fudda si fa fitta - fitta la cunfusioni
lu Fasulinu, ‘ntrepitu - d’a parti ca facìa
‘ppri ‘mprissiunari ancora - à ‘ggenti ca talia:

cafudda ‘o Cristu un cauci - dui pugna ‘ncruci e ‘nnuci
lu Suzzu casca ‘nterra - e la pisanti cruci
ci scippa la pilucca - ‘cci strazza la vistina
lu stenni luoncu, luoncu - ammienzu la catina.

Fu brutta la caduta - lu nasu s’ammaccau
li manu e li dinocchia - tutti si li scuriau;
fu troppu lu duluri! - si susi bastimmiannu
afferra a Fasulinu: - Maria! Maria chi dannu!

Lu Cristu sona pugna - e l’autri ci arrispunni
parìa, parìa lu puopulu - lu mari ca fa l’urni.
San Pietru, San Giuvanni - spartunu ‘cca bannera;
la soru di lu Cristu - parìa na lavannera.


C’on pugnu sicca casca - di sutta lu surdatu
lu Cristu puvirieddu - è tuttu nzancuniatu;
la varba russa, penni - la cruna di li spini
corpi di torci soninu - e monici e parrini.

Faciennu largu ‘rranchinu - quattru carrabbinieri,
lu Sinnicu, li guardii, - di Suzzu la muggheri:
‘Ccussì finiu la festa, - finieru li lignati
e Cristu ‘co surdatu - durmieru carzarati!



Prucissioni figurata, 
scelta di poesie edite ed inedite di Giuseppe Comitini, 

a cura di Giuseppe Cultrera. 
Chiaramonte Gulfi, Dettagli (Grafiche Castello), 2012.