giovedì 27 giugno 2013

Poeta solitario della luce. Il pittore Giovanni De Vita (1906/1990)

Sul finire del secolo scorso chi, visitando Chiaramonte, si addentrava nella suggestiva  via Castello e per  l’altalenante asimmetrica scalinata ascendeva fino al poggio dell’antico abitato fortificato, si imbatteva a metà percorso in una linda casetta, attraverso le cui porte-finestre si intravedeva l’interno di una bottega di pittore. Le pareti interamente tappezzate di dipinti, gli spazi angusti delle due o tre stanzette occupati da cavalletti, tavole e sedie con altri dipinti, alcuni in fase di completamento altri appena abbozzati: pennelli, colori, cornici da adattare a qualcuna di quelle opere, ovunque.  Lui, l’artista, con l’inseparabile nazionale tra le labbra un pennello nella destra ed un panno schizzato da mille colori nell’altra mano, si aggirava tra paesaggi idilliaci, Madonne campestri, volti taciturni del sud, fiori e nature morte, per depositare su una di quelle tele il tocco finale di un petalo esangue, di un rossore di gota, di uno scintillio di cristallo. Giovanni De Vita, lo conoscevano tutti a Chiaramonte, perché era avanti negli anni e da sempre amava incontrare la gente, quella che curiosava nella sua bottega, passando da lì per andare a far la spese o tornando dal duro lavoro, quelli del quartiere che si affacciavano sul davanzale per scambiare due parole e commentare gli accaduti, o coloro che incontrava dopo pranzo alla Società Operaia o ai Giardini Pubblici sul far della sera. Ascoltava molto, perché per natura era introverso, e parlava poco: ma con tono affabulatorio e saggezza da vecchio.

Ricordo, nell’estate del 1986, quando incontrò un altro affabulatore che amava più scrutare ed ascoltare, che parlare. Leonardo Sciascia, volle conoscere quel tipo taciturno che la sera precedente era stato premiato come siciliano insigne, poco prima di lui e che gli sedeva accanto: lo attrasse forse in quell’esile corpo che sembrava ritirarsi dentro il vestito beige, un fulmineo ghigno serrato nelle pieghe del volto scavato.
Il pittore aspettava sulla soglia del suo modesto studio, in via Castello: lo scrittore, contornato da uno stuolo di amici, giornalisti e curiosi si fece avanti tendendogli la mano e salutandolo. Il maestro farfugliò qualcosa, poi più nitidamente (ma questo era il liet motiv con cui accoglieva gli occasionali visitatori) esternò il proprio disagio per la modestia dell’ambiente, il disordine, la povertà di vita. Disse qualcosa sull’Arte, come egli la intendesse, sulla passione invereconda per questo mestiere, per come fosse contento del poco… Sciascia, il capo leggermente chino, le labbra serrate, l’eterna sigaretta tra le dita (quella che il maestro faceva volteggiare nell’altra mano, era della stessa marca: lo scrittore di Racalmuto quando estraeva dal pacchetto l’ennesima, ne offriva sempre una all’interlocutore) lo ascoltava immobile. Poi  sollevando il capo ed appoggiandogli la mano sulla spalla, aprendo la bocca ad un sorriso   - Se vuole posso interessarmi per farla esporre a Palermo, conosco qualche gallerista,  ho amici; mi interesserò io stesso per la presentazione.
Tornò quel ghigno misterioso, ma ora era facilmente decifrabile: sorriso disarmante di uomo di un piccolo paese del Sud, nel quale si era rintanato, dove caparbiamente aveva esercitato l’esercizio catartico dell’arte, sempre più solo, sempre più lontano da una funzione economica, seppur minima, riducendosi a contemplare le sue opere senza aver voglia di staccarsene, indignato per l’incapacità  degli eventuali compratori di concepire, la finalità di quel pezzo di tela o cartone “scarabocchiato”, altra da sfondo per il salotto buono o  schermo ad una macchia del muro.
Rispose di no. Che non se l’avesse a male, ma ormai si sentiva vecchio e stanco e che quel trampolino per la fama lo aveva sempre sognato con ardore, ma nel contempo temuto negli anni più verdi. La sua vita tranquilla, nel paese, il poco di cui si contentava, gli bastavano.  Grazie lo stesso.
Volle però, in segno di amicizia ed in ricordo di quell’incontro, regalare all’illustre scrittore  un piccolo acquarello, la tecnica che più lo affascinava e nella quale eccelleva. Sciascia lo prese e  sorrise. Confidò poi, che dapprima c’era rimasto male, poi aveva compreso ed ammirato quel piccolo uomo di paese, dal sorriso triste.

Se ne andò in silenzio e con discrezione, come era vissuto, in una limpida giornata di giugno di quattro anni dopo.  L’ultima mostra, una antologica, fu allestita nella Biblioteca Comunale di Chiaramonte, che allora dirigevo, pochi giorni prima a fine maggio 1990: faticammo con Clara Damanti per convincere l’anziano maestro ad esporre i suoi dipinti. Ne scelse 54, tra quelli conservati e selezionati nel tempo, già destinati alla sua città, ove questa volesse accettarli ponendoli in uno spazio espositivo permanente (qui la voce del maestro si faceva rauca e tremolante, ma gli occhi avevano un guizzo di luce, mentre sul viso per un attimo si componeva un fuggevole sorriso). In effetti  quella raccolta oggi è la Pinacoteca De Vita (ospitata negli splendidi  saloni del Piano Nobile del Palazzo Montesano), donata nel 1995 dagli eredi, in primis la nipote Maria, esaudendo il desiderio del pittore.

Non ha  avuto, De Vita, illustri critici che lo abbiano recensito, né mostre in città o gallerie di grande risonanza; non ha collocazione critica ed artistica né tanto meno il suo nome è stato od è inserito nei rinomati repertori per le quotazioni di mercato. La sua personalità schiva ha certamente agevolato l’oblio. Scriveva nel 1987 il compianto Enzo Leopardi, altra voce sommessa di questo Sud spesso marginale, «Certamente De Vita forse è tutto da scoprire come pittore;  certamente non ha ancora avuto il posto che gli compete per la sua maturità d’arte, per la sua maestria compositiva, per la felicità d’interpretazione del dato reale. La sua eccessiva modestia, direttamente proporzionale alla sua bravura, non gli ha consentito finora di vantare le sue affermazioni in concorsi prestigiosi». A posteriori, ce ne accorgiamo. Le celebrazioni, come questo primo centenario della nascita, sono un riconoscimento tardivo, a conferma dell’assioma, che riletture  e riabilitazioni, sono spesso postume.              Giuseppe Cultrera     [2006] 


sabato 8 giugno 2013

Oggi sul "Corriere della Sera"

Corriere della Sera Sabato 8 Giugno 2013   











 

 

Chiaramonte Gulfi

Il balcone di Sicilia

amato da Sciascia

tra ulivi e vigneti


 


 


Adesso che sotto il «balcone di Sicilia» è (virtualmente) operante l’aeroporto di Comiso, la rocca di Chiaramonte Gulfi potrebbe diventare davvero la nicchia di un turismo di qualità. Perché se a Modica, Scicli ed in altri gioielli del barocco siciliano scelti come set dalla produzione del «Commissario Montalbano» è da tempo scattata un’attrazione fatale per scrittori, architetti, medici, agiati pensionati arrivati prima in vacanza e poi decisi ad acquistare un rudere o una villa liberty, la scommessa si fa ancora più immediata per chi domina tanto ben di Dio da questo «balcone» a 600 metri d’altezza. Eccolo il borgo medievale con vista su Comiso e Vittoria, fino al mare di Scoglitti. Il borgo dei boschi, dei grandi vini e soprattutto degli ulivi saraceni che danno l’olio più pregiato di Sicilia, come scoprì Veronelli nel 1965. Quieto eden amato da Sciascia e Bufalino. Ottomila abitanti e otto musei. Un’infinità di chiese e cappelle. Un centro storico tutto da riscoprire. E un santuario della cucina come la secolare trattoria di Salvatore Majore dove dal 1896 «si santifica il porco», come teorizzò estasiato il rettore buongustaio di Messina Salvatore Pugliatti. Fu lui a lasciare incidere il motto sulla parete sopra il suo tavolo a un pittore di prima grandezza, Giovanni De Vita, entusiasta quando il New York Times, già nell’aprile del 1987, dedicò un’intera pagina alle leccornie di Chiaramonte Gulfi con un titolo bilingue: «Where il porco is king». Pagina da albo d’oro, un librone con grandi firme, da Salvatore Fiume a Piero Guccione, da Bufalino a Sciascia, commensali eccellenti accompagnati qui da un allora giovanissimo poeta, Giovanni Catania, adesso vate e cicerone felice di tanta rinnovata attenzione sul paese tratteggiato nei suoi versi. Raccolte presentate da Giuseppe Cultrera, lo storico di tradizione locale, erede di un filone che qui comincia con Serafino Amabile Guastella, l’etnologo morto nel 1899, stesso anno di nascita di Vincenzo Rabito, il contadino semianalfabeta che ha lasciato un libro di mille pagine, «Terra matta», cuore del film girato da  Costanza Quatriglio fra questi angoli scelti come set non solo da Montalbano.

Perché basta lasciare il centro abitato per trovare, fra masserie ristrutturate, alberghetti e B&B di charme, Villa Fegotto dove hanno girato mille sequenze con Luca Zingaretti, ma anche con Philippe Noiret e Laura Morante, mantenendo intatte le scenografie di Marianna Ucria mostrate fra gli scaloni dei Vicerè dall’ospitale proprietario- avvocato, Aldo D’Avola. Lieto di spalancare il cancello come succede in contrada Zottopera all’ingegnere Giuseppe Rosso, produttore di ottimo olio e patron di un agriturismo ormai frequentato soprattutto da tedeschi. Perché è un passaparola continuo, come spiega Giuseppe Schembari, un collezionista di auto d’epoca che della passione sta facendo un mestiere. Crede al futuro ed è tornato dal Nord. «Come tanti figli di coltivatori che hanno studiato fuori», spiega il sindaco Vito Fornaro che con l’assessore Salvatore Vargetto punta a incentivare l’arrivo di turisti da catturare come residenti. Anche con la calamita del buon olio raccomandato dallo chef stellato del «Duomo» di Ragusa Ibla Ciccio Sultano ed esaltato da Carmelo Floridia, lo chef «laureato» al Boscolo di Firenze, da Mualdo a Crespi D’Adda, al Four Seasons di Milano e tornato qui in un angolo raffinato, la «Locanda Gulfi». Proprio il nome dei vini di Vito Catania, un imprenditore della chimica trapiantato ad Arcore, 15 mila clienti, deciso a lasciare un segno nel suo borgo. Con il figlio Davide nato a Monza ed «emigrato al Sud» per dare manforte a Floridia nel ristorante con vista su una cantina spettacolare.

Altro richiamo da aggiungere alle mille attrattive del «balcone» proiettato sul futuro, senza dimenticare il passato che vive nei musei del liberty, dell’olio, del ricamo, degli strumenti musicali, dei cimeli storici, dei paramenti sacri, in quello ornitologico e nella pinacoteca con le meraviglie di De Vita. Otto poste da aggiungere a un percorso (forse) presto raggiungibile con un low cost.

Felice Cavallaro