Sul
finire del secolo scorso chi, visitando Chiaramonte, si addentrava nella
suggestiva via Castello e per l’altalenante asimmetrica scalinata ascendeva
fino al poggio dell’antico abitato fortificato, si imbatteva a metà percorso in
una linda casetta, attraverso le cui porte-finestre si intravedeva l’interno di
una bottega di pittore. Le pareti interamente tappezzate di dipinti, gli spazi
angusti delle due o tre stanzette occupati da cavalletti, tavole e sedie con
altri dipinti, alcuni in fase di completamento altri appena abbozzati:
pennelli, colori, cornici da adattare a qualcuna di quelle opere, ovunque. Lui, l’artista, con l’inseparabile nazionale tra le labbra un pennello
nella destra ed un panno schizzato da mille colori nell’altra mano, si aggirava
tra paesaggi idilliaci, Madonne campestri, volti taciturni del sud, fiori e nature
morte, per depositare su una di quelle tele il tocco finale di un petalo esangue,
di un rossore di gota, di uno scintillio di cristallo. Giovanni De Vita, lo conoscevano
tutti a Chiaramonte, perché era avanti negli anni e da sempre amava incontrare
la gente, quella che curiosava nella sua bottega, passando da lì per andare a
far la spese o tornando dal duro lavoro, quelli del quartiere che si
affacciavano sul davanzale per scambiare due parole e commentare gli accaduti,
o coloro che incontrava dopo pranzo alla Società
Operaia o ai Giardini Pubblici sul far della sera. Ascoltava molto, perché
per natura era introverso, e parlava poco: ma con tono affabulatorio e saggezza
da vecchio.
Ricordo, nell’estate del 1986, quando incontrò un
altro affabulatore che amava più scrutare ed ascoltare, che parlare. Leonardo
Sciascia, volle conoscere quel tipo taciturno che la sera precedente era stato
premiato come siciliano insigne, poco prima di lui e che gli sedeva accanto: lo
attrasse forse in quell’esile corpo che sembrava ritirarsi dentro il vestito beige, un fulmineo ghigno serrato nelle
pieghe del volto scavato.
Il pittore aspettava sulla soglia del suo modesto
studio, in via Castello: lo scrittore, contornato da uno stuolo di amici, giornalisti
e curiosi si fece avanti tendendogli la mano e salutandolo. Il maestro
farfugliò qualcosa, poi più nitidamente (ma questo era il liet motiv con cui accoglieva gli occasionali visitatori) esternò
il proprio disagio per la modestia dell’ambiente, il disordine, la povertà di
vita. Disse qualcosa sull’Arte, come egli la intendesse, sulla passione
invereconda per questo mestiere, per come fosse contento del poco… Sciascia, il
capo leggermente chino, le labbra serrate, l’eterna sigaretta tra le dita
(quella che il maestro faceva volteggiare nell’altra mano, era della stessa
marca: lo scrittore di Racalmuto quando estraeva dal pacchetto l’ennesima, ne
offriva sempre una all’interlocutore) lo ascoltava immobile. Poi sollevando il capo ed appoggiandogli la mano
sulla spalla, aprendo la bocca ad un sorriso
- Se vuole posso interessarmi per farla esporre a Palermo, conosco
qualche gallerista, ho amici; mi
interesserò io stesso per la presentazione.
Tornò quel ghigno misterioso, ma ora era facilmente
decifrabile: sorriso disarmante di uomo di un piccolo paese del Sud, nel quale
si era rintanato, dove caparbiamente aveva esercitato l’esercizio catartico
dell’arte, sempre più solo, sempre più lontano da una funzione economica,
seppur minima, riducendosi a contemplare le sue opere senza aver voglia di
staccarsene, indignato per l’incapacità
degli eventuali compratori di concepire, la finalità di quel pezzo di
tela o cartone “scarabocchiato”, altra da sfondo per il salotto buono o schermo ad una macchia del muro.
Rispose di no. Che non se l’avesse a male, ma ormai
si sentiva vecchio e stanco e che quel trampolino per la fama lo aveva sempre
sognato con ardore, ma nel contempo temuto negli anni più verdi. La sua vita
tranquilla, nel paese, il poco di cui si contentava, gli bastavano. Grazie lo stesso.
Volle però, in segno di amicizia ed in ricordo di
quell’incontro, regalare all’illustre scrittore
un piccolo acquarello, la tecnica che più lo affascinava e nella quale
eccelleva. Sciascia lo prese e sorrise.
Confidò poi, che dapprima c’era rimasto male, poi aveva compreso ed ammirato
quel piccolo uomo di paese, dal sorriso triste.
Se ne andò in silenzio e con
discrezione, come era vissuto, in una limpida giornata di giugno di quattro
anni dopo. L’ultima mostra, una
antologica, fu allestita nella Biblioteca Comunale di Chiaramonte, che allora
dirigevo, pochi giorni prima a fine maggio 1990: faticammo con Clara Damanti
per convincere l’anziano maestro ad esporre i suoi dipinti. Ne scelse 54, tra
quelli conservati e selezionati nel tempo, già destinati alla sua città, ove
questa volesse accettarli ponendoli in uno spazio espositivo permanente (qui la
voce del maestro si faceva rauca e tremolante, ma gli occhi avevano un guizzo
di luce, mentre sul viso per un attimo si componeva un fuggevole sorriso). In
effetti quella raccolta oggi è la Pinacoteca De Vita
(ospitata negli splendidi saloni del Piano Nobile del Palazzo Montesano),
donata nel 1995 dagli eredi, in primis la nipote Maria, esaudendo il desiderio
del pittore.
Non ha avuto, De Vita, illustri critici che lo
abbiano recensito, né mostre in città o gallerie di grande risonanza; non ha
collocazione critica ed artistica né tanto meno il suo nome è stato od è
inserito nei rinomati repertori per le quotazioni di mercato. La sua
personalità schiva ha certamente agevolato l’oblio. Scriveva nel 1987 il
compianto Enzo Leopardi, altra voce sommessa di questo Sud spesso marginale,
«Certamente De Vita forse è tutto da scoprire come pittore; certamente non ha ancora avuto il posto che
gli compete per la sua maturità d’arte, per la sua maestria compositiva, per la
felicità d’interpretazione del dato reale. La sua eccessiva modestia,
direttamente proporzionale alla sua bravura, non gli ha consentito finora di
vantare le sue affermazioni in concorsi prestigiosi». A posteriori, ce ne
accorgiamo. Le celebrazioni, come questo primo centenario della nascita, sono
un riconoscimento tardivo, a conferma dell’assioma, che riletture e riabilitazioni, sono spesso postume. Giuseppe Cultrera [2006]
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