domenica 17 giugno 2012

Neviere degli Iblei

Preludio


1876. Pensavo allo stupore degli abitanti di Macondo, il giorno in cui nel loro sperduto paese giunse per la prima volta il ghiaccio...
«E' il diamante più grande del mondo.»
«No» corresse lo zingaro. «E' ghiaccio.»
Josè Arcadio Buendìa, senza capire, allungò la mano verso il blocco, ma il gigante gliela scostò: «Altri cinque reales per toccarlo» disse. Josè Arcadio Buendìa li pagò, e allora mise la mano sul ghiaccio, e ve la tenne per diversi minuti, mentre il cuore gli si gonfiava di timore e di giubilo al contatto col mistero. Senza sapere cosa dire, pagò altri dieci reales perché i suoi figli vivessero la prodigiosa esperienza. Il piccolo Josè Arcadio si rifiutò di toccarlo. Invece, Aureliano fece un passo, appoggiò la mano e la ritirò subito. «Sta bollendo» esclamò spaventato. Ma suo padre non gli fece caso. Ubriacato dall'evidenza del prodigio, in quel momento si dimenticò della frustrazione delle sue imprese deliranti e del corpo di Melquìades abbandonato all'appetito dei calamari. Pagò altri cinque reales e con la mano appoggiata al blocco di ghiaccio, come se stesse rendendo testimonianza sul testo sacro, esclamò: «Questa è la grande invenzione del nostro secolo.» 1           (1)   G. G. MARQUEZ, Cent'anni di solitudine, Milano, 1968; p. 18.
...allorquando mio nonno – classe 1876 – iniziava a raccontare della raccolta della neve sulle pendici dell'Arcibessi, del faticoso stipaggio nel ventre della capiente neviera di S. Giuseppe e della fila di carri, nell'estate successiva, per trasportarla – ma ora era solida e fumante massa ghiacciata – nei paesi della marina, Vittoria o Gela, adesso non ricordo più.
Era il 1972, e nel breve spazio di qualche giorno avevo divorato due o tre volte, Cent'anni di solitudine. Mio nonno, come i patriarchi di quella saga, quando era stanco di fissare l'orizzonte della marina, riandava al tempo passato e con lenta e cantilenante cadenza scioglieva grumi della memoria: gli ulivi del Raffo che carichi di verdi frutti si flettevano offrendosi alle rudi mani degli uomini che da terra o dall'alto delle scale, con rapido arpeggiare, li sparge-vano sul terreno, alla mercè della ciurma di ragazzi e donne; e le crivedde appena piene andavano a riempire i sacchi di lona, subito svuotati nei farinari del trappeto, «costruito con le mie mani»; e l'acre odore dell'olio che sgorgava dal conso, per riversarsi ... Era stato imprenditore agricolo, aveva strappato alla terra i semi e agli alberi i frutti per dare agiatezza alla sua numerosa famiglia, e lavoro – e qui i suoi occhi bruciati dal sole s'illuminavano d'orgoglio – a tanti poveri diavoli che la miseria dei tempi destinava alla fame. Aveva strappato alla terra il pane per sé e per gli altri; né si era tirato indietro, quando c'era stata la possibilità di un buon affare. Aveva preso a strasatto più volte i vasti uliveti del barone Montesano, della cui amicizia si onorava, l’appalto per la casetta cantoniera dello stradale del Paraspola, i pascoli di Vardaro, e c'era stato lavoro per tanti. Anche nell'appalto della neviera sull'Arcibessi.

1978. Se n'andò una brumosa giornata d'ottobre del 1978, quando aveva compiuto da poco 102 anni: come i patriarchi antichi carico di ricordi, di saggezza e di amore per il "mondo" che aveva espresso.


Neviere sull'Arcibessi. Almeno una ventina di neviere ancora sopravvivono, spesso celate agli occhi nostri dal rialzamento del terreno, dalla disgregazione della struttura o dal riattamento in cisterna; mute testimonianze d'archeologia industriale. Sono ubicate nell'altopiano attorno al Monte Arcibessi (mt. 906).
Un tempo furono una risorsa, anche se modesta, per il sostenta-mento, nel periodo invernale, di molti degli abitanti di Chiaramonte: specie tra il XVIII e il XIX secolo, quando esse ebbero, presumibilmente, origine e maggior utilizzo. E quando la materia prima, la neve, si spandeva abbondante e puntuale ogni inverno, sulle pendici e sul pianoro dell'Arcibessi, di Corulla, di Serra di Burgio, del Santissimo. Era allora che un banditore, per le vie del paesello anch’esse innevate, invitava, coloro che volevano buscarsi qualche soldo, a recarsi sull’altopiano soprastante per la raccolta della neve. Erano ragazzi ed anziani i destinatari della richiesta; agli uomini di fiducia del proprietario o dell'appaltante della neviera, invece, era riservato il compito di soprintendere, distribuendo il lavoro, curando il rabbocco della neve attraverso la botola e la sua sistemazione all'interno.
Non sempre era sufficiente un inverno per riempire la neviera, specialmente quando era particolarmente capiente e quando le nevicate non erano molte ed abbondanti. Né quando si era riempita fino all'orlo, era sufficiente l’estate successiva a svuotarla, essendo a volte bastevole per più anni (ma ciò avveniva certamente in quelle di Buccheri, il vicino paese ubicato sul Monte Lauro, specie nella Grotta Grande). Si faceva riferimento ad essa quando si favoleggiava di smisurate masse di neve, di montagne di ghiaccio custodite nelle viscere della terra:
«Quattro anni ci vollero per svuotarla tutta. E i carri andarono e vennero da Siracusa, Augusta, Ragusa e non so quante altre città, che sembrava una processione, o una fiera senza fine».
«C'erano 365 strati, uno per ogni giorno dell'anno, e da ognuno di essi venivano cavati fuori 365 carichi: non si finiva mai di tagliare blocchi ghiacciati, racchiuderli nella paglia e nella lona, e, a due per lato, caricarli sui muli, o in numero maggiore sui carri. Non si finiva mai!»
Il 19 marzo 1927 fu riempita per l'ultima volta, da otto soci e da una miriade di raccoglitori, da una ciurma di "pestatori" e da alacri operai che distribuirono quintali di paglia per isolarne i lati e creare i vari "sulati". Gli "imprenditori del freddo" impiegarono quattro anni per smaltire tutto il prodotto. Fu il loro canto del cigno: ma anche la fine di un'antica arte e di un'attiva "industria" diffusa negli iblei.
A Chiaramonte, si continuò ancora per un decennio, ed anche oltre. Ma adesso si era di molto ridimensionata la massa del prodotto (nevicava sempre di meno) e gli imprenditori erano pochi. Ed era sempre meno remunerativo lo smercio del ghiaccio, che avveniva nei paesi limitrofi, dove veniva utilizzato per il raffreddamento e la conservazione del pesce, o per confezionare sorbetti gelati e granite. Alcuni ambulanti vendevano piccole partite al dettaglio. Ma già incombeva la produzione industriale del ghiaccio: nelle grandi città come Catania, le neviere dell'Etna, che vantavano primogenitura e predominio sul mercato, avevano capitolato di fronte alle "fabbriche del freddo".
Sull'Arcibessi, inghiottite dal paesaggio montano, le strutture vuote e silenziose, esaurita la loro funzione, ora sembrano rientrare nel grembo della terra (nella quale costituzionalmente per oltre quattro quinti già stanno) per testimoniare, con sommessa voce, «un uso intelligente e accorto delle risorse».2

La voce del silenzio. Mio nonno aveva conosciuto le "comodità moderne" già in età adulta. Aveva cinquant’anni quando nel paese venne distribuita l'acqua attraverso le condutture, e quasi sessanta quando la luce artificiale sostituì lumi e candele; gli elettrodomestici, giunsero ancor dopo. Non so «che effetto gli facesse» il frigo, sostituto moderno della neviera che in gioventù aveva gestito soddisfacendo, anche se parzialmente, identiche esigenze. Di certo so che per l'elettrodomestico per eccellenza, l'ammaliatore ipnotico, provava diffidenza; rifuggendolo con fastidio (e non era certamente soltanto per i pro-blemi d’udito che con l'avanzare degli anni si acutizzavano); preferiva il rapporto umano – una partitina a carte, una chiacchierata – o il silenzio.
Da lui ho imparato quanto sia loquace il silenzio.
Come si utilizasse il ghiaccio per confezionare dolci freddi: non ricordo se me lo raccontasse lui od un altro, ma so di certo che mi lasciò stupito, più della tecnica autoctona, l'apparato scenico il colore e il calore umano, a contorno.
Mi sembra di vederlo Don * a cavalcioni sulla sedia, proprio sull'uscio del Caffè Roma, lo stipo d’alluminio stretto tra le gambe, intento ad un cadenzato ma vigoroso rimescolamento del contenuto. Prepara la granita. Il recipiente ha due scomparti, nel più interno è contenuto lo sciroppo di limone, mentre in quello esterno sale e pezzi di ghiaccio (più esattamente è la neve condensata, estratta in estate dai nevai dell'Arcibessi). Il nostro, facendo ruotare la parte interna, fa sì che lentamente il freddo del ghiaccio si trasmetta allo sciroppo, che di conseguenza si solidifica.
Ci vuol molto tempo e pazienza. Che non manca a chi abitualmente, in estate, questo rito replica innumerevoli volte, almeno fin tanto che ci sono notabili del paese od avventori del Caffè che richiedono granite e sorbetti. E poi, l’abitudine e la maestria acquisita permette all’operatore di condire la monotonia del lavoro con qualche chiacchiera e magari con l'anteprima di un fatterello salace e divertente, o un pettegolezzo fresco, "portato" da un avventore, abituale frequentatore della piazza (il bar dà sulla Piazza Duomo, il principale ritrovo del paese). Né si cruccia che gli occasionali interlocutori vanno e vengono, mentre lui è sempre sull'uscio del bar, e gli unici spostamenti durante il giorno son quelli di un metro più in qua ed uno più in là, per evitare la fara del sole che, tra mezzogiorno e vintinura, scivola lungo il prospetto del Caffè.
Il colorito racconto di chi ha vissuto momenti o avvenimenti adesso tramontati e non ripetibili, è spesso più "figurativo" di qualsiasi surrogato moderno atto a catturare e conservare l’accaduto: me ne rendo conto attingendo ai frammenti di memoria, regalo di amici appartenenti a quella generazione, per dare corpo "a questa lieve ricerca", più volte concepita e sempre differita... forse perché nello stillicidio del tempo alcune voci si sono riempite di silenzio...

Sfoglio un gruppo di foto ingiallite: su tutte si stende diafana e soffice la neve d'inverno. Anche le atmosfere, i personaggi, i luoghi di questa Chiaramonte di circa un secolo fa, sembrano rarefarsi, assorbire voci e rumori. Silenzio per le strade, sui tetti che fanno intravedere le montagne sovrastanti fin all'altopiano del Santissimo, di Serra di Burgio, di Corulla.  Qui esili figure si muovono, carichi di fardelli bianchi, come formiche che raccolgono il sostentamento per la stagione fredda; e come quelle, consegnano il raccolto all'ampio ventre delle neviere, ben più solide "tane" ma similmente destinate alla conservazione.
Suscitano stupore e curiosità, queste testimonianze di una "industria" povera, ma – nel contempo – capace di dare parziale sostentamento ai miseri jurnatari nella stagione fredda, quando per loro non c'era lavoro...  Si riempie il muto paesaggio della memoria di gemiti di vita.

(Giuseppe Cultrera, L’industria della neve.
Neviere degli Iblei, Chiaramonte Gulfi, Utopia, 2001; 
cap. 1° Preludio)

Lasciarsi qualche cosa dietro

"Ognuno deve lasciarsi qualche cosa dietro quando muore, diceva sempre mio nonno: un bimbo o un libro o un quadro o una casa o un muro eretto con le proprie mani o un paio di scarpe cucite da noi. O un giardino piantato col  nostro sudore. Qualche cosa insomma che la nostra mano abbia toccato in modo che la nostra anima abbia dove andare quando moriamo, e quando la gente guarderà l'albero o il fiore che abbiamo piantato, noi saremo là"
Ray Bradbury, Fahrenheit 451.