lunedì 16 dicembre 2013

Corteggiano le stelle

SAFFO, Frammento III
(da Eustazio, Sopra l'Iliade, VIII).
[traduzione di Giuseppe Bustelli, 1863]



Corteggiano le stelle
La graziosa luna;
E il volto splendente
Novellamente - celano, quand'ella
La terra tutta quanta
Dal pieno disco di candore ammanta.

domenica 6 ottobre 2013

Il segreto del gelato

Il segreto del gelato
Quattro componenti sono alla base del  gelato: la neve  -  lo zucchero  -  il limone  -  il sale tutte e quattro fin dal lontano passato abbondantemente presenti nell’isola di Sicilia.
Intorno al IX secolo gli arabi di Sicilia scoprono il “segreto”  del gelato; che era celato nell’effetto “endotermico” del sale sul ghiaccio: la combinazione dei due elementi causava un abbassamento ulteriore di temperatura di 5-6° che consentiva di congelare il liquido che veniva in contatto con i due elementi. Bastava  porre al suo interno  la preparazione di sciroppo acqua, succo di limone e zucchero, ed il prodigio si realizzava; come tecnicamente, ora vedremo.
Intanto va detto che già in tempi più antichi – a partire dagli Assiro-Babilonesi, agli Egizi, poi ai greci ed ai Romani – la neve era stata utilizzata direttamente per raffreddare cibi e bevande: ma nessuno era riuscito a realizzare quel dolce freddo , che oggi tutti conosciamo come gelato, sorbetto, semifreddo etc.
Ma veniamo alla realizzazione tecnica: che dagli arabi e fino all’avvento dei frigoriferi è stato sempre la stessa – per oltre mille anni!
Il succo di limone – ma in seguito si aggiunse il latte di mandorla, o l’estratto di tanti dolci frutti di Sicilia – con la giusta quantità di zucchero di canna allungato con acqua veniva posto in un recipiente metallico di forma cilindrica di non più di 5/6 litri chiuso da coperchio a tenuta stagna sormontato da un maniglione.  Il cilindro andava a sua volta introdotto al centro di un grosso mastello, per lo più di legno, largo una ventina di centimetri in più del cilindro ed alto fino alla base del maniglione. Completava l’attrezzatura un lungo cucchiaio in rame che dal lato opposto terminava appiattito a forma di raschino.
Ed ecco venire il turno del ghiaccio, estratto dalle neviere: spezzettato in frammenti di 30-40 grammi veniva steso sul fondo del mastello per uno spessore di circa 10 cm; e quindi irrorato abbondantemente di sale. Vi si poneva sopra il cilindro (detto anche pozzetto) e nelle intercapedini tra questo ed il mastello si aggiungeva altro ghiaccio spezzettato, ovviamente assieme ad altro sale.
Adesso veniva la fase di congelamento del liquido, facendo ruotare su se stesso il pozzetto, utilizzando il maniglione . A tratti ci si fermava, si apriva il coperchio e con l’estremità del cucchiaio, dal lato del raschino, si staccava lo strato di miscela che si andava congelando sulle pareti mescolandola alla massa liquida che così accelerava ancor più il processo di raffreddamento.
Si richiudeva e si ricominciava la rotazione. Così per varie volte fino al completo congelamento della massa liquorosa. Dopo circa un’ora era pronto un pastoso sorbetto, una densa granita o un soffice gelato. E’ chiaro che i tre tipi di dolce freddo erano frutto di una leggera variante nella lavorazione, negli ingredienti, nel tempo impiegato.
Con altri, ma lievi, accorgimenti tecnici ed arguzie di “cuochi”, così per oltre mille anni si realizzò in Sicilia il gelato.
Ed anche altrove. Dal 1500 da  Firenze, per  la genialità del Buontalenti , da Napoli, per opera dei cuochi di corte, si diffuse in Europa. Ma è Procopio Cotelli, palermitano o catanese secondo altri, che nel 1528 porta il sorbetto siciliano a Parigi, rendendo  la gelateria CHEZ PROCOPE il ritrovo più famoso, tanto che 200 anni dopo l’intellighentia francese, illuminista e liberale lo sceglie come luogo cult: Rousseau, Diderot, D’Alembert e Voltaire, elaborarono i principi della cultura moderna, probabilmente, sorbendone uno.
Il Cafè Procope esiste ancor oggi a Parigi.


lunedì 9 settembre 2013

!

Un cretino è un cretino. Due cretini sono due cretini. Diecimila cretini sono un partito politico (Franz Kafka)

domenica 25 agosto 2013

STORIE DI LEGNO

             “STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del maestro IANO CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo (Museo della Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25 agosto / 1 settembre 2013. Apertura: ore 17,30 – 21,30


Il filo di Arianna     

Il fioco raggio di sole saltella, pigro, dall’angolo di via Tommaso Chiavola alle prime case della Costanzo Ciano ed incrocia lo sguardo, per breve schermato dalla mano, di Iano Catania.
«Entriamo», mi invita col suo largo sorriso. E socchiude la grande porta finestrata che immette subito nella sua bottega. Subito: nel senso che a ridosso trovi il grande bancone da lavoro con morse pialle scalpelli e utensili vari sparsi e, poco accanto di lato di fronte sopra e sotto, scampoli di lavori, ultimati, rifiniti, appena iniziati, “prove d’autore” e bozzetti. Per chi lo conosce questo è il suo modo di lavorare. Immerso nel suo mondo e contemporaneamente applicato a più percorsi: restauro, recupero, rielaborazione, sperimentazione…

«Sono quarant’anni che lavoro in questa bottega. Tutti i giorni, dal mattino alla sera, spesso anche i festivi e la domenica» continua mentre socchiude l’anta. Mi chiedo cosa differenzia questo artigiano del XXI secolo da quelli che, nel secolo scorso e in quelli ancora precedenti, hanno esercitato con eguale passione e impegno lo stesso mestiere.


La testa del Cristo morente.

« Un giorno, parecchi anni fa, da Caltagirone mi fu portato per ripulirlo un Cristo Crocifisso (di quelli con braccia snodabili, utilizzati nella Settimana Santa). Era in cartapesta. Probabilmente settecentesco. Ma quello che mi colpì fu il viso, un misto di gotico e rinascimento con influssi spagnoleggianti. Più lo guardavo più mi convincevo che dovevo provare a riprodurlo.


Così iniziai ad intagliare il legno; con due sfide: quella di imitare l’opera e l’altra, più impegnativa (ma che mi ha sempre stimolato e accompagnato nella vita), di “leggere” e “trascrivere” quella peculiarità che mi aveva di primo impatto colpito. Ecco la storia – e mi indica, con ampio gesto della mano accompagnato da solare sorriso, la scultura appesa nella parete di fronte.


Altra sfida

« Molte cose che ho fatto sono frutto di curiosità, ricerca estetica, tentativo di penetrare la tecnica che, in quel periodo e in quelle condizioni storiche, l’artista ha messo in atto. Quello che più mi affascina è cercare di ripercorrere l’iter creativo dell’artigiano che, uno o tanti secoli fa, ha ideato e realizzato un’opera.  E’ stato così per il S. Vito, un’impresa che in alcuni momenti ho dubitato di riuscire a condurre a termine ».

Si ferma come sopraffatto dall’affanno. Non dall’enfasi o dall’accalo-rarsi nel discorso: ma proprio dalla fatica, che sembra rivivere a tratti, per la realizzazione di quel progetto.
« E’ stata una sfida. Con me stesso. Col tempo. Con Benedetto Cultraro e Melchiorre Ereddia! »
Il racconto dapprima è saltellante, inframmezzato da incisi, precisazioni e giustificazioni, poi scorre lieve, come i ricordi; si insinua l’amarezza del tempo che fugge veloce, i 23 anni di lotta con quel pezzo di legno di cricuopu che lo esalta ed abbatte. Capisco che è stato molto di più ed altro dal realizzare una scultura ostica; o carpire il segreto, delle colonne tortili e dell’esegesi popolare intrisa di spagnolesca controriforma.

E voglio raccontarvela a modo mio. Prendendola larga. Andando un bel po’ indietro nel tempo, per poi ritornare al presente.

Melchiorre Ereddia sarebbe secondo il Melfi -  storico locale che ebbe la fortuna di poter  attingere a numerosi documenti ed informazio- ni, ma dei quali sistematicamente non indica la fonte – uno scultore chiaramontano del secolo XVI, autore tra l’altro della statua in legno di S. Vito, patrono della città.  Autore anche di altre statue, in legno e cartapesta, quasi tutte  scomparse (l’Annunziata datata 1547, un tempo nell’omonima chiesa, Santa Maria Maddalena, fino agli anni ‘70 del secolo scorso nella chiesa del Carmelo e la Madonna del Carmine nella chiesa di S. Vito) ad eccezione del gruppo in legno e cartapesta di S. Filippo, datato 1547, che non esiterei ad attribuirgli per convergenze stilistiche e temporali(1). In tutte è presente l’ispirazione gotico rinascimentale, sottilmente asservita al dettato controriformistico. Non ci troviamo certamente in presenza di un artista, ma di un onesto artigiano che mutua stilemi colti ed afflati popolari. Lo lega agli artisti contemporanei (Nicolò Mineo, Stefano Lo Forte), di poco posteriori (Simone Mellini) e del secolo successivo (Benedetto Cultraro, Matteo Iannizzotto), un sottile filo di comunanza stilistica ed ideologica. Dentro si può leggere più o meno nitidamente il rinascimento manieristico nella dizione gaginiana: diluito per oltre due secoli.
Pertanto, il S. Vito di Ereddia è una delle prime testimonianze artistiche di questa scuola chiaramontana, il cui “capostipite” non conosciamo, ma i cui ultimi pigoni sono nel nostro tempo. La statua lignea è colorata e decorata. Le aggiunte, in altri materiali, sono posteriori.
Oltre alla funzione devozionale da subito se ne aggiunse una rappresentativa e processionale. Motivo per cui nei primi del settecento, quando la festa da popolare divenne barocca, si rese opportuno dotare la statua di un sontuoso baldacchino.
La vara processionale fu commissionata ad un artista locale, Benedetto Cutraro o Cultraro (ambivalenza che troviamo per molti di questa famiglia di artisti), esperto scultore del legno e della pietra, autore del paliotto della cappella del Crocifisso a S. Maria di Gesù datato e firmato (Io Benedetto Cultraro di Chiaramonte l’ho scolpito, 1711) e della tribuna in legno e pietra di S. Maria la Vetere che per molti versi replica, in grande formato, la “vara” del patrono.
Il Cultraro realizza nel 1719 un superbo manufatto barocco: la costruzione architettonica poggia su quattro colonne tortili e scanalate decorate a rilievo con teste di cherubini ed intrecci di foglie, terminanti con capitelli corinzi. All’interno la cupola segue la struttura degli archi a sesto ribassato ed è decorata a rilievo con motivi floreali, sul fondo verde.  All’esterno la struttura, a parallelepipedo con cornicione fortemente aggettato, si conclude con cupola sormontata dai simboli del martirio.
L’eleganza del manufatto viene ancor più evidenziata dalla ricca doratura in foglia oro.

Da ragazzo Sebastiano Catania aveva spesso ammirato in chiesa il gruppo scultoreo, affascinato dalla maestria e splendore dell’opera. Che non era sempre visibile (nel passato si usava tenere coperte le statue durante tutto l’anno, rendendole palesi ai devoti solo durante i festeggiamenti), ma nel breve periodo della festa aveva potuta ammirarne la raffinata tecnica.
Era nata allora, diceva, l’idea di cimentarsi con quest’opera del passato. Riprodurla significava carpirne i segreti, manifestare la propria adesione ad una ideologia dell’arte, che coniugava il passato col presente, la sacralità con la devozione. Ma questo divenne comprensione ed aspirazione quando, parecchi anni dopo, avendo appreso quell’arte, e dopo variegati percorsi di ricerca e apprendistato, riapprodava a Chiaramonte come ebanista. Fare di un lavoro una passione, un’arte come si diceva una volte, era certamente nelle sue aspirazioni. E furono utili, passione ed entusiasmo, nei primi tempi quando dovette confrontarsi con la difficoltà delle committenze, con le ristrettezze economiche, con la mentalità chiusa di un piccolo centro.
Intanto sempre più spesso veniva in contatto con le opere d’arte della città.
Per consulti per interventi di restauro o manutenzioni i rettori e i procuratori delle chiese si rivolgevano ai due esperti del paese, il Catania appunto, ed il maestro De Vita rinomato pittore.
Quella aspirazione infantile, si concretizzò di colpo nel 1970. Una sera decise che quella sfida non era più dilazionabile. Uno zio che conosceva i suoi “intervalli” di creazione artistica gli aveva regalato un pezzo di legno ben stagionato di albicocco (in siciliano cricuopu): da quel pezzo di legno  cominciava  l’esperimento ideato già da tempo e sempre procrastinato. Avrebbe realizzato per proprio sfizio, per se stesso, il gruppo scultoreo di Ereddia e Cultraro, tentando di carpirne la tecnica e riprodurne lo stile. Cominciò a lavorarci nel tempo libero, negli intervalli lavorativi, durante le festività. Dapprima con entusiasmo, poi con avversione: l’operazione si presentava più impegnativa di quanto avesse previsto. La vara del Cultraro, con le sue colonne tortili era di difficile resa.
Come diavolo aveva fatto quell’artigiano a realizzare delle colonne tortili asimmetriche, il cui riferimento stilistico e operativo non si riscontrava in nessun altro prodotto simile!  Anzi aveva verificato che nulla di simile esisteva in giro (egli era uno che si muoveva e usava osservare tutto ciò che avesse riferimento con la sua professione); neppure nelle pubblicazioni d’arte che consultava e quando poteva anche comprava. Rinunciò a cercare omologhi e si concentrò sulla soluzione del Cultraro. Guardò e riguardò quelle colonnine tortili, ne prese le misure sviluppò varie volte il disegno: alla fine capì il perché dell’asimmetria, trovando la propria soluzione applicativa. Lo sfizio stava proprio in quella riproposta maniacale del manufatto in scala ridotta e nel superare anche l’impasse!
Era però un lavoro lungo ed estenuante. E le difficoltà erano una appresso all’altra. Tanto che, ad un certo punto, decise di rinunciare.

Questa parte del suo racconto fu la più emotiva, anche perché – enfasi o nò – usò parole grosse come “era una questione di principio” oppure “era la sfida della mia vita” “dovevo farcela ad ogni costo”.

Ricominciò. Adesso deciso, però, a portare a termine l’opera; quasi fosse la sfida ultima della sua vita. (2)

Nel 1993 Iano Catania completa la riproduzione in scala del S. Vito: la certosina aderenza al modello originale abbinata alla tradizionale tecnica di esecuzione, fanno di questo esperimento solipsistico un atto d’amore per la tradizione artistica chiaramontana, il cui sottile filo - dal gotico medievale al manierismo rinascimentale  attraverso il settecento barocco e fino al novecento liberty – approda alla nostra epoca per testimoniare l’unicità della manualità artigianale.


A regola d’arte

Sul tavolo da lavoro, smontato, un tavolo da gioco 
« Probabile fattura isolana di inizio ottocento, proviene da un’agiata famiglia dell’area iblea. Ho la fortuna che l’interlocu-tore è persona competente, un architetto… altrimenti questo lavoro lungo e faticoso di recupero di inserti da integrare nella impellicciatura, restituendo funzionalità (“recupero filologico – diremmo oggi con linguaggio scientifico – aderente al manufatto”)  non verrebbe compreso appieno, specialmente nel rapporto costo….
Economicamente non è redditizio, perché spesso il cliente ritiene l’intervento di recupero o restauro eccessivamente costoso. Ma io penso che il lavoro, questo tipo di lavoro, abbia una sua dignità e gratificazione nella esecuzione come dicevano gli antichi “a regola d’arte”. Così va fatto. Ed io lo faccio ».
Lo guardo incollare quei minuscoli pezzetti, limare il bordo, porvi un morsetto… Mi verrebbe di attaccare con un ovvio (« Perciò ha oltre 40 che lavora in questa bottega, è al massimo del periodo lavorativo, perché non lascia e dedica il tempo a gratificanti hobbies o studi? ») ma mi trattengo; chè intuisco reazione e risposta.


Non male!

2004. Lo trovai, una mattina, con un pezzo di legno sbozzato.  – «Arancio, bello ma poco docile». E come a rispondere al mio tentativo di carpire il soggetto. – «Questa è la Madonna di Gulfi».
Mi ricordai che nei giorni precedenti collazionando le varie rappresentazioni plastiche – statue in pietra dura o tenera, bassorilievi, terrecotte – da esporre nella mostra per il 50° dell’Incoronazione, avevamo individuato una comune ascendenza, tardo rinascimentale, nelle  sculture della  Patrona di  Chiaramonte.  Che non era soltanto ade renza all’originale, di chiara impronta rinascimentale, ma ancor più il frutto di una lunga e continuata tradizione classicista che aveva origine con i mastri ed artigiani tardo gaginiani ed era proseguita, staticizzata, con i loro epigoni fino ai nostri giorni. A voler guardare attentamente, questo sottile filo di Arianna, era ampiamente riscontrabile nelle strutture architettoniche, negli ornati, negli arredi presenti in città. Anche se le soluzioni erano state più o meno felici: ma ciò atteneva alle capacità tecniche ed al gusto di ciascun artista.


« Ho capito, intende cimentarsi nella rappresentazione della statua della Madonna di Gulfi, evidenziandone il connotato manieristico ».
Nei giorni successivi, man mano che dal legno, venivano fuori i panneggi del manto, le movenze leziose del Bambino e lo sguardo ieratico della Vergine, la risposta del maestro Catania fu evidente.
«Perché non esporla alla mostra del mese prossimo. Sarebbe il manufatto più recente, nel solco della tradizione; l’anello che congiunge quelli del passato ad uno degli ultimi artisti artigiani di Chiaramonte».

Dapprima fu un intervallo fra un lavoro ed un altro, poi divenne (mi confidò il figlio Salvatore) la principale sua attenzione. Vi lavorava oltre che nel laboratorio anche a casa.
Qualche giorno prima che si aprisse la mostra, l’opera era completata. La guardò con soddisfazione: « Non male ».
Mi ricordava un altro artista, Giovanni de Vita, che abitava poco discosto dal laboratorio di falegnameria, nella via Castello. Quando aveva ultimato una sua opera, la mostrava agli amici o estimatori; e col pennello in una mano e l’altra a carezzare il mento: - Non male!  Voleva dire che era soddisfatto del risultato e che, a suo giudizio, era ben fatta. Dell’amicizia di questi due, degli scambi culturali, della comune pietas (quella che fa la differenza tra gli uomini straordinari e gli uomini ordinari 3) ci sarebbe molto da dire…

La mostra Regina Claramontis. Percorsi e segni, realizzata in occasione dei  festeggiamenti per il  50°  anniversario  dell’Incoronazione della Madonna di Gulfi nell’aprile/maggio 2004, è stata tra i momenti culturali più significativi della storia di Chiaramonte: per la grandiosità dell’allestimento, per l’elevato numero di visitatori e di personalità, per la varietà dei pezzi esposti (rari, preziosi e difficilmente visibili al pubblico, insieme e correlati). Moltissimo materiale perveniva da privati, tanto gelosi dei cimeli quanto restii a renderli visibili. Difficoltoso e impervio, pertanto, il percorso di raccolta dei reparti da esporre.
Consulente artistico, collaboratore generoso ma ancor più discreto e incisivo scopritore di giacimenti inaspettati, fu Sebastiano Catania. Man mano che organizzavo il catalogo, mentre appunti, annotazioni, lievi indizi divenivano un capitolo o paragrafo della mostra, quasi ogni giorno, generalmente nel tardo pomeriggio, lo incontravo nel suo laboratorio-bottega; gli mostravo le ultime scoperte, gli svelavo un indizio suggerito o detto a mezza voce da qualcuno, la traccia o il percorso di un pezzo. 
Per ogni dubbio per ogni indizio per ogni difficoltà c’era una risposta. Incredibile la sua memoria, la sua capacità di individuare persone ed oggetti. L’indomani mi rintracciava, trafelato: in un foglietto un numero di telefono, un indirizzo, un appuntamento già concordato oppure i dati relativi ad un reperto.

Il recupero del San Vinnoccu, un grande dipinto popolare che si esponeva in chiesa madre durante una delle serate del novenario fino agli inizi del secolo scorso, fu difficile e laborioso; ma alla fine, previa una pulizia discreta e rispettosa a cura dello stesso, fece bella mostra nella sezione dipinti. E non fu il solo intervento artistico-artigianale. La presenza fu costante e la disponibilità (assieme a quella del figlio Salvatore, collaboratore altrettanto colto ed esperto) consentì all’altro figlio, Raffaele, un allestimento dei percorsi e segni funzionale e nel contempo spettacolare (il grande pannello, alto più di cinque metri, che introduceva la mostra e verticalizzava lo spazio, fu di grande effetto) (4).


Fonti di ispirazione

Singolari ed esemplari le fonti d’ispirazione. Catania trae spunto da un “deposito” di memorie, documenti, elaborati, frammenti recuperati durante il suo lungo percorso artistico ed umano. Elabora, assembla, integra, muovendosi però sempre dentro il recinto culturale che genera o ispira l’opera e mantenendo la cifra stilistica della quale il manufatto è parte o complemento.
Un esempio.  A conclusione del restauro della chiesa di S. Maria di Gesù e del nuovo presbiterio, il guardiano Fra Carmelo Latteri, gli commissiona un Ciborio; con la precisa indicazione, però, dei soggetti biblici da realizzare in bassorilievo: la manna del deserto e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Per la struttura e gli ornati impiega vari legni (perché ognuno – mi spiega – ha una peculiarità o personalità che si esplicita a secondo dell’utilizzo): quercia, rovere, pero, ciliegio, cipresso, olivo, acero e sommacco. Come fonte d’ispirazione per gli episodi biblici da raffigurare nei pannelli e nella porta del tabernacolo recupera dal suo archivio alcune stampe del Dorè, che nel 1960 aveva sottratto, nel banco di vendita di Don Carruzzu, alla loro poco nobile funzione di incarto. Provenivano, mi confida sottovoce, da un gruppo di libri sacri cedute da un canonico chiaramontano al “putiaro”per eccellenza del piccolo centro ibleo.

Ancor più illuminante, per i percorsi e sostrati culturali contenuti, l’arredo della sacrestia del Santuario di Gulfi. Intanto si tratta di un dono dell’autore. In vari pezzi realizzati nell’arco di 18 anni: Armadi, cassettiere e Cappella con Crocifisso (1992/1996), tavolo (1998), porta del Giubileo (2000), bacheca “per grazia ricevuta” (2002), Crocifisso portatile (2002), Ambone (2005), Altare (2007), pannelli con gli Evangelisti (2009).
L’elemento più interessante è l’arredo che interpreta in chiave classicheggiante il Cassarizzo, antico armadio con cassettiere per riporvi arredi e paramenti sacri, presente in tutte le antiche chiese. Si compone di cinque pezzi: due armadi due cassettiere e al centro la cappella del Crocifisso. Per gli elementi decorativi delle ante trae ispirazione da  una spalliera di sedia  del  ‘500 veneto,  mentre i due  bassorilievi, l’Annunciazione (a sinistra) e la Natività (a destra) sono tratti, l’uno da una tavola della Bibbia illustrata da G. Dorè e l’altro, da una incisione del Gandini in un vecchio libro ottocentesco La Vita di Gesù di Strauss. Altrettanto “intrecciati” gli influssi negli altri elementi: la nicchia ha il modello in una stampa, i capitelli sono desunti da una tavola dell’Enciclopedia Treccani (“modello poco diffuso in arte” sottolinea il Catania), la cimasa, che corona tutta l’opera, da un pulpito di Nicola Pisano mentre i tondi con i quattro evangelisti, nelle ante, traggono modello da Duccio di Boninsegna, il grande Crocefisso, infine, coniuga arte, cultura popolare e passione artigianale. Il prototipo è un piccolo crocefisso in avorio approdato per restauro, anni prima, nella sua bottega, stimolando subito la sua attenzione e creatività. Detto fatto –racconta – si pose all’opera: ma come spesso era accaduto la riproduzione in scala risultò difficoltosa, in quanto alcuni piccoli difetti, dovuti alla lavorazione dell’avorio, nell’ingrandimento (di cinque volte) si espandevano mettendo a dura prova esperienza ed estro. Difficoltà superate egregiamente.
Continuiamo: Gli elementi decorativi ad intaglio del tavolo sono medievali, quelli delle gambe rimandano ad una colonna della cripta della cattedrale di Canterbury. La caratteristica griglia in legno, nella porta del Giubileo, riprende un motivo ideato dall’architetto francese Eugène Viollet Le Duc (1814/1879) per l’abbazia di Cluny. Crocifisso portatile, ambone ed altare, per la chiesa, recuperano stilemi settecenteschi, specie negli elementi decorativi.

Discorso che vale per quasi tutta la sua vasta ed eterogenea produzione; nella quale prevale l’attrazione per il classicismo e la riproposta, quando gli è possibile, di elementi stilistici del gotico e del rinascimento. La vulgata locale poi è assorbita, indagata, superata, stemperata in accademica riproposta, ironica rilettura dialettale e moderna lectio magistralis.
I tre personaggi che incontrate in questa mostra (invadenti e inbarazzanti; potremmo dire, persino, iconoclasti in un percorso sacro: per soggetti e temi) rappresentano questa peculiarità moderna, ironica ed accademica dello scultore Catania: u Massa Ciccu Malannata, Massa Minicu Causilienti e gentile consorte ‘gnà Pè Nascatisa, sono oltre che divertita rappresentazione del mondo lavorativo ibleo di ieri, ricerca introspettiva e condensato di storia dell’arte (il primo replica un profeta di Donatello, il secondo un ritratto del Bernini mentre il terzo è copia da Andrea Sansovino). (5)
Giuseppe Cultrera



Note
(1)  Artisti & artigiani, 2003, pag. 93; Il segno e il rito, 2007, pagina 105.
 (2) In quegli stessi anni Ferdinando Camon pubblicava Un altare per la madre (1978), intensa lettura dei valori del mondo contadino friulano: la parte centrale racconta del padre e della realizzazione di un altare in memoria della moglie. Opera lunga, impervia ed ostica per l’artigiano, impegnato contro il tempo e contro difficoltà stilistiche e plastiche, in una sfida irrinunciabile.
L’ho letto un paio di volte. E lo cito perché il racconto della lunga gestazione del S. Vito del maestro Catania - tra ardori ed entusiasmi iniziali,  scoramenti e ripensamenti successivi – lo trovo intriso della stessa pietas. Come la tensione per un mondo nel quale, la centralità del sacro, la dignità dell’uomo, la valenza maieutica e catartica del lavoro, sono presenze costanti.
(3) Ordinario, nell’accezione siciliana, significa comune (con nessuna inflessione negativa).
(4)  S. Nicola Tolentino, dipinto, olio su tela, secolo XIX (cm 200x300). Veniva esposta nella serata del Novenario gestita dai mugnai, dei quali è protettore. Era noto con la denominazione popolare di  Santu Vinnoccu. In Regina Claramontis. Percorsi e segni, catalogo della mostra, Chiaramonte, 2004; pagina 10, scheda 44.
(5)  Donatello (1386/1466); Gian Lorenzo Bernini (1598/ 1680); Andrea Sansovino (1467/1529).











Cresciuto nelle chiese di Chiaramonte, sempre affascinato da tutto ciò che riguarda l’architettura e l’arte decorativa. Privo di qualsiasi scuola a
riguardo, vissuto sempre in punta di piedi.
Oggi all’approssimarsi del capolinea della vita presento il mio lavoro in
buona compagnia del legno, che da 65 anni mi è sempre vicino, quale
artigiano, con i pregi e difetti che comporta la categoria…
Nella speranza che tutto ciò serva di stimolo ai giovani (futuro dell’umanità) ai quali va il mio invito alla cura e al rispetto del lavoro che i nostri antenati ci hanno insegnato. *                   Iano Catania
* Segnalibro Mostra: Storie di legno, Chiaramonte Gulfi, agosto 2009




Il legno. Essere vivente: nasce, cresce e muore.
Compagno inseparabile dell’uomo, sempre presente in mille
sembianze e mille occasioni. Dall’umile fiammifero in pioppo al, fuori moda, stuzzicadenti in betulla. 
Dalla trave in abete nella modesta casetta, all’imponente capriata della grande cattedrale.
Dalla cassetta delle elemosine al cassone intagliato in noce del
rinascimento. Dall’anonimo sgabello in abete ai monumentali stalli
delle chiese. Dalla sperduta capanna, alla spettacolare e colossale
impalcatura per costruire la cupola di S. Pietro.
Il legno!  compagno inseparabile lo accoglie come culla al suo arrivo e
lo accompagna nell’aldilà come letto in cui dormire l’ultimo sonno.” 
Iano Catania









 “STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del maestro IANO CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo (Museo della Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25 agosto / 1 settembre 2013. Apertura: ore 17,30 – 21,30


Esposizione                              


Testa di S. Giuseppe, pero intagliato, 1974.
Riproduce al vero la statua del presepe del Santuario di Gulfi.

San Francesco d’Assisi, intagliato in noce, fine anni ’80.
Ripropone una scultura in legno policromo di Pedro de Mena (1628 -1688).

Arredo sacrestia [Fotografie - *Particolari esposti]
Due armadi, due cassettiere, cappella con Crocifisso;  Santuario di Gulfi, 1992/96.
Elementi decorativi delle ante: intaglio di fondo tratto da una spalliera di sedia del ‘500 veneto; con bassorilievi (a sx Annunciazione, dalla Bibbia illustrata da Gustavo Dorè, a dx la Natività*, da un vecchio libro ottocentesco la Vita di Gesù di Strauss, incisore Gandini).
Decorazione delle ante in basso: intaglio tratto da una spalliera di sedia del ‘500 veneto. Fusto delle colonne* della cappella del Crocifisso: intaglio ad intreccio.  Capitelli* della stessa cappella: composito a foglie lisce., da un disegno nell’Enciclopedia Treccani dell’Arte antica (modello poco diffuso in arte). Ante degli armadietti: i quattro Evangelisti, da opera di Duccio di Boninsegna (Siena 1255/1318).
La cimasa che corona tutta l’opera trae ispirazione dal pulpito di Nicola Pisano (Pisa, 1220/1284).

Porta del Giubileo [Fotografia]
Sacrestia Santuario di Gulfi, legno lamellare di noce mansonia, irocho e noce nazionale; donazione, 2000. Caratteristica di questo manufatto è la griglia in legno, da una ricostruzione per l’abbazia di Cluny dall’architetto francese Eugène Viollet le Duc ( 1814-1879 )

Tavolo sacrestia [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale e noce mansonia, donazione, 1998.
Elementi decorativi medievali, piano intarsiato con pasta di riso, le gambe traggono ispirazione da una colonna della cripta della cattedrale di Canterbury (Inghilterra).

Ambone
Santuario di Gulfi, intagliato in noce, donazione, 2005.
Elementi decorativi settecenteschi.

Altare [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale, donazione, 2007.
Realizzato secondo i canoni dell’ebanisteria settecentesca.
Gli elementi decorativi, come le foglie e le volute si ispirano al piedistallo argenteo della Madonna di Gulfi; il cartiglio ad un pannello intagliato in noce del ‘600 italiano; il medaglione: le fasce decorative applicate e la decorazione di fondo, da bronzi dorati del settecento francese.

Crocifisso
Santuario di Gulfi,  donazione, 2002
Realizzato con i seguenti legni: noce mansonia (croce), cipresso(struttura), noce nazionale (supporto), pero (figura). Elementi decorativi settecenteschi.
Iscrizione: «11 gennaio 2012 - Donazione»

Cornice
Intagliata in noce satin, 2012. Donata al Museo etnomusicale di Chiaramonte. “Dedicata al valente concertista, tromba e tromba piccola Maestro Vito Calabrese, orgoglio musicale chiaramontano”

Ciborio  [Fotografia]
Chiesa S. Maria di Gesù; quercia rovere, pero, ciliegio, cipresso, olivo, acero, sommacco, 2003.
I soggetti biblici in bassorilievo nei pannelli laterali (La manna nel deserto e La moltiplicazione dei pani) e la decorazione della porta del tabernacolo sono conformi ad una precisa indicazione del Guardiano Fra Carmelo Latteri, committente.

Base
Chiesa S. Maria di Gesù, noce intagliata, donazione con dedica, 2007.
Intaglio della parte frontale da una transenna in marmo del VI secolo, che si trova nel Museo nazionale di Ravenna. L’intaglio dei pannelli laterali: da una porta lignea nella basilica di S. Sabina in Roma. Ha motivazione funzionale: serve ad esporre le statue dei santi Antonio e Francesco nel periodo delle loro feste.

Crocifisso
Noce nazionale e pero intagliato (i simboli degli Evangelisti), donato alla Curia Vescovile in occasione del X° anniversario dell’insediamento di S. E. Mons. Paolo Urso vescovo di Ragusa. 2012.

Calice
In olivo intagliato; donato a Don Giuseppe Russelli. 2013.

Ciotola
In palissandro, intagliata a mano senza ausiilio del tornio. Ginevra, 1964.

Capitello composito
A foglie lisce intagliato in legno pero.
Copia dal fercolo del SS.mo Cristo, nella chiesa di S. Giovanni Battista.

Capitello
Provino, colonna cappella del Crocifisso (Santuario di Gulfi, sacrestia)
Si ispira alla Domus del tempio rotondo di Ostia. Capitello composito a foglie liscie, IV secolo.

Il profeta barbuto,
Bassorilievo in noce satin, 2009.
Copia del Profeta barbuto, scultura in marmo di Donatello.
Nel cartiglio scritta dantesca «Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede».

S. Sebastiano
In noce; giugno 2008.
Cornice intagliata in noce con bassorilievo raffigurante il martirio di S. Sebastiano. Da una scultura in legno policromo di Alonzo Berruguete (1488-1561), Spagna.

S.Vito
Statua e fercolo, legno intagliato, 1970-1993
Riproduzione in scala 1:5 della statua lignea di Melchiorre Ereddia e del  capolavoro barocco di Benedetto Cultraro (1719), realizzato in albicocco (fercolo) e pero (statua) a più riprese  nell’arco di 23 anni, dal 1970 al 1993, «con certosina ricerca dell’aderenza al minimo particolare».

Maria SS.ma di Gulfi,
arancio, 2004.
Realizzata in occasione del 50 anniversario dell’Incoronazione ed esposto nella mostra Regina Claramontis (Chiaramonte Gulfi, aprile/maggio 2004).

Catene (2)
intagliate in monoblocco di acero; 2009.
Nella iconografia cristiana hanno significato positivo in quanto uniscono il Cielo e la terra.

Cornice
Intagliata in noce nazionale; da un originale dorato, fine settecento.

Cartiglio
Intagliato in noce satin, 2010. Dono. Sacrestia della Chiesa Madre, Chiaramonte Gulfi.

Candelabro
Intaglio in noce azionale, 2013. Dono. Santuario di Gulfi.

Tre busti, tiglio e pero; donati ed esposti al Museo dell’olio di Chiaramonte Gulfi. 2013. Personaggi tipici del vecchio frantoio (trappitu) con nome e soprannome antichi in dialetto chiaramontano.

Massa Ciccu malannata (masciu ri cuonzu), pero.

Massa Minicu causilienti (trappitaru), tiglio.

A gnà Pè nascatisa (trappitara), tiglio.

* Salvo diversa indicazione, le opere esposte si trovano tutte a Chiaramonte Gulfi.

Storie di legno

 “STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del maestro IANO CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo (Museo della Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25 agosto / 1 settembre 2013. Apertura: ore 17,30 – 21,30


Il filo di Arianna

Il fioco raggio di sole saltella, pigro, dall’angolo di via Tommaso Chiavola alle prime case della Costanzo Ciano ed incrocia lo sguardo, per breve schermato dalla mano, di Iano Catania.
«Entriamo», mi invita col suo largo sorriso. E socchiude la grande porta finestrata che immette subito nella sua bottega. Subito: nel senso che a ridosso trovi il grande bancone da lavoro con morse pialle scalpelli e utensili vari sparsi e, poco accanto di lato di fronte sopra e sotto, scampoli di lavori, ultimati, rifiniti, appena iniziati, “prove d’autore” e bozzetti. Per chi lo conosce questo è il suo modo di lavorare. Immerso nel suo mondo e contemporaneamente applicato a più percorsi: restauro, recupero, rielaborazione, sperimentazione…

«Sono quarant’anni che lavoro in questa bottega. Tutti i giorni, dal mattino alla sera, spesso anche i festivi e la domenica» continua mentre socchiude l’anta. Mi chiedo cosa differenzia questo artigiano del XXI secolo da quelli che, nel secolo scorso e in quelli ancora precedenti, hanno esercitato con eguale passione e impegno lo stesso mestiere.

La testa del Cristo morente.
« Un giorno, parecchi anni fa, da Caltagirone mi fu portato per ripulirlo un Cristo Crocifisso (di quelli con braccia snodabili, utilizzati nella Settimana Santa). Era in cartapesta. Probabilmente settecentesco. Ma quello che mi colpì fu il viso, un misto di gotico e rinascimento con influssi spagnoleggianti. Più lo guardavo più mi convincevo che dovevo provare a riprodurlo. Così iniziai ad intagliare il legno; con due sfide: quella di imitare l’opera e l’altra, più impegnativa (ma che mi ha sempre stimolato e accompagnato nella vita), di “leggere” e “trascrivere” quella peculiarità che mi aveva di primo impatto colpito. Ecco la storia – e mi indica, con ampio gesto della mano accompagnato da solare sorriso, la scultura appesa nella parete di fronte.

Altra sfida
« Molte cose che ho fatto sono frutto di curiosità, ricerca estetica, tentativo di penetrare la tecnica che, in quel periodo e in quelle condizioni storiche, l’artista ha messo in atto. Quello che più mi affascina è cercare di ripercorrere l’iter creativo dell’artigiano che, uno o tanti secoli fa, ha ideato e realizzato un’opera.  E’ stato così per il S. Vito, un’impresa che in alcuni momenti ho dubitato di riuscire a condurre a termine ».

Si ferma come sopraffatto dall’affanno. Non dall’enfasi o dall’accalo-rarsi nel discorso: ma proprio dalla fatica, che sembra rivivere a tratti, per la realizzazione di quel progetto.
« E’ stata una sfida. Con me stesso. Col tempo. Con Benedetto Cultraro e Melchiorre Ereddia! »
Il racconto dapprima è saltellante, inframmezzato da incisi, precisazioni e giustificazioni, poi scorre lieve, come i ricordi; si insinua l’amarezza del tempo che fugge veloce, i 23 anni di lotta con quel pezzo di legno di cricuopu che lo esalta ed abbatte. Capisco che è stato molto di più ed altro dal realizzare una scultura ostica; o carpire il segreto, delle colonne tortili e dell’esegesi popolare intrisa di spagnolesca controriforma.

E voglio raccontarvela a modo mio. Prendendola larga. Andando un bel po’ indietro nel tempo, per poi ritornare al presente.

Melchiorre Ereddia sarebbe secondo il Melfi -  storico locale che ebbe la fortuna di poter  attingere a numerosi documenti ed informazio- ni, ma dei quali sistematicamente non indica la fonte – uno scultore chiaramontano del secolo XVI, autore tra l’altro della statua in legno di S. Vito, patrono della città. Autore anche di altre statue, in legno e cartapesta, quasi tutte scomparse (l’Annunziata datata 1547, un tempo nell’omonima chiesa, Santa Maria Maddalena, fino agli anni ‘70 del secolo scorso nella chiesa del Carmelo e la Madonna del Carmine nella chiesa di S. Vito) ad eccezione del gruppo in legno e cartapesta di S. Filippo, datato 1547, che non esiterei ad attribuirgli per convergenze stilistiche e temporali(1). In tutte è presente l’ispirazione gotico rinascimentale, sottilmente asservita al dettato controriformistico. Non ci troviamo certamente in presenza di un artista, ma di un onesto artigiano che mutua stilemi colti ed afflati popolari. Lo lega agli artisti contemporanei (Nicolò Mineo, Stefano Lo Forte), di poco posteriori (Simone Mellini) e del secolo successivo (Benedetto Cultraro, Matteo Iannizzotto), un sottile filo di comunanza stilistica ed ideologica. Dentro si può leggere più o meno nitidamente il rinascimento manieristico nella dizione gaginiana: diluito per oltre due secoli.
Pertanto, il S. Vito di Ereddia è una delle prime testimonianze artistiche di questa scuola chiaramontana, il cui “capostipite” non conosciamo, ma i cui ultimi pigoni sono nel nostro tempo. La statua lignea è colorata e decorata. Le aggiunte, in altri materiali, sono posteriori.
Oltre alla funzione devozionale da subito se ne aggiunse una rappresentativa e processionale. Motivo per cui nei primi del settecento, quando la festa da popolare divenne barocca, si rese opportuno dotare la statua di un sontuoso baldacchino.
La vara processionale fu commissionata ad un artista locale, Benedetto Cutraro o Cultraro (ambivalenza che troviamo per molti di questa famiglia di artisti), esperto scultore del legno e della pietra, autore del paliotto della cappella del Crocifisso a S. Maria di Gesù datato e firmato (Io Benedetto Cultraro di Chiaramonte l’ho scolpito, 1711) e della tribuna in legno e pietra di S. Maria la Vetere che per molti versi replica, in grande formato, la “vara” del patrono.
Il Cultraro realizza nel 1719 un superbo manufatto barocco: la costruzione architettonica poggia su quattro colonne tortili e scanalate decorate a rilievo con teste di cherubini ed intrecci di foglie, terminanti con capitelli corinzi. All’interno la cupola segue la struttura degli archi a sesto ribassato ed è decorata a rilievo con motivi floreali, sul fondo verde.  All’esterno la struttura, a parallelepipedo con cornicione fortemente aggettato, si conclude con cupola sormontata dai simboli del martirio. L’eleganza del manufatto viene ancor più evidenziata dalla ricca doratura in foglia oro.

Da ragazzo Sebastiano Catania aveva spesso ammirato in chiesa il gruppo scultoreo, affascinato dalla maestria e splendore dell’opera. Che non era sempre visibile (nel passato si usava tenere coperte le statue durante tutto l’anno, rendendole palesi ai devoti solo durante i festeggiamenti), ma nel breve periodo della festa aveva potuta ammirarne la raffinata tecnica.
Era nata allora, diceva, l’idea di cimentarsi con quest’opera del passato. Riprodurla significava carpirne i segreti, manifestare la propria adesione ad una ideologia dell’arte, che coniugava il passato col presente, la sacralità con la devozione. Ma questo divenne comprensione ed aspirazione quando, parecchi anni dopo, avendo appreso quell’arte, e dopo variegati percorsi di ricerca e apprendistato, riapprodava a Chiaramonte come ebanista. Fare di un lavoro una passione, un’arte come si diceva una volte, era certamente nelle sue aspirazioni. E furono utili, passione ed entusiasmo, nei primi tempi quando dovette confrontarsi con la difficoltà delle committenze, con le ristrettezze economiche, con la mentalità chiusa di un piccolo centro.
Intanto sempre più spesso veniva in contatto con le opere d’arte della città.
Per consulti per interventi di restauro o manutenzioni i rettori e i procuratori delle chiese si rivolgevano ai due esperti del paese, il Catania appunto, ed il maestro De Vita rinomato pittore.
Quella aspirazione infantile, si concretizzò di colpo nel 1970. Una sera decise che quella sfida non era più dilazionabile. Uno zio che conosceva i suoi “intervalli” di creazione artistica gli aveva regalato un pezzo di legno ben stagionato di albicocco (in siciliano cricuopu): da quel pezzo di legno  cominciava  l’esperimento ideato già da tempo e sempre procrastinato. Avrebbe realizzato per proprio sfizio, per se stesso, il gruppo scultoreo di Ereddia e Cultraro, tentando di carpirne la tecnica e riprodurne lo stile. Cominciò a lavorarci nel tempo libero, negli intervalli lavorativi, durante le festività. Dapprima con entusiasmo, poi con avversione: l’operazione si presentava più impegnativa di quanto avesse previsto. La vara del Cultraro, con le sue colonne tortili era di difficile resa. Come diavolo aveva fatto quell’artigiano a realizzare delle colonne tortili asimmetriche, il cui riferimento stilistico e operativo non si riscontrava in nessun altro prodotto simile!  Anzi aveva verificato che nulla di simile esisteva in giro (egli era uno che si muoveva e usava osservare tutto ciò che avesse riferimento con la sua professione); neppure nelle pubblicazioni d’arte che consultava e quando poteva anche comprava. Rinunciò a cercare omologhi e si concentrò sulla soluzione del Cultraro. Guardò e riguardò quelle colonnine tortili, ne prese le misure sviluppò varie volte il disegno: alla fine capì il perché dell’asimmetria, trovando la propria soluzione applicativa. Lo sfizio stava proprio in quella riproposta maniacale del manufatto in scala ridotta e nel superare anche l’impasse!
Era però un lavoro lungo ed estenuante. E le difficoltà erano una appresso all’altra. Tanto che, ad un certo punto, decise di rinunciare.

Questa parte del suo racconto fu la più emotiva, anche perché – enfasi o nò – usò parole grosse come “era una questione di principio” oppure “era la sfida della mia vita” “dovevo farcela ad ogni costo”.

Ricominciò. Adesso deciso, però, a portare a termine l’opera; quasi fosse la sfida ultima della sua vita. (2)

Nel 1993 Iano Catania completa la riproduzione in scala del S. Vito: la certosina aderenza al modello originale abbinata alla tradizionale tecnica di esecuzione, fanno di questo esperimento solipsistico un atto d’amore per la tradizione artistica chiaramontana, il cui sottile filo - dal gotico medievale al manierismo rinascimentale  attraverso il settecento barocco e fino al novecento liberty – approda alla nostra epoca per testimoniare l’unicità della manualità artigianale.


A regola d’arte
Sul tavolo da lavoro, smontato, un tavolo da gioco 
« Probabile fattura isolana di inizio ottocento, proviene da un’agiata famiglia dell’area iblea. Ho la fortuna che l’interlocu-tore è persona competente, un architetto… altrimenti questo lavoro lungo e faticoso di recupero di inserti da integrare nella impellicciatura, restituendo funzionalità (“recupero filologico – diremmo oggi con linguaggio scientifico – aderente al manufatto”)  non verrebbe compreso appieno, specialmente nel rapporto costo….
Economicamente non è redditizio, perché spesso il cliente ritiene l’intervento di recupero o restauro eccessivamente costoso. Ma io penso che il lavoro, questo tipo di lavoro, abbia una sua dignità e gratificazione nella esecuzione come dicevano gli antichi “a regola d’arte”. Così va fatto. Ed io lo faccio ».
Lo guardo incollare quei minuscoli pezzetti, limare il bordo, porvi un morsetto… Mi verrebbe di attaccare con un ovvio (« Perciò ha oltre 40 che lavora in questa bottega, è al massimo del periodo lavorativo, perché non lascia e dedica il tempo a gratificanti hobbies o studi? ») ma mi trattengo; chè intuisco reazione e risposta.


Non male!
2004. Lo trovai, una mattina, con un pezzo di legno sbozzato.  – «Arancio, bello ma poco docile». E come a rispondere al mio tentativo di carpire il soggetto. – «Questa è la Madonna di Gulfi».
Mi ricordai che nei giorni precedenti collazionando le varie rappresentazioni plastiche – statue in pietra dura o tenera, bassorilievi, terrecotte – da esporre nella mostra per il 50° dell’Incoronazione, avevamo individuato una comune ascendenza, tardo rinascimentale, nelle  sculture della  Patrona di  Chiaramonte.  Che non era soltanto aderenza all’originale, di chiara impronta rinascimentale, ma ancor più il frutto di una lunga e continuata tradizione classicista che aveva origine con i mastri ed artigiani tardo gaginiani ed era proseguita, staticizzata, con i loro epigoni fino ai nostri giorni. A voler guardare attentamente, questo sottile filo di Arianna, era ampiamente riscontrabile nelle strutture architettoniche, negli ornati, negli arredi presenti in città. Anche se le soluzioni erano state più o meno felici: ma ciò atteneva alle capacità tecniche ed al gusto di ciascun artista.

« Ho capito, intende cimentarsi nella rappresentazione della statua della Madonna di Gulfi, evidenziandone il connotato manieristico ».
Nei giorni successivi, man mano che dal legno, venivano fuori i panneggi del manto, le movenze leziose del Bambino e lo sguardo ieratico della Vergine, la risposta del maestro Catania fu evidente.
«Perché non esporla alla mostra del mese prossimo. Sarebbe il manufatto più recente, nel solco della tradizione; l’anello che congiunge quelli del passato ad uno degli ultimi artisti artigiani di Chiaramonte».

Dapprima fu un intervallo fra un lavoro ed un altro, poi divenne (mi confidò il figlio Salvatore) la principale sua attenzione. Vi lavorava oltre che nel laboratorio anche a casa.
Qualche giorno prima che si aprisse la mostra, l’opera era completata. La guardò con soddisfazione: « Non male ».
Mi ricordava un altro artista, Giovanni de Vita, che abitava poco discosto dal laboratorio di falegnameria, nella via Castello. Quando aveva ultimato una sua opera, la mostrava agli amici o estimatori; e col pennello in una mano e l’altra a carezzare il mento: - Non male!  Voleva dire che era soddisfatto del risultato e che, a suo giudizio, era ben fatta. Dell’amicizia di questi due, degli scambi culturali, della comune pietas (quella che fa la differenza tra gli uomini straordinari e gli uomini ordinari 3) ci sarebbe molto da dire…

La mostra Regina Claramontis. Percorsi e segni, realizzata in occasione dei  festeggiamenti per il  50°  anniversario  dell’Incoronazione della Madonna di Gulfi nell’aprile/maggio 2004, è stata tra i momenti culturali più significativi della storia di Chiaramonte: per la grandiosità dell’allestimento, per l’elevato numero di visitatori e di personalità, per la varietà dei pezzi esposti (rari, preziosi e difficilmente visibili al pubblico, insieme e correlati). Moltissimo materiale perveniva da privati, tanto gelosi dei cimeli quanto restii a renderli visibili. Difficoltoso e impervio, pertanto, il percorso di raccolta dei reparti da esporre.
Consulente artistico, collaboratore generoso ma ancor più discreto e incisivo scopritore di giacimenti inaspettati, fu Sebastiano Catania. Man mano che organizzavo il catalogo, mentre appunti, annotazioni, lievi indizi divenivano un capitolo o paragrafo della mostra, quasi ogni giorno, generalmente nel tardo pomeriggio, lo incontravo nel suo laboratorio-bottega; gli mostravo le ultime scoperte, gli svelavo un indizio suggerito o detto a mezza voce da qualcuno, la traccia o il percorso di un pezzo. Per ogni dubbio per ogni indizio per ogni difficoltà c’era una risposta. Incredibile la sua memoria, la sua capacità di individuare persone ed oggetti. L’indomani mi rintracciava, trafelato: in un foglietto un numero di telefono, un indirizzo, un appuntamento già concordato oppure i dati relativi ad un reperto.

Il recupero del San Vinnoccu, un grande dipinto popolare che si esponeva in chiesa madre durante una delle serate del novenario fino agli inizi del secolo scorso, fu difficile e laborioso; ma alla fine, previa una pulizia discreta e rispettosa a cura dello stesso, fece bella mostra nella sezione dipinti. E non fu il solo intervento artistico-artigianale. La presenza fu costante e la disponibilità (assieme a quella del figlio Salvatore, collaboratore altrettanto colto ed esperto) consentì all’altro figlio, Raffaele, un allestimento dei percorsi e segni funzionale e nel contempo spettacolare (il grande pannello, alto più di cinque metri, che introduceva la mostra e verticalizzava lo spazio, fu di grande effetto) (4).


Fonti di ispirazione
Singolari ed esemplari le fonti d’ispirazione. Catania trae spunto da un “deposito” di memorie, documenti, elaborati, frammenti recuperati durante il suo lungo percorso artistico ed umano. Elabora, assembla, integra, muovendosi però sempre dentro il recinto culturale che genera o ispira l’opera e mantenendo la cifra stilistica della quale il manufatto è parte o complemento.
Un esempio.  A conclusione del restauro della chiesa di S. Maria di Gesù e del nuovo presbiterio, il guardiano Fra Carmelo Latteri, gli commissiona un Ciborio; con la precisa indicazione, però, dei soggetti biblici da realizzare in bassorilievo: la manna del deserto e la moltiplicazione dei pani e dei pesci. Per la struttura e gli ornati impiega vari legni (perché ognuno – mi spiega – ha una peculiarità o personalità che si esplicita a secondo dell’utilizzo): quercia, rovere, pero, ciliegio, cipresso, olivo, acero e sommacco. Come fonte d’ispirazione per gli episodi biblici da raffigurare nei pannelli e nella porta del tabernacolo recupera dal suo archivio alcune stampe del Dorè, che nel 1960 aveva sottratto, nel banco di vendita di Don Carruzzu, alla loro poco nobile funzione di incarto. Provenivano, mi confida sottovoce, da un gruppo di libri sacri cedute da un canonico chiaramontano al “putiaro”per eccellenza del piccolo centro ibleo.

Ancor più illuminante, per i percorsi e sostrati culturali contenuti, l’arredo della sacrestia del Santuario di Gulfi. Intanto si tratta di un dono dell’autore. In vari pezzi realizzati nell’arco di 18 anni: Armadi, cassettiere e Cappella con Crocifisso (1992/1996), tavolo (1998), porta del Giubileo (2000), bacheca “per grazia ricevuta” (2002), Crocifisso portatile (2002), Ambone (2005), Altare (2007), pannelli con gli Evangelisti (2009).
L’elemento più interessante è l’arredo che interpreta in chiave classicheggiante il Cassarizzo, antico armadio con cassettiere per riporvi arredi e paramenti sacri, presente in tutte le antiche chiese. Si compone di cinque pezzi: due armadi due cassettiere e al centro la cappella del Crocifisso. Per gli elementi decorativi delle ante trae ispirazione da  una spalliera di sedia  del  ‘500 veneto,  mentre i due  bassorilievi, l’Annunciazione (a sinistra) e la Natività (a destra) sono tratti, l’uno da una tavola della Bibbia illustrata da G. Dorè e l’altro, da una incisione del Gandini in un vecchio libro ottocentesco La Vita di Gesù di Strauss. Altrettanto “intrecciati” gli influssi negli altri elementi: la nicchia ha il modello in una stampa, i capitelli sono desunti da una tavola dell’Enciclopedia Treccani (“modello poco diffuso in arte” sottolinea il Catania), la cimasa, che corona tutta l’opera, da un pulpito di Nicola Pisano mentre i tondi con i quattro evangelisti, nelle ante, traggono modello da Duccio di Boninsegna, il grande Crocefisso, infine, coniuga arte, cultura popolare e passione artigianale. Il prototipo è un piccolo crocefisso in avorio approdato per restauro, anni prima, nella sua bottega, stimolando subito la sua attenzione e creatività. Detto fatto –racconta – si pose all’opera: ma come spesso era accaduto la riproduzione in scala risultò difficoltosa, in quanto alcuni piccoli difetti, dovuti alla lavorazione dell’avorio, nell’ingrandimento (di cinque volte) si espandevano mettendo a dura prova esperienza ed estro. Difficoltà superate egregiamente.
Continuiamo: Gli elementi decorativi ad intaglio del tavolo sono medievali, quelli delle gambe rimandano ad una colonna della cripta della cattedrale di Canterbury. La caratteristica griglia in legno, nella porta del Giubileo, riprende un motivo ideato dall’architetto francese Eugène Viollet Le Duc (1814/1879) per l’abbazia di Cluny. Crocifisso portatile, ambone ed altare, per la chiesa, recuperano stilemi settecenteschi, specie negli elementi decorativi.

Discorso che vale per quasi tutta la sua vasta ed eterogenea produzione; nella quale prevale l’attrazione per il classicismo e la riproposta, quando gli è possibile, di elementi stilistici del gotico e del rinascimento. La vulgata locale poi è assorbita, indagata, superata, stemperata in accademica riproposta, ironica rilettura dialettale e moderna lectio magistralis.
I tre personaggi che incontrate in questa mostra (invadenti e inbarazzanti; potremmo dire, persino, iconoclasti in un percorso sacro: per soggetti e temi) rappresentano questa peculiarità moderna, ironica ed accademica dello scultore Catania: u Massa Ciccu Malannata, Massa Minicu Causilienti e gentile consorte ‘gnà Pè Nascatisa, sono oltre che divertita rappresentazione del mondo lavorativo ibleo di ieri, ricerca introspettiva e condensato di storia dell’arte (il primo replica un profeta di Donatello, il secondo un ritratto del Bernini mentre il terzo è copia da Andrea Sansovino). (5)
Giuseppe Cultrera

Note
(1)  Artisti & artigiani, 2003, pag. 93; Il segno e il rito, 2007, pagina 105.
 (2) In quegli stessi anni Ferdinando Camon pubblicava Un altare per la madre (1978), intensa lettura dei valori del mondo contadino friulano: la parte centrale racconta del padre e della realizzazione di un altare in memoria della moglie. Opera lunga, impervia ed ostica per l’artigiano, impegnato contro il tempo e contro difficoltà stilistiche e plastiche, in una sfida irrinunciabile.
L’ho letto un paio di volte. E lo cito perché il racconto della lunga gestazione del S. Vito del maestro Catania - tra ardori ed entusiasmi iniziali,  scoramenti e ripensamenti successivi – lo trovo intriso della stessa pietas. Come la tensione per un mondo nel quale, la centralità del sacro, la dignità dell’uomo, la valenza maieutica e catartica del lavoro, sono presenze costanti.
(3) Ordinario, nell’accezione siciliana, significa comune (con nessuna inflessione negativa).
(4)  S. Nicola Tolentino, dipinto, olio su tela, secolo XIX (cm 200x300). Veniva esposta nella serata del Novenario gestita dai mugnai, dei quali è protettore. Era noto con la denominazione popolare di  Santu Vinnoccu. In Regina Claramontis. Percorsi e segni, catalogo della mostra, Chiaramonte, 2004; pagina 10, scheda 44.
(5)  Donatello (1386/1466); Gian Lorenzo Bernini (1598/ 1680); Andrea Sansovino (1467/1529).




Esposizione


Testa di S. Giuseppe, pero intagliato, 1974.
Riproduce al vero la statua del presepe del Santuario di Gulfi.

San Francesco d’Assisi, intagliato in noce, fine anni ’80.
Ripropone una scultura in legno policromo di Pedro de Mena (1628 -1688).

Arredo sacrestia [Fotografie - *Particolari esposti]
Due armadi, due cassettiere, cappella con Crocifisso;  Santuario di Gulfi, 1992/96.
Elementi decorativi delle ante: intaglio di fondo tratto da una spalliera di sedia del ‘500 veneto; con bassorilievi (a sx Annunciazione, dalla Bibbia illustrata da Gustavo Dorè, a dx la Natività*, da un vecchio libro ottocentesco la Vita di Gesù di Strauss, incisore Gandini).
Decorazione delle ante in basso: intaglio tratto da una spalliera di sedia del ‘500 veneto. Fusto delle colonne* della cappella del Crocifisso: intaglio ad intreccio.  Capitelli* della stessa cappella: composito a foglie lisce., da un disegno nell’Enciclopedia Treccani dell’Arte antica (modello poco diffuso in arte). Ante degli armadietti: i quattro Evangelisti, da opera di Duccio di Boninsegna (Siena 1255/1318).
La cimasa che corona tutta l’opera trae ispirazione dal pulpito di Nicola Pisano (Pisa, 1220/1284).

Porta del Giubileo [Fotografia]
Sacrestia Santuario di Gulfi, legno lamellare di noce mansonia, irocho e noce nazionale; donazione, 2000. Caratteristica di questo manufatto è la griglia in legno, da una ricostruzione per l’abbazia di Cluny dall’architetto francese Eugène Viollet le Duc ( 1814-1879 ).

Tavolo sacrestia [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale e noce mansonia, donazione, 1998.
Elementi decorativi medievali, piano intarsiato con pasta di riso, le gambe traggono ispirazione da una colonna della cripta della cattedrale di Canterbury (Inghilterra).

Ambone
Santuario di Gulfi, intagliato in noce, donazione, 2005.
Elementi decorativi settecenteschi.

Altare [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale, donazione, 2007.
Realizzato secondo i canoni dell’ebanisteria settecentesca.
Gli elementi decorativi, come le foglie e le volute si ispirano al piedistallo argenteo della Madonna di Gulfi; il cartiglio ad un pannello intagliato in noce del ‘600 italiano; il medaglione: le fasce decorative applicate e la decorazione di fondo, da bronzi dorati del settecento francese.

Crocifisso
Santuario di Gulfi,  donazione, 2002
Realizzato con i seguenti legni: noce mansonia (croce), cipresso(struttura), noce nazionale (supporto), pero (figura). Elementi decorativi settecenteschi.
Iscrizione: «11 gennaio 2012 - Donazione»

Cornice
Intagliata in noce satin, 2012. Donata al Museo etnomusicale di Chiaramonte. “Dedicata al valente concertista, tromba e tromba piccola Maestro Vito Calabrese, orgoglio musicale chiaramontano”

Ciborio  [Fotografia]
Chiesa S. Maria di Gesù; quercia rovere, pero, ciliegio, cipresso, olivo, acero, sommacco, 2003.
I soggetti biblici in bassorilievo nei pannelli laterali (La manna nel deserto e La moltiplicazione dei pani) e la decorazione della porta del tabernacolo sono conformi ad una precisa indicazione del Guardiano Fra Carmelo Latteri, committente.

Base
Chiesa S. Maria di Gesù, noce intagliata, donazione con dedica, 2007.
Intaglio della parte frontale da una transenna in marmo del VI secolo, che si trova nel Museo nazionale di Ravenna.
L’intaglio dei pannelli laterali: da una porta lignea nella basilica di S. Sabina in Roma. Ha motivazione funzionale: serve ad esporre le statue dei santi Antonio e Francesco nel periodo delle loro feste.

Crocifisso
Noce nazionale e pero intagliato (i simboli degli Evangelisti), donato alla Curia Vescovile in occasione del X° anniversario dell’insediamento di S. E. Mons. Paolo Urso vescovo di Ragusa. 2012.

Calice
In olivo intagliato; donato a Don Giuseppe Russelli. 2013.

Ciotola
In palissandro, intagliata a mano senza ausiilio del tornio. Ginevra, 1964.

Capitello composito
A foglie lisce intagliato in legno pero.
Copia dal fercolo del SS.mo Cristo, nella chiesa di S. Giovanni Battista.

Capitello
Provino, colonna cappella del Crocifisso (Santuario di Gulfi, sacrestia)
Si ispira alla Domus del tempio rotondo di Ostia. Capitello composito a foglie liscie, IV secolo.

Il profeta barbuto,
Bassorilievo in noce satin, 2009.
Copia del Profeta barbuto, scultura in marmo di Donatello.
Nel cartiglio scritta dantesca «Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede».

S. Sebastiano
In noce; giugno 2008.
Cornice intagliata in noce con bassorilievo raffigurante il martirio di S. Sebastiano. Da una scultura in legno policromo di Alonzo Berruguete (1488-1561), Spagna.

S.Vito
Statua e fercolo, legno intagliato, 1970-1993
Riproduzione in scala 1:5 della statua lignea di Melchiorre Ereddia e del  capolavoro barocco di Benedetto Cultraro (1719), realizzato in albicocco (fercolo) e pero (statua) a più riprese  nell’arco di 23 anni, dal 1970 al 1993, «con certosina ricerca dell’aderenza al minimo particolare».

Cornice
Intagliata in noce nazionale; da un originale dorato, fine settecento.

Maria SS.ma di Gulfi,
arancio, 2004.
Realizzata in occasione del 50 anniversario dell’Incoronazione ed esposto nella mostra Regina Claramontis (Chiaramonte Gulfi, aprile/maggio 2004).

Catene (2)
intagliate in monoblocco di acero; 2009.
Nella iconografia cristiana hanno significato positivo in quanto uniscono il Cielo e la terra.


Cartiglio
Intagliato in noce satin, 2010. Dono. Sacrestia della Chiesa Madre, Chiaramonte Gulfi.

Candelabro
Intaglio in noce azionale, 2013. Dono. Santuario di Gulfi.

Tre busti, tiglio e pero; donati ed esposti al Museo dell’olio di Chiaramonte Gulfi. 2013. Personaggi tipici del vecchio frantoio (trappitu) con nome e soprannome antichi in dialetto chiaramontano.
 Massa Ciccu malannata (masciu ri cuonzu), pero.
 Massa Minicu causilienti (trappitaru), tiglio.
 A gnà Pè nascatisa (trappitara), tiglio.



* Salvo diversa indicazione, le opere esposte si trovano tutte a Chiaramonte Gulfi.