“STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del maestro IANO
CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo (Museo della
Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25 agosto / 1 settembre
2013. Apertura: ore
17,30 – 21,30
Il filo di Arianna
Il
fioco raggio di sole saltella, pigro, dall’angolo di via Tommaso Chiavola alle
prime case della Costanzo Ciano ed incrocia lo sguardo, per breve schermato
dalla mano, di Iano Catania.
«Entriamo», mi invita col suo largo
sorriso. E socchiude la grande porta finestrata che immette subito nella sua
bottega. Subito: nel senso che a ridosso trovi il grande bancone da lavoro con
morse pialle scalpelli e utensili vari sparsi e, poco accanto di lato di fronte
sopra e sotto, scampoli di lavori, ultimati, rifiniti, appena iniziati, “prove d’autore”
e bozzetti. Per chi lo conosce questo è il suo modo di lavorare. Immerso nel
suo mondo e contemporaneamente applicato a più percorsi: restauro, recupero,
rielaborazione, sperimentazione…
«Sono quarant’anni che lavoro in questa
bottega. Tutti i giorni, dal mattino alla sera, spesso anche i festivi e la
domenica» continua mentre socchiude l’anta. Mi chiedo cosa differenzia
questo artigiano del XXI secolo da quelli che, nel secolo scorso e in quelli
ancora precedenti, hanno esercitato con eguale passione e impegno lo stesso
mestiere.
La testa del Cristo
morente.
« Un giorno, parecchi anni fa, da
Caltagirone mi fu portato per ripulirlo un Cristo Crocifisso (di quelli con
braccia snodabili, utilizzati nella Settimana Santa). Era in cartapesta. Probabilmente
settecentesco. Ma quello che mi colpì fu il viso, un misto di gotico e
rinascimento con influssi spagnoleggianti. Più lo guardavo più mi convincevo
che dovevo provare a riprodurlo. Così iniziai ad intagliare il legno; con due
sfide: quella di imitare l’opera e l’altra, più impegnativa (ma che mi ha
sempre stimolato e accompagnato nella vita), di “leggere” e “trascrivere”
quella peculiarità che mi aveva di
primo impatto colpito. Ecco la storia – e mi indica, con ampio gesto della
mano accompagnato da solare sorriso, la scultura appesa nella parete di fronte.
Altra sfida
« Molte cose che ho fatto sono frutto di
curiosità, ricerca estetica, tentativo di penetrare la tecnica che, in quel
periodo e in quelle condizioni storiche, l’artista ha messo in atto. Quello che
più mi affascina è cercare di ripercorrere l’iter creativo dell’artigiano che,
uno o tanti secoli fa, ha ideato e realizzato un’opera. E’ stato così per il S. Vito, un’impresa che
in alcuni momenti ho dubitato di riuscire a condurre a termine ».
Si
ferma come sopraffatto dall’affanno. Non dall’enfasi o dall’accalo-rarsi nel
discorso: ma proprio dalla fatica, che sembra rivivere a tratti, per la
realizzazione di quel progetto.
« E’ stata una sfida. Con me stesso. Col
tempo. Con Benedetto Cultraro e Melchiorre Ereddia! »
Il
racconto dapprima è saltellante, inframmezzato da incisi, precisazioni e
giustificazioni, poi scorre lieve, come i ricordi; si insinua l’amarezza del
tempo che fugge veloce, i 23 anni di lotta con quel pezzo di legno di cricuopu che lo esalta ed abbatte.
Capisco che è stato molto di più ed altro dal realizzare una scultura ostica; o
carpire il segreto, delle colonne tortili e dell’esegesi popolare intrisa di spagnolesca
controriforma.
E
voglio raccontarvela a modo mio. Prendendola larga. Andando un bel po’ indietro
nel tempo, per poi ritornare al presente.
Melchiorre Ereddia sarebbe
secondo il Melfi - storico locale che ebbe
la fortuna di poter attingere a numerosi
documenti ed informazio- ni, ma dei quali sistematicamente non indica la fonte
– uno scultore chiaramontano del secolo XVI, autore tra l’altro della statua in
legno di S. Vito, patrono della città. Autore anche di altre statue, in legno e
cartapesta, quasi tutte scomparse (l’Annunziata datata 1547, un tempo nell’omonima
chiesa, Santa Maria Maddalena, fino agli anni ‘70 del secolo scorso nella
chiesa del Carmelo e la Madonna del Carmine nella chiesa di S. Vito) ad
eccezione del gruppo in legno e cartapesta di S. Filippo, datato 1547, che non
esiterei ad attribuirgli per convergenze stilistiche e temporali(1). In tutte è presente
l’ispirazione gotico rinascimentale, sottilmente asservita al dettato
controriformistico. Non ci troviamo certamente in presenza di un artista, ma di
un onesto artigiano che mutua stilemi colti ed afflati popolari. Lo lega agli
artisti contemporanei (Nicolò Mineo, Stefano Lo Forte), di poco posteriori
(Simone Mellini) e del secolo successivo (Benedetto Cultraro, Matteo Iannizzotto),
un sottile filo di comunanza
stilistica ed ideologica. Dentro si può leggere più o meno nitidamente il
rinascimento manieristico nella dizione gaginiana: diluito per oltre due
secoli.
Pertanto,
il S. Vito di Ereddia è una delle prime testimonianze artistiche di questa scuola chiaramontana, il cui
“capostipite” non conosciamo, ma i cui ultimi pigoni sono nel nostro tempo. La
statua lignea è colorata e decorata. Le aggiunte, in altri materiali, sono
posteriori.
Oltre
alla funzione devozionale da subito se ne aggiunse una rappresentativa e
processionale. Motivo per cui nei primi del settecento, quando la festa da
popolare divenne barocca, si rese opportuno dotare la statua di un sontuoso
baldacchino.
La
vara processionale fu commissionata ad un artista locale, Benedetto Cutraro o
Cultraro (ambivalenza che troviamo per molti di questa famiglia di artisti),
esperto scultore del legno e della pietra, autore del paliotto della cappella
del Crocifisso a S. Maria di Gesù datato e firmato (Io Benedetto Cultraro di Chiaramonte l’ho scolpito, 1711) e
della tribuna in legno e pietra di S.
Maria la Vetere che per molti versi replica, in grande formato, la “vara” del
patrono.
Il
Cultraro realizza nel 1719 un superbo manufatto barocco: la costruzione
architettonica poggia su quattro colonne tortili e scanalate decorate a rilievo
con teste di cherubini ed intrecci di foglie, terminanti con capitelli corinzi.
All’interno la cupola segue la struttura degli archi a sesto ribassato ed è
decorata a rilievo con motivi floreali, sul fondo verde. All’esterno la struttura, a parallelepipedo con
cornicione fortemente aggettato, si conclude con cupola sormontata dai simboli
del martirio. L’eleganza del manufatto viene ancor più evidenziata dalla ricca
doratura in foglia oro.
Da
ragazzo Sebastiano Catania aveva spesso ammirato in chiesa il gruppo scultoreo,
affascinato dalla maestria e splendore dell’opera. Che non era sempre visibile
(nel passato si usava tenere coperte le statue durante tutto l’anno, rendendole
palesi ai devoti solo durante i festeggiamenti), ma nel breve periodo della
festa aveva potuta ammirarne la raffinata tecnica.
Era
nata allora, diceva, l’idea di cimentarsi con quest’opera del passato.
Riprodurla significava carpirne i segreti, manifestare la propria adesione ad
una ideologia dell’arte, che coniugava il passato col presente, la sacralità
con la devozione. Ma questo divenne comprensione ed aspirazione quando,
parecchi anni dopo, avendo appreso quell’arte, e dopo variegati percorsi di
ricerca e apprendistato, riapprodava a Chiaramonte come ebanista. Fare di un
lavoro una passione, un’arte come si
diceva una volte, era certamente nelle sue aspirazioni. E furono utili,
passione ed entusiasmo, nei primi tempi quando dovette confrontarsi con la
difficoltà delle committenze, con le ristrettezze economiche, con la mentalità
chiusa di un piccolo centro.
Intanto
sempre più spesso veniva in contatto con le opere d’arte della città.
Per
consulti per interventi di restauro o manutenzioni i rettori e i procuratori
delle chiese si rivolgevano ai due esperti del paese, il Catania appunto, ed il
maestro De Vita rinomato pittore.
Quella
aspirazione infantile, si concretizzò di colpo nel 1970. Una sera decise che
quella sfida non era più dilazionabile. Uno zio che conosceva i suoi
“intervalli” di creazione artistica gli aveva regalato un pezzo di legno ben
stagionato di albicocco (in siciliano cricuopu):
da quel pezzo di legno cominciava l’esperimento ideato già da tempo e sempre procrastinato. Avrebbe realizzato per
proprio sfizio, per se stesso, il gruppo scultoreo di Ereddia e Cultraro, tentando
di carpirne la tecnica e riprodurne lo stile. Cominciò a lavorarci nel tempo
libero, negli intervalli lavorativi, durante le festività. Dapprima con entusiasmo,
poi con avversione: l’operazione si presentava più impegnativa di quanto avesse
previsto. La vara del Cultraro, con le sue colonne tortili era di difficile resa.
Come diavolo aveva fatto quell’artigiano a realizzare delle colonne tortili
asimmetriche, il cui riferimento stilistico e operativo non si riscontrava in
nessun altro prodotto simile! Anzi aveva
verificato che nulla di simile esisteva in giro (egli era uno che si muoveva e
usava osservare tutto ciò che avesse riferimento con la sua professione);
neppure nelle pubblicazioni d’arte che consultava e quando poteva anche comprava.
Rinunciò a cercare omologhi e si concentrò sulla soluzione del Cultraro. Guardò
e riguardò quelle colonnine tortili, ne prese le misure sviluppò varie volte il
disegno: alla fine capì il perché dell’asimmetria, trovando la propria
soluzione applicativa. Lo sfizio stava proprio in quella riproposta maniacale
del manufatto in scala ridotta e nel superare anche l’impasse!
Era
però un lavoro lungo ed estenuante. E le difficoltà erano una appresso
all’altra. Tanto che, ad un certo punto, decise di rinunciare.
Questa
parte del suo racconto fu la più emotiva, anche perché – enfasi o nò – usò
parole grosse come “era una questione di principio” oppure “era la sfida della
mia vita” “dovevo farcela ad ogni costo”.
Ricominciò.
Adesso deciso, però, a portare a termine l’opera; quasi fosse la sfida ultima
della sua vita. (2)
Nel
1993 Iano Catania completa la riproduzione in scala del S. Vito: la certosina
aderenza al modello originale abbinata alla tradizionale tecnica di esecuzione,
fanno di questo esperimento solipsistico un atto d’amore per la tradizione
artistica chiaramontana, il cui sottile filo - dal gotico medievale al manierismo
rinascimentale attraverso il settecento
barocco e fino al novecento liberty – approda alla nostra epoca per
testimoniare l’unicità della manualità artigianale.
A regola d’arte
Sul
tavolo da lavoro, smontato, un tavolo da gioco
« Probabile fattura isolana di inizio
ottocento, proviene da un’agiata famiglia dell’area iblea. Ho la fortuna che
l’interlocu-tore è persona competente, un architetto… altrimenti questo lavoro
lungo e faticoso di recupero di inserti da integrare nella impellicciatura,
restituendo funzionalità (“recupero
filologico – diremmo oggi con linguaggio scientifico – aderente al
manufatto”) non verrebbe compreso appieno, specialmente nel rapporto costo….
Economicamente non è redditizio, perché
spesso il cliente ritiene l’intervento di recupero o restauro eccessivamente
costoso. Ma io penso che il lavoro, questo tipo di lavoro, abbia una sua
dignità e gratificazione nella esecuzione come dicevano gli antichi “a regola
d’arte”. Così va fatto. Ed io lo faccio ».
Lo
guardo incollare quei minuscoli pezzetti, limare il bordo, porvi un morsetto…
Mi verrebbe di attaccare con un ovvio (« Perciò ha oltre 40 che lavora in
questa bottega, è al massimo del periodo lavorativo, perché non lascia e dedica
il tempo a gratificanti hobbies o
studi? ») ma mi trattengo; chè intuisco reazione e risposta.
Non male!
2004.
Lo trovai, una mattina, con un pezzo di legno sbozzato. – «Arancio,
bello ma poco docile». E come a rispondere al mio tentativo di carpire il
soggetto. – «Questa è la Madonna di
Gulfi».
Mi
ricordai che nei giorni precedenti collazionando le varie rappresentazioni
plastiche – statue in pietra dura o tenera, bassorilievi, terrecotte – da
esporre nella mostra per il 50° dell’Incoronazione, avevamo individuato una
comune ascendenza, tardo rinascimentale, nelle
sculture della Patrona di Chiaramonte.
Che non era soltanto aderenza all’originale, di chiara impronta
rinascimentale, ma ancor più il frutto di una lunga e continuata tradizione
classicista che aveva origine con i mastri ed artigiani tardo gaginiani ed era
proseguita, staticizzata, con i loro epigoni fino ai nostri giorni. A voler
guardare attentamente, questo sottile filo
di Arianna, era ampiamente riscontrabile nelle strutture architettoniche,
negli ornati, negli arredi presenti in città. Anche se le soluzioni erano state
più o meno felici: ma ciò atteneva alle capacità tecniche ed al gusto di
ciascun artista.
« Ho capito, intende
cimentarsi nella rappresentazione della statua della Madonna di Gulfi,
evidenziandone il connotato manieristico ».
Nei giorni successivi, man
mano che dal legno, venivano fuori i panneggi del manto, le movenze leziose del
Bambino e lo sguardo ieratico della Vergine, la risposta del maestro Catania fu
evidente.
«Perché
non esporla alla mostra del mese prossimo. Sarebbe il manufatto più recente,
nel solco della tradizione; l’anello che congiunge quelli del passato ad uno
degli ultimi artisti artigiani di Chiaramonte».
Dapprima
fu un intervallo fra un lavoro ed un altro, poi divenne (mi confidò il figlio
Salvatore) la principale sua attenzione. Vi lavorava oltre che nel laboratorio
anche a casa.
Qualche
giorno prima che si aprisse la mostra, l’opera era completata. La guardò con
soddisfazione: « Non male ».
Mi
ricordava un altro artista, Giovanni de Vita, che abitava poco discosto dal
laboratorio di falegnameria, nella via Castello. Quando aveva ultimato una sua
opera, la mostrava agli amici o estimatori; e col pennello in una mano e
l’altra a carezzare il mento: - Non male!
Voleva dire che era soddisfatto del
risultato e che, a suo giudizio, era ben fatta. Dell’amicizia di questi due,
degli scambi culturali, della comune pietas
(quella che fa la differenza tra gli uomini straordinari e gli uomini ordinari 3) ci sarebbe molto da dire…
La
mostra Regina Claramontis. Percorsi e
segni, realizzata in occasione dei
festeggiamenti per il 50° anniversario
dell’Incoronazione della Madonna di Gulfi nell’aprile/maggio 2004, è
stata tra i momenti culturali più significativi della storia di Chiaramonte:
per la grandiosità dell’allestimento, per l’elevato numero di visitatori e di
personalità, per la varietà dei pezzi esposti (rari, preziosi e difficilmente visibili
al pubblico, insieme e correlati). Moltissimo materiale perveniva da privati,
tanto gelosi dei cimeli quanto restii a renderli visibili. Difficoltoso e impervio, pertanto, il percorso di
raccolta dei reparti da esporre.
Consulente
artistico, collaboratore generoso ma ancor più discreto e incisivo scopritore di giacimenti inaspettati, fu
Sebastiano Catania. Man mano che organizzavo il catalogo, mentre appunti,
annotazioni, lievi indizi divenivano un capitolo o paragrafo della mostra,
quasi ogni giorno, generalmente nel tardo pomeriggio, lo incontravo nel suo
laboratorio-bottega; gli mostravo le ultime scoperte, gli svelavo un indizio
suggerito o detto a mezza voce da qualcuno, la traccia o il percorso di un
pezzo. Per ogni dubbio per ogni indizio per ogni difficoltà c’era una risposta.
Incredibile la sua memoria, la sua capacità di individuare persone ed oggetti.
L’indomani mi rintracciava, trafelato: in un foglietto un numero di telefono,
un indirizzo, un appuntamento già concordato oppure i dati relativi ad un
reperto.
Il
recupero del San Vinnoccu, un grande
dipinto popolare che si esponeva in chiesa madre durante una delle serate del novenario
fino agli inizi del secolo scorso, fu difficile e laborioso; ma alla fine,
previa una pulizia discreta e rispettosa a cura dello stesso, fece bella mostra
nella sezione dipinti. E non fu il solo intervento artistico-artigianale. La
presenza fu costante e la disponibilità (assieme a quella del figlio Salvatore,
collaboratore altrettanto colto ed esperto) consentì all’altro figlio,
Raffaele, un allestimento dei percorsi e
segni funzionale e nel contempo spettacolare (il grande pannello, alto più
di cinque metri, che introduceva la mostra e verticalizzava lo spazio, fu di
grande effetto) (4).
Fonti di ispirazione
Singolari
ed esemplari le fonti d’ispirazione. Catania trae spunto da un “deposito” di
memorie, documenti, elaborati, frammenti recuperati durante il suo lungo
percorso artistico ed umano. Elabora, assembla, integra, muovendosi però sempre
dentro il recinto culturale che genera o ispira l’opera e mantenendo la cifra
stilistica della quale il manufatto è parte o complemento.
Un
esempio. A conclusione del restauro
della chiesa di S. Maria di Gesù e del nuovo presbiterio, il guardiano Fra
Carmelo Latteri, gli commissiona un Ciborio; con la precisa indicazione, però,
dei soggetti biblici da realizzare in bassorilievo: la manna del deserto e la
moltiplicazione dei pani e dei pesci. Per la struttura e gli ornati impiega
vari legni (perché ognuno – mi spiega – ha una peculiarità o personalità che si
esplicita a secondo dell’utilizzo): quercia, rovere, pero, ciliegio, cipresso,
olivo, acero e sommacco. Come fonte d’ispirazione per gli episodi biblici da
raffigurare nei pannelli e nella porta del tabernacolo recupera dal suo
archivio alcune stampe del Dorè, che nel 1960 aveva sottratto, nel banco di
vendita di Don Carruzzu, alla loro poco nobile funzione di incarto.
Provenivano, mi confida sottovoce, da un gruppo di libri sacri cedute da un
canonico chiaramontano al “putiaro”per
eccellenza del piccolo centro ibleo.
Ancor
più illuminante, per i percorsi e sostrati culturali contenuti, l’arredo della
sacrestia del Santuario di Gulfi. Intanto si tratta di un dono dell’autore. In
vari pezzi realizzati nell’arco di 18 anni: Armadi, cassettiere e Cappella con
Crocifisso (1992/1996), tavolo (1998), porta del Giubileo (2000), bacheca “per
grazia ricevuta” (2002), Crocifisso portatile (2002), Ambone (2005), Altare
(2007), pannelli con gli Evangelisti (2009).
L’elemento più interessante
è l’arredo che interpreta in chiave classicheggiante il Cassarizzo, antico armadio con cassettiere per riporvi arredi e
paramenti sacri, presente in tutte le antiche chiese. Si compone di cinque
pezzi: due armadi due cassettiere e al centro la cappella del Crocifisso. Per
gli elementi decorativi delle ante trae ispirazione da una spalliera di sedia del
‘500 veneto, mentre i due bassorilievi, l’Annunciazione (a sinistra) e la Natività
(a destra) sono tratti, l’uno da una tavola della Bibbia illustrata da G. Dorè
e l’altro, da una incisione del Gandini in un vecchio libro ottocentesco La Vita di Gesù di Strauss. Altrettanto
“intrecciati” gli influssi negli altri elementi: la nicchia ha il modello in
una stampa, i capitelli sono desunti da una tavola dell’Enciclopedia Treccani
(“modello poco diffuso in arte” sottolinea il Catania), la cimasa, che corona
tutta l’opera, da un pulpito di Nicola Pisano mentre i tondi con i quattro
evangelisti, nelle ante, traggono modello da Duccio di Boninsegna, il grande
Crocefisso, infine, coniuga arte, cultura popolare e passione artigianale. Il
prototipo è un piccolo crocefisso in avorio approdato per restauro, anni prima,
nella sua bottega, stimolando subito la sua attenzione e creatività. Detto
fatto –racconta – si pose all’opera: ma come spesso era accaduto la
riproduzione in scala risultò difficoltosa, in quanto alcuni piccoli difetti,
dovuti alla lavorazione dell’avorio, nell’ingrandimento (di cinque volte) si
espandevano mettendo a dura prova esperienza ed estro. Difficoltà superate
egregiamente.
Continuiamo:
Gli elementi decorativi ad intaglio del tavolo sono medievali, quelli delle
gambe rimandano ad una colonna della cripta della cattedrale di Canterbury. La
caratteristica griglia in legno, nella porta del Giubileo, riprende un motivo
ideato dall’architetto francese Eugène Viollet Le Duc (1814/1879) per l’abbazia
di Cluny. Crocifisso portatile, ambone ed altare, per la chiesa, recuperano
stilemi settecenteschi, specie negli elementi decorativi.
Discorso
che vale per quasi tutta la sua vasta ed eterogenea produzione; nella quale
prevale l’attrazione per il classicismo e la riproposta, quando gli è
possibile, di elementi stilistici del gotico e del rinascimento. La vulgata locale poi è assorbita, indagata,
superata, stemperata in accademica riproposta, ironica rilettura dialettale e moderna lectio
magistralis.
I
tre personaggi che incontrate in questa mostra (invadenti e inbarazzanti;
potremmo dire, persino, iconoclasti in un percorso sacro: per soggetti e temi)
rappresentano questa peculiarità moderna, ironica ed accademica dello scultore
Catania: u Massa Ciccu Malannata, Massa Minicu Causilienti
e gentile consorte ‘gnà Pè Nascatisa, sono oltre che divertita
rappresentazione del mondo lavorativo ibleo di ieri, ricerca introspettiva e
condensato di storia dell’arte (il primo replica un profeta di Donatello, il secondo un ritratto del Bernini mentre il
terzo è copia da Andrea Sansovino). (5)
Giuseppe
Cultrera
Note
(1)
Artisti & artigiani, 2003,
pag. 93; Il segno e il rito, 2007,
pagina 105.
(2) In quegli stessi anni Ferdinando Camon pubblicava Un altare per la madre (1978), intensa lettura dei valori del mondo
contadino friulano: la parte centrale racconta del padre e della realizzazione
di un altare in memoria della moglie. Opera lunga, impervia ed ostica per
l’artigiano, impegnato contro il tempo e contro difficoltà stilistiche e
plastiche, in una sfida irrinunciabile.
L’ho letto un paio di volte. E lo cito perché il racconto
della lunga gestazione del S. Vito del maestro Catania - tra ardori ed
entusiasmi iniziali, scoramenti e
ripensamenti successivi – lo trovo intriso della stessa pietas. Come la tensione per un mondo nel quale, la centralità del
sacro, la dignità dell’uomo, la valenza maieutica e catartica del lavoro, sono
presenze costanti.
(3) Ordinario, nell’accezione
siciliana, significa comune (con nessuna inflessione negativa).
(4) S. Nicola Tolentino, dipinto,
olio su tela, secolo XIX (cm 200x300). Veniva esposta nella serata del
Novenario gestita dai mugnai, dei quali è protettore. Era noto con la
denominazione popolare di Santu Vinnoccu. In Regina Claramontis. Percorsi e segni, catalogo della mostra,
Chiaramonte, 2004; pagina 10, scheda 44.
(5)
Donatello (1386/1466); Gian Lorenzo Bernini (1598/ 1680); Andrea Sansovino
(1467/1529).
“
Esposizione
Testa di S. Giuseppe, pero intagliato, 1974.
Riproduce al vero la statua del presepe del Santuario di
Gulfi.
San Francesco
d’Assisi,
intagliato in noce, fine anni ’80.
Ripropone una scultura in legno policromo di Pedro de Mena
(1628 -1688).
Arredo sacrestia [Fotografie
- *Particolari esposti]
Due armadi, due cassettiere, cappella con Crocifisso; Santuario di Gulfi, 1992/96.
Elementi decorativi delle ante: intaglio di fondo tratto da
una spalliera di sedia del ‘500 veneto; con bassorilievi (a sx Annunciazione,
dalla Bibbia illustrata da Gustavo Dorè, a dx la Natività*, da un vecchio libro ottocentesco la Vita di Gesù di
Strauss, incisore Gandini).
Decorazione delle ante in basso: intaglio tratto da una
spalliera di sedia del ‘500 veneto. Fusto
delle colonne* della cappella del Crocifisso: intaglio ad intreccio. Capitelli*
della stessa cappella: composito a foglie lisce., da un disegno
nell’Enciclopedia Treccani dell’Arte antica (modello poco diffuso in arte).
Ante degli armadietti: i quattro Evangelisti, da opera di Duccio di Boninsegna
(Siena 1255/1318).
La cimasa che corona tutta l’opera trae ispirazione dal
pulpito di Nicola Pisano (Pisa, 1220/1284).
Porta del Giubileo [Fotografia]
Sacrestia Santuario di Gulfi, legno lamellare di noce mansonia,
irocho e noce nazionale; donazione, 2000. Caratteristica di questo manufatto è
la griglia in legno, da una ricostruzione per l’abbazia di Cluny
dall’architetto francese Eugène Viollet le Duc ( 1814-1879 ).
Tavolo sacrestia [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale e
noce mansonia, donazione, 1998.
Elementi decorativi medievali, piano intarsiato con pasta di
riso, le gambe traggono ispirazione da una colonna della cripta della
cattedrale di Canterbury (Inghilterra).
Ambone
Santuario di Gulfi, intagliato in noce, donazione, 2005.
Elementi decorativi settecenteschi.
Altare [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale,
donazione, 2007.
Realizzato secondo i canoni dell’ebanisteria settecentesca.
Gli elementi decorativi, come le foglie e le volute si
ispirano al piedistallo argenteo della Madonna di Gulfi; il cartiglio ad un
pannello intagliato in noce del ‘600 italiano; il medaglione: le fasce
decorative applicate e la decorazione di fondo, da bronzi dorati del settecento
francese.
Crocifisso
Santuario di Gulfi,
donazione, 2002
Realizzato con i seguenti legni: noce mansonia (croce),
cipresso(struttura), noce nazionale (supporto), pero (figura). Elementi decorativi
settecenteschi.
Iscrizione: «11 gennaio 2012 - Donazione»
Cornice
Intagliata in noce satin, 2012. Donata al Museo etnomusicale
di Chiaramonte. “Dedicata al valente concertista, tromba e tromba piccola
Maestro Vito Calabrese, orgoglio musicale chiaramontano”
Ciborio
[Fotografia]
Chiesa S. Maria di Gesù; quercia rovere, pero, ciliegio,
cipresso, olivo, acero, sommacco, 2003.
I soggetti biblici in bassorilievo nei pannelli laterali (La manna nel deserto e La moltiplicazione dei pani) e la decorazione della porta del
tabernacolo sono conformi ad una precisa indicazione del Guardiano Fra Carmelo
Latteri, committente.
Base
Chiesa S. Maria di Gesù, noce intagliata, donazione con
dedica, 2007.
Intaglio della parte frontale da una transenna in marmo del
VI secolo, che si trova nel Museo nazionale di Ravenna.
L’intaglio
dei pannelli laterali: da una porta lignea nella basilica di S. Sabina in Roma.
Ha motivazione funzionale: serve ad esporre le statue dei santi Antonio e
Francesco nel periodo delle loro feste.
Crocifisso
Noce nazionale e pero intagliato (i simboli degli
Evangelisti), donato alla Curia Vescovile in occasione del X° anniversario
dell’insediamento di S. E. Mons. Paolo Urso vescovo di Ragusa. 2012.
Calice
In olivo intagliato; donato a Don Giuseppe Russelli. 2013.
Ciotola
In palissandro, intagliata a mano senza ausiilio del tornio.
Ginevra, 1964.
Capitello composito
A foglie lisce intagliato in legno pero.
Copia dal fercolo del SS.mo Cristo, nella chiesa di S.
Giovanni Battista.
Capitello
Provino, colonna cappella del Crocifisso (Santuario di
Gulfi, sacrestia)
Si ispira alla Domus del tempio rotondo di Ostia. Capitello
composito a foglie liscie, IV secolo.
Il profeta barbuto,
Bassorilievo in noce satin, 2009.
Copia del Profeta barbuto, scultura in marmo di Donatello.
Nel cartiglio scritta dantesca «Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede».
S. Sebastiano
In noce; giugno 2008.
Cornice intagliata in noce con bassorilievo raffigurante il
martirio di S. Sebastiano. Da una scultura in legno policromo di Alonzo Berruguete
(1488-1561), Spagna.
S.Vito
Statua e fercolo, legno intagliato, 1970-1993
Riproduzione in scala 1:5 della statua lignea di Melchiorre
Ereddia e del capolavoro barocco di
Benedetto Cultraro (1719), realizzato in albicocco (fercolo) e pero (statua) a
più riprese nell’arco di 23 anni, dal
1970 al 1993, «con certosina ricerca dell’aderenza al minimo particolare».
Cornice
Intagliata in noce nazionale; da un originale dorato, fine
settecento.
Maria SS.ma di Gulfi,
arancio, 2004.
Realizzata in occasione del 50 anniversario
dell’Incoronazione ed esposto nella mostra Regina
Claramontis (Chiaramonte Gulfi, aprile/maggio 2004).
Catene (2)
intagliate in monoblocco di acero; 2009.
Nella iconografia cristiana hanno significato positivo in
quanto uniscono il Cielo e la terra.
Cartiglio
Intagliato in noce satin, 2010. Dono. Sacrestia della Chiesa
Madre, Chiaramonte Gulfi.
Candelabro
Intaglio in noce azionale, 2013. Dono. Santuario di Gulfi.
Tre busti, tiglio e pero; donati ed esposti
al Museo dell’olio di Chiaramonte Gulfi. 2013. Personaggi tipici del vecchio
frantoio (trappitu) con nome e soprannome
antichi in dialetto chiaramontano.
Massa Ciccu malannata (masciu ri cuonzu), pero.
Massa Minicu causilienti (trappitaru), tiglio.
A gnà Pè nascatisa (trappitara), tiglio.
* Salvo diversa indicazione, le opere esposte si trovano
tutte a Chiaramonte Gulfi.
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