lunedì 25 dicembre 2017

Le Storie di legno di Iano Catania

Quella di Palazzo Montesano è una mostra e nel contempo un museo, o meglio un’istallazione postmoderna destinata a divenire permanente: la difficoltà a definirla sta non nei contenuti ma nel soggetto che li ha realizzati, l’artista. Che, di norma si cela dietro la sua opera, attraverso la quale spera di suscitare attenzione, stupore, consenso o dissenso e alla fine, diciamolo chiaro, apprezzamento per il proprio messaggio.
Parliamo di un comune artista. Non il nostro, che si chiama, lo sapete tutti, Iano Catania e si definisce artigiano, non artista. Ebanista, puntualizza. Cioè antepone alla creazione artistica, il rapporto umano con le persone e la materia; e pertanto l’etica all’estetica.
Non ci addentreremo nel complesso dibattito sulla funzione dell’arte, sulla preminenza o no dei contenuti, sul suo rapporto con la società e la politica. Perché voglio parlare della persona non delle sue opere.
Che mi piace definire poeta: uno che non solo crea ma racconta.
Non lo dico io, lo dice Platone – sulla cui autorevolezza penso siamo tutti d’accordo – e la sua definizione di poeta la traggo dal Simposio:

Tu sai che poiesis è qualcosa di molteplice.
Ogni atto per cui qualcosa passa dal non essere
all’essere è poiesis, cosicchè le varie operazioni
dipendenti da tutte le arti sono poièseis
e i loro artisti sono tutti poietai.

Il poeta Catania ha creato e raccontato centinai di storie (alcune le leggerete nell’allestimento) le ha raccontato col suo personale “verso” per oltre sessant’anni ribadendo, a chi ha voglia di ascoltarlo,  il suo rapporto con l’arte e con la materia oggetto della sua creazione, il legno; il suo punto di vista sulla gestione della pòlis e sui valori, quelli comuni e quelli personali.

Foto Tony Vasile - 2013

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Ad Jano Catania piace parlare. E lo fa con capacità affabulatoria, padronanza semantica e sintattica, dentro percorsi narrativi dove il proprio vissuto si insinua come grimaldello etico.
Del proprio percorso di vita, in particolare del primo dentro il quale si situa il difficile approccio col mondo del lavoro, compresa la dura esperienza di migrante, ha un ricordo netto e chiaro. Il giovane meridionale che incontra prima la città di Milano e poi approda a Francoforte, Zurigo, Basilea e Ginevra è privo di linguaggi e di difese nei confronti di quelle “culture” ostili ed ammalianti. La madre gli ha ricordato che da quelle parti molta gente ha perso la bussola, tornando – o peggio non tornando affatto – del tutto diversi.
Foto Tony Vasile

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Sì la madre. La prima ed unica storia che vi propongo (le altre le leggerete al Museo)
è il racconto dell’amore filiale, della sacralizzazione dei valori umani e familiari.
Nel 1992 muore la madre e Sebastiano Catania decide di ricordarla con un “segno” imperituro, collocato nel luogo sacro di devozione popolare più amato dai chiaramontani, il Santuario della Madonna di Gulfi. La materia con cui esprimersi, ovviamente, il legno. Nasce così, pezzo dopo pezzo, un corpus che si inserisce in consonanza estetica e funzionale nella sacrestia: prima la cappella con grande Crocefisso, poi il primo e il secondo armadio (replica dell’antico casciarizzo), due cassettiere, il massiccio tavolo centrale, la porta del Giubileo, le teche lignee per gli ex voto; e poi esaurito ogni spazio in questo primo ambiente, in chiesa, l’ambone, l’altare conciliare,  la croce astile e persino le bacheche all’ingresso. Un lavoro, oltre che corposo, impegnativo e lungo, ultimato solo qualche anno fa. Che va più che ammirato letto, perché c’è incisa la visione del sacro e del mondo dell’autore, quella pietas che sostiene il percorso umano dell’artigiano Catania: percorso intriso in pari misura di lavoro e accettazione dei valori antichi della sua comunità, che intende perpetuare e additare alle nuove generazioni.

foto Tony Vasile

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C’è anche il racconto di quando a Chiaramonte c’erano decine e decine di botteghe artigiane (falegnami, fabbri, imbianchini-pittori, lattonieri, conciapelli e calzolai, putiari ecc.) presenze che animavano spazi dell’abitato e del vissuto quotidiano. In un rapporto di mutualità e cooperazione, mista a diffidente competizione, che faceva interagire uomini e utènsili – preziosi e rari in un’economia ancora elementare con preminenza della manualità – attraverso i cancelli o le porte finestrate dei dammusi casa e putia.
Non si buttava via niente: i circieddi del falegname o gli scàmpoli viaggiavano verso le altre botteghe, incrociando altri scarti o frammenti che esaudivano momentanei e precari assemblaggi e rattoppi nelle altre botteghe; o richieste di vicine e ragazzi (ricordate i carramatti, le spade, i fantasiosi giocattoli della nostra fanciullezza: da lì venivano, non dal Toys Market o da Amazon).

Un giorno il maestro Giovanni De Vita, la cui bottega era a due passi da quella di Catania, doveva spedire, a Parigi ad un’importante mostra, un dipinto raffigurante S. Paolo (oggi esposto nella Pinacoteca) e siccome parliamo di  circa cinquant’anni fa, bisognava creare l’imballaggio adatto: la soluzione nella bottega e mastria dell’amico Iano Catania!
E non era un caso isolato. Poco prima era stata la volta del lattoniere, per il foglio di lamierino zincato su cui dipingere la Madonna di Gulfi destinata ad un’edicola votiva del vicino cortile; e anche questa volta, oltre al lattoniere, era intervenuto il falegname per il telaio, il muratore scalpellino per azzizzare l’icona corrosa dal tempo e dalle sbandate dei carramatti, il ferraro per la grata di protezione, e quanti altri non so. Di certo so – me l’ha raccontato con ironia e compiacenza il maestro Catania – che il tutto spesso, dedotte le spese vive, era gratis et amore.
Il lattoniere ad esempio era Saro Bentivegna – bottega a metà via Corallo – altro personaggio casa e putia, fascinato dalla memoria e strenuo difensore dei frammenti e valori del tempo andato, e alcuni li conservava in un’angolo della bottega, per chi aveva voglia di sentirne il racconto antico, condito dal ritmico battere del martello. E c’erano pure il sarto, il ciabattino, il fotografo, il pingisanti
La gran parte come i protagonisti dell’Antologia di Spoon River – non dissimili per percorsi di vita e tenace attaccameto al lavoro, famiglia e valori – dormono sulla collina. La polvere del tempo intrisa di memorie e vissuti si è in parte depositata nellla vecchia bottega di Iano Catania. Oggi, lui stesso, ci invita (attraverso l’audace ed essenziale allestimento del figlio Raffaele a Palazzo Montesano) a sbirciare dentro la sua bottega tra attrezzi, scampoli di lavori, saggi e realizzazioni,  per leggervi non del tutto sopraffatte dalla polvere del tempo le cento storie di questa antica e orgogliosa comunità intrisa di etica contadina e religioso attaccamento ai valori del lavoro e della famiglia. Come atto d’amore: prima di tutto alla sua famiglia e poi alla sua città.