domenica 14 gennaio 2018

Giuseppe Leone, il paesaggio e la fotografia

Un articolo di N. Giaramidaro, del 2014, sul  grande fotografo ragusano Giuseppe Leone.


Da Edizioni Kalós  •  4 aprile 2014

“Il paesaggio è il grande malato d’Italia. Quello che fu il Bel Paese fa scempio di se stesso, è sommerso dal cemento. Che cosa sta succedendo agli italiani, che cosa ci acceca? È ancora possibile indignarsi, recuperare memoria storica, riguadagnare spazio all’insegna della Costituzione?” Queste le domande a proposito del libro di Salvatore Settis  “Paesaggio Costituzione cemento – la battaglia per l’ambiente contro il degrado civile”.
Estrapolando dalle pagine del grande archeologo si legge: “I danni al paesaggio ci colpiscono tutti, come individui e come collettività. Uccidono la memoria storica, feriscono la nostra salute fisica e mentale, offendono i diritti delle generazioni future. L’ambiente è devastato impunemente ogni giorno, il pubblico interesse calpestato per il profitto di pochi. Le leggi che dovrebbero proteggerci sono dominate da un paralizzante “fuoco amico” fra poteri pubblici, dai conflitti di competenza fra Stato e Regioni. Ma in questo labirinto è necessario trovare la strada… È necessario un nuovo discorso sul paesaggio... La qualità del paesaggio e dell’ambiente non è un lusso, è una necessità, è il miglior investimento sul nostro futuro. Non può essere svenduta a nessun prezzo. Contro la colpevole inerzia di troppi politici, è necessaria una forte azione popolare che rimetta sul tappeto il tema del bene comune come fondamento della democrazia, della libertà, della legalità, dell’uguaglianza”. Scheletri edilizi, città industriali morte, strade che finiscono nel nulla: “paesaggi” che fanno pensare a bombardamenti di guerre mai combattute se non clandestinamente, a colpi di mazzette. E’ un panorama che ci è familiare.
Una mano sembra darla la fotografia. Ma – dice Roland Barthes – “fotografare è un po’ morire”. Andate a dirlo a Giuseppe Leone, se riuscite a trovarlo fra i muri a secco delle pianure iblee, tra casali, carrubi, trazzere, olivi saraceni, acciottolati con pietre d’inciampo e lisci, paesotti più giù o più su sulle linee ortogonali del suo Summilux. Fra i riti delle feste religiose che sembrano “paesaggi” antropomorfi con la loro ripetitività sempre diseguale: un abbozzo di gesto che muta la scena come un nuovo germoglio nella campagna, un albero caduto, un muro che non c’è più, un abbandono ancora impunemente maturato.
Peppino Leone fotografo con l’occhio veloce, uomo dalle visioni rapide, abbastanza piccolo per sfuggire alle lentezze degli over un metro e ottanta, sorriso che spalanca porte e qualcos’altro, sapienza estro e immaginazione che altrove determinano fortune senza freni. E’ il fotografo che più di tutti, in Sicilia, ha fotografato il paesaggio. Non conosciamo le campagne né le topografie urbane delle altre province così come quelle ragusane, scoperte con emozione sui libri firmati da Leone, oppure svelate dai 30×40 in bianco e nero delle sue oramai innumerevoli mostre.
Immagini ritagliate con il “rasoio di Ockham”, cioè scelte semplici, con l’obiettivo attento a togliere il soverchiante per riprendere senza arzigogoli nella forma e nella sostanza: un rettangolo pulito di bianchi, grigi e neri, oppure di colori che non escono dalle loro ragionevoli gradazioni. La memoria. Anche se secondo Emil Cioran “La sola funzione della memoria è aiutarci a rimpiangere”. Ma Alexander von Humboldt diceva che si deve “ritrarre il paesaggio come forma di conoscenza”, almeno.
Quindi niente vedute, belvederi, panorami, landscapes. Peppino Leone non vuole suscitare il desiderio di visitare i luoghi, i suoi luoghi; il suo fine non è la meraviglia – lui che è nato e vive nel barocco siciliano –  ma fornire elementi di riflessione sull’ormai drammatico rapporto uomo-natura. Posso utilizzare una frase di Cornell Capa, fratello del più famoso Robert, a proposito del paesaggio, dei luoghi di Peppino Leone: “Mostrare le cose che devono essere corrette e mostrare le cose che devono essere apprezzate”. E Moholy Nagy soggiunge: “Bisogna contribuire alla costruzione del proprio tempo con i mezzi che gli sono propri”. Anche con la fotografia.
Possiamo imparentare Leone con gli americani della “Neotopografia”, Stephen Shore, Robert Adams e diversi altri che hanno nomi più difficili da pronunciare. Fotografavano, e continuano a fotografare, il paesaggio alterato dall’uomo.
Non è un caso che il primo libro di Leone, “La pietra vissuta”, pubblicato da Sellerio nel 1978, oltre a un testo sul paesaggio dell’architetto Mario Giorgianni, contenga un saggio di Rosario Assunto, filosofo delle forme e precursore della tutela del paesaggio “naturale o progettato dall’uomo”. Nel suo fondamentale libro del ’73 (edizioni Novecento) “Il paesaggio e l’estetica”, si può intravedere il problema di fondo che il filosofo si pone: le categorie, anzi la “categoria”, cioè la bellezza, “l’idea che tutte le altre riunifica e in cui si affratella la verità e il bene”.
C’è nelle fotografie di Leone, fra carrubi, noci, muri di pietra, guglie di montagne e campanili, preziose facciate e miraggi siciliani un riverbero non lieve dell’idea di bellezza così come intesa dal nisseno Assunto; bellezza che tramuta una veduta, una panoramica in un paesaggio dal quale traspare la storia dell’uomo e quella della natura.

Per questo mi autorizzo a sospettare che i luoghi di Montalbano sono come scelti da Peppino Leone: Montalbano-Camilleri, seppure nella finzione e nella finzione della finzione, non hanno potuto sottrarsi alla ineluttabilità della bellezza.