“STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del maestro IANO CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo (Museo della Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25 agosto / 1 settembre 2013. Apertura: ore 17,30 – 21,30
Il filo di Arianna
Il fioco raggio di sole saltella, pigro, dall’angolo di via
Tommaso Chiavola alle prime case della Costanzo Ciano ed incrocia lo sguardo,
per breve schermato dalla mano, di Iano Catania.
«Entriamo», mi
invita col suo largo sorriso. E socchiude la grande porta finestrata che
immette subito nella sua bottega. Subito: nel senso che a ridosso trovi il
grande bancone da lavoro con morse pialle scalpelli e utensili vari sparsi e,
poco accanto di lato di fronte sopra e sotto, scampoli di lavori, ultimati, rifiniti,
appena iniziati, “prove d’autore” e bozzetti. Per chi lo conosce questo è il
suo modo di lavorare. Immerso nel suo mondo e contemporaneamente applicato a
più percorsi: restauro, recupero, rielaborazione, sperimentazione…
«Sono quarant’anni che
lavoro in questa bottega. Tutti i giorni, dal mattino alla sera, spesso anche i
festivi e la domenica» continua mentre socchiude l’anta. Mi chiedo cosa
differenzia questo artigiano del XXI secolo da quelli che, nel secolo scorso e
in quelli ancora precedenti, hanno esercitato con eguale passione e impegno lo
stesso mestiere.
La testa
del Cristo morente.
« Un giorno, parecchi
anni fa, da Caltagirone mi fu portato per ripulirlo un Cristo Crocifisso (di quelli con braccia snodabili, utilizzati
nella Settimana Santa). Era in cartapesta. Probabilmente settecentesco. Ma
quello che mi colpì fu il viso, un misto di gotico e rinascimento con influssi
spagnoleggianti. Più lo guardavo più mi convincevo che dovevo provare a
riprodurlo.
Così iniziai ad
intagliare il legno; con due sfide: quella di imitare l’opera e l’altra, più
impegnativa (ma che mi ha sempre stimolato e accompagnato nella vita), di
“leggere” e “trascrivere” quella peculiarità che mi
aveva di primo impatto colpito. Ecco la storia – e mi indica, con ampio
gesto della mano accompagnato da solare sorriso, la scultura appesa nella
parete di fronte.
Altra
sfida
« Molte cose che ho
fatto sono frutto di curiosità, ricerca estetica, tentativo di penetrare la
tecnica che, in quel periodo e in quelle condizioni storiche, l’artista ha
messo in atto. Quello che più mi affascina è cercare di ripercorrere l’iter
creativo dell’artigiano che, uno o tanti secoli fa, ha ideato e realizzato
un’opera. E’ stato così per il S. Vito,
un’impresa che in alcuni momenti ho dubitato di riuscire a condurre a termine
».
Si ferma come sopraffatto dall’affanno. Non dall’enfasi o
dall’accalo-rarsi nel discorso: ma proprio dalla fatica, che sembra rivivere a
tratti, per la realizzazione di quel progetto.
« E’ stata una sfida.
Con me stesso. Col tempo. Con Benedetto Cultraro e Melchiorre Ereddia! »
Il racconto dapprima è saltellante, inframmezzato da incisi,
precisazioni e giustificazioni, poi scorre lieve, come i ricordi; si insinua
l’amarezza del tempo che fugge veloce, i 23 anni di lotta con quel pezzo di
legno di cricuopu che lo esalta ed
abbatte. Capisco che è stato molto di più ed altro dal realizzare una scultura
ostica; o carpire il segreto, delle colonne tortili e dell’esegesi popolare
intrisa di spagnolesca controriforma.
E voglio raccontarvela a modo mio. Prendendola larga. Andando
un bel po’ indietro nel tempo, per poi ritornare al presente.
Melchiorre Ereddia sarebbe secondo il Melfi - storico locale che ebbe la fortuna di
poter attingere a numerosi documenti ed
informazio- ni, ma dei quali sistematicamente
non indica la fonte – uno scultore chiaramontano del secolo XVI, autore tra
l’altro della statua in legno di S. Vito, patrono della città. Autore anche di altre statue, in legno e cartapesta,
quasi tutte scomparse (l’Annunziata datata 1547, un tempo nell’omonima chiesa, Santa
Maria Maddalena, fino agli anni ‘70 del secolo scorso nella chiesa del Carmelo
e la Madonna del Carmine nella chiesa di S. Vito) ad eccezione del gruppo in legno
e cartapesta di S. Filippo, datato 1547, che non esiterei ad attribuirgli per
convergenze stilistiche e temporali(1).
In tutte è presente l’ispirazione gotico rinascimentale, sottilmente asservita
al dettato controriformistico. Non ci troviamo certamente in presenza di un
artista, ma di un onesto artigiano che mutua stilemi colti ed afflati popolari.
Lo lega agli artisti contemporanei (Nicolò Mineo, Stefano Lo Forte), di poco
posteriori (Simone Mellini) e del secolo successivo (Benedetto Cultraro, Matteo
Iannizzotto), un sottile filo di
comunanza stilistica ed ideologica. Dentro si può leggere più o meno
nitidamente il rinascimento manieristico nella dizione gaginiana: diluito per
oltre due secoli.
Pertanto, il S. Vito di Ereddia è una delle prime testimonianze
artistiche di questa scuola
chiaramontana, il cui “capostipite” non conosciamo, ma i cui ultimi pigoni
sono nel nostro tempo. La statua lignea è colorata e decorata. Le aggiunte, in
altri materiali, sono posteriori.
Oltre alla funzione devozionale da subito se ne aggiunse una
rappresentativa e processionale. Motivo per cui nei primi del settecento,
quando la festa da popolare divenne barocca, si rese opportuno dotare la statua
di un sontuoso baldacchino.
La vara processionale fu commissionata ad un artista locale,
Benedetto Cutraro o Cultraro (ambivalenza che troviamo per molti di questa famiglia
di artisti), esperto scultore del legno e della pietra, autore del paliotto
della cappella del Crocifisso a S. Maria di Gesù datato e firmato (Io Benedetto Cultraro di Chiaramonte l’ho
scolpito, 1711) e della tribuna
in legno e pietra di S. Maria la Vetere che per molti versi replica, in grande
formato, la “vara” del patrono.
Il Cultraro realizza nel 1719 un superbo manufatto barocco:
la costruzione architettonica poggia su quattro colonne tortili e scanalate decorate a rilievo con teste di cherubini ed intrecci di
foglie, terminanti con capitelli corinzi. All’interno la cupola segue la
struttura degli archi a sesto ribassato ed è decorata a rilievo con motivi
floreali, sul fondo verde. All’esterno
la struttura, a parallelepipedo con cornicione fortemente aggettato, si conclude
con cupola sormontata dai simboli del martirio.
L’eleganza del manufatto viene ancor più evidenziata dalla
ricca doratura in foglia oro.
Da ragazzo Sebastiano Catania aveva spesso ammirato in
chiesa il gruppo scultoreo, affascinato dalla maestria e splendore dell’opera.
Che non era sempre visibile (nel passato si usava tenere coperte le statue
durante tutto l’anno, rendendole palesi ai devoti solo durante i
festeggiamenti), ma nel breve periodo della festa aveva potuta ammirarne la
raffinata tecnica.
Era nata allora, diceva, l’idea di cimentarsi con
quest’opera del passato. Riprodurla significava carpirne i segreti, manifestare
la propria adesione ad una ideologia dell’arte, che coniugava il passato col
presente, la sacralità con la devozione. Ma questo divenne comprensione ed
aspirazione quando, parecchi anni dopo, avendo appreso quell’arte, e dopo
variegati percorsi di ricerca e apprendistato, riapprodava a Chiaramonte come
ebanista. Fare di un lavoro una passione, un’arte come si diceva una volte, era certamente nelle sue
aspirazioni. E furono utili, passione ed entusiasmo, nei primi tempi quando
dovette confrontarsi con la difficoltà delle committenze, con le ristrettezze
economiche, con la mentalità chiusa di un piccolo centro.
Intanto sempre più spesso veniva in contatto con le opere
d’arte della città.
Per consulti per interventi di restauro o manutenzioni i
rettori e i procuratori delle chiese si rivolgevano ai due esperti del paese,
il Catania appunto, ed il maestro De Vita rinomato pittore.
Quella
aspirazione infantile, si concretizzò di colpo nel 1970. Una sera decise che
quella sfida non era più dilazionabile. Uno zio che conosceva i suoi
“intervalli” di creazione artistica gli aveva regalato un pezzo di legno ben
stagionato di albicocco (in siciliano cricuopu):
da quel pezzo di legno cominciava l’esperimento ideato già da tempo e sempre procrastinato. Avrebbe
realizzato per proprio sfizio, per se stesso, il gruppo scultoreo di Ereddia e
Cultraro, tentando di carpirne la tecnica e riprodurne lo stile. Cominciò a
lavorarci nel tempo libero, negli intervalli lavorativi, durante le festività.
Dapprima con entusiasmo, poi con avversione: l’operazione si presentava più impegnativa
di quanto avesse previsto. La vara del Cultraro, con le sue colonne tortili era
di difficile resa.
Come diavolo aveva fatto quell’artigiano a realizzare delle
colonne tortili asimmetriche, il cui riferimento stilistico e operativo non si
riscontrava in nessun altro prodotto simile!
Anzi aveva verificato che nulla di simile esisteva in giro (egli era uno
che si muoveva e usava osservare tutto ciò che avesse riferimento con la sua
professione); neppure nelle pubblicazioni d’arte che consultava e quando poteva
anche comprava. Rinunciò a cercare omologhi e si concentrò sulla soluzione del
Cultraro. Guardò e riguardò quelle colonnine tortili, ne prese le misure
sviluppò varie volte il disegno: alla fine capì il perché dell’asimmetria,
trovando la propria soluzione applicativa. Lo sfizio stava proprio in quella
riproposta maniacale del manufatto in scala ridotta e nel superare anche
l’impasse!
Era però un lavoro lungo ed estenuante. E le difficoltà
erano una appresso all’altra. Tanto che, ad un certo punto, decise di rinunciare.
Questa parte del suo racconto fu la più emotiva, anche
perché – enfasi o nò – usò parole grosse come “era una questione di principio”
oppure “era la sfida della mia vita” “dovevo farcela ad ogni costo”.
Ricominciò. Adesso deciso, però, a portare a termine
l’opera; quasi fosse la sfida ultima della sua vita. (2)
Nel 1993 Iano Catania completa la riproduzione in scala del
S. Vito: la certosina aderenza al modello originale abbinata alla tradizionale
tecnica di esecuzione, fanno di questo esperimento solipsistico un atto d’amore
per la tradizione artistica chiaramontana, il cui sottile filo - dal gotico
medievale al manierismo rinascimentale
attraverso il settecento barocco e fino al novecento liberty – approda
alla nostra epoca per testimoniare l’unicità della manualità artigianale.
A regola
d’arte
Sul tavolo da lavoro, smontato, un tavolo da gioco
« Probabile fattura
isolana di inizio ottocento, proviene da un’agiata famiglia dell’area iblea. Ho
la fortuna che l’interlocu-tore è persona competente, un architetto… altrimenti questo lavoro
lungo e faticoso di recupero di inserti da integrare nella impellicciatura,
restituendo funzionalità (“recupero filologico – diremmo oggi con linguaggio scientifico – aderente
al manufatto”) non verrebbe compreso appieno, specialmente nel rapporto costo….
Economicamente non è
redditizio, perché spesso il cliente ritiene l’intervento di recupero o
restauro eccessivamente costoso. Ma io penso che il lavoro, questo tipo di lavoro,
abbia una sua dignità e gratificazione nella esecuzione come dicevano gli antichi
“a regola d’arte”. Così va fatto. Ed io lo faccio ».
Lo guardo incollare quei minuscoli pezzetti, limare il
bordo, porvi un morsetto… Mi verrebbe di attaccare con un ovvio (« Perciò ha
oltre 40 che lavora in questa bottega, è al massimo del periodo lavorativo,
perché non lascia e dedica il tempo a gratificanti hobbies o studi? ») ma mi trattengo; chè intuisco reazione e
risposta.
Non
male!
2004. Lo trovai, una mattina, con un pezzo di legno
sbozzato. – «Arancio, bello ma poco docile». E come a rispondere al mio
tentativo di carpire il soggetto. – «Questa
è la Madonna di Gulfi».
Mi ricordai che nei giorni precedenti collazionando le varie
rappresentazioni plastiche – statue in pietra dura o tenera, bassorilievi,
terrecotte – da esporre nella mostra per il 50° dell’Incoronazione, avevamo
individuato una comune ascendenza, tardo rinascimentale, nelle sculture della Patrona di
Chiaramonte. Che non era soltanto
ade renza all’originale, di chiara impronta rinascimentale, ma ancor più il
frutto di una lunga e continuata tradizione classicista che aveva origine con i
mastri ed artigiani tardo gaginiani ed era proseguita, staticizzata, con i loro
epigoni fino ai nostri giorni. A voler guardare attentamente, questo sottile filo di Arianna, era ampiamente riscontrabile
nelle strutture architettoniche, negli ornati, negli arredi presenti in città.
Anche se le soluzioni erano state più o meno felici: ma ciò atteneva alle
capacità tecniche ed al gusto di ciascun artista.
« Ho capito, intende cimentarsi nella rappresentazione della
statua della Madonna di Gulfi, evidenziandone il connotato manieristico ».
Nei giorni
successivi, man mano che dal legno, venivano fuori i panneggi del manto, le
movenze leziose del Bambino e lo sguardo ieratico della Vergine, la risposta
del maestro Catania fu evidente.
«Perché non esporla alla mostra del mese prossimo. Sarebbe
il manufatto più recente, nel solco della tradizione; l’anello che congiunge
quelli del passato ad uno degli ultimi artisti artigiani di Chiaramonte».
Dapprima fu un intervallo fra un lavoro ed un altro, poi
divenne (mi confidò il figlio Salvatore) la principale sua attenzione. Vi lavorava
oltre che nel laboratorio anche a casa.
Qualche giorno prima che si aprisse la mostra, l’opera era
completata. La guardò con soddisfazione: «
Non male ».
Mi ricordava un altro artista, Giovanni de Vita, che abitava
poco discosto dal laboratorio di falegnameria, nella via Castello. Quando aveva
ultimato una sua opera, la mostrava agli amici o estimatori; e col pennello in
una mano e l’altra a carezzare il mento: - Non
male! Voleva dire che era
soddisfatto del risultato e che, a suo giudizio, era ben fatta. Dell’amicizia
di questi due, degli scambi culturali, della comune pietas (quella che fa la differenza tra gli uomini straordinari e
gli uomini ordinari 3) ci sarebbe molto da dire…
La mostra Regina Claramontis.
Percorsi e segni, realizzata in occasione dei festeggiamenti per il 50°
anniversario dell’Incoronazione
della Madonna di Gulfi nell’aprile/maggio 2004, è stata tra i momenti culturali
più significativi della storia di Chiaramonte: per la grandiosità
dell’allestimento, per l’elevato numero di visitatori e di personalità, per la
varietà dei pezzi esposti (rari, preziosi e difficilmente visibili al pubblico,
insieme e correlati). Moltissimo materiale perveniva da privati, tanto gelosi
dei cimeli quanto restii a renderli visibili.
Difficoltoso e impervio, pertanto, il percorso di raccolta dei reparti da
esporre.
Consulente artistico, collaboratore generoso ma ancor più discreto
e incisivo scopritore di giacimenti
inaspettati, fu Sebastiano Catania. Man mano che organizzavo il catalogo,
mentre appunti, annotazioni, lievi indizi divenivano un capitolo o paragrafo
della mostra, quasi ogni giorno, generalmente nel tardo pomeriggio, lo
incontravo nel suo laboratorio-bottega; gli mostravo le ultime scoperte, gli
svelavo un indizio suggerito o detto a mezza voce da qualcuno, la traccia o il
percorso di un pezzo.
Per ogni dubbio per ogni indizio per ogni difficoltà c’era
una risposta. Incredibile la sua memoria, la sua capacità di individuare
persone ed oggetti. L’indomani mi rintracciava, trafelato: in un foglietto un numero
di telefono, un indirizzo, un appuntamento già concordato oppure i dati
relativi ad un reperto.
Il recupero del San
Vinnoccu, un grande dipinto popolare che si esponeva in chiesa madre
durante una delle serate del novenario fino agli inizi del secolo scorso, fu
difficile e laborioso; ma alla fine, previa una pulizia discreta e rispettosa a
cura dello stesso, fece bella mostra nella sezione dipinti. E non fu il solo
intervento artistico-artigianale. La presenza fu costante e la disponibilità
(assieme a quella del figlio Salvatore, collaboratore altrettanto colto ed
esperto) consentì all’altro figlio, Raffaele, un allestimento dei percorsi e segni funzionale e nel
contempo spettacolare (il grande pannello, alto più di cinque metri, che introduceva
la mostra e verticalizzava lo spazio, fu di grande effetto) (4).
Fonti di ispirazione
Singolari ed esemplari le fonti d’ispirazione. Catania trae
spunto da un “deposito” di memorie, documenti, elaborati, frammenti recuperati
durante il suo lungo percorso artistico ed umano. Elabora, assembla, integra,
muovendosi però sempre dentro il recinto culturale che genera o ispira l’opera
e mantenendo la cifra stilistica della quale il manufatto è parte o complemento.
Un esempio. A
conclusione del restauro della chiesa di S. Maria di Gesù e del nuovo
presbiterio, il guardiano Fra Carmelo Latteri, gli commissiona un Ciborio; con
la precisa indicazione, però, dei soggetti biblici da realizzare in
bassorilievo: la manna del deserto e la moltiplicazione dei pani e dei pesci.
Per la struttura e gli ornati impiega vari legni (perché ognuno – mi spiega –
ha una peculiarità o personalità che si esplicita a secondo dell’utilizzo):
quercia, rovere, pero, ciliegio, cipresso, olivo, acero e sommacco. Come fonte
d’ispirazione per gli episodi biblici da raffigurare nei pannelli e nella porta
del tabernacolo recupera dal suo archivio alcune stampe del Dorè, che nel 1960
aveva sottratto, nel banco di vendita di Don Carruzzu, alla loro poco nobile
funzione di incarto. Provenivano, mi confida sottovoce, da un gruppo di libri
sacri cedute da un canonico chiaramontano al “putiaro”per eccellenza del piccolo centro ibleo.
Ancor più illuminante, per i percorsi e sostrati culturali
contenuti, l’arredo della sacrestia del Santuario di Gulfi. Intanto si tratta
di un dono dell’autore. In vari pezzi realizzati nell’arco di 18 anni: Armadi,
cassettiere e Cappella con Crocifisso (1992/1996), tavolo (1998), porta del
Giubileo (2000), bacheca “per grazia ricevuta” (2002), Crocifisso portatile
(2002), Ambone (2005), Altare (2007), pannelli con gli Evangelisti (2009).
L’elemento più interessante è l’arredo che interpreta in
chiave classicheggiante il Cassarizzo,
antico armadio con cassettiere per riporvi arredi e paramenti sacri, presente
in tutte le antiche chiese. Si compone di cinque pezzi: due armadi due
cassettiere e al centro la cappella del Crocifisso. Per gli elementi decorativi
delle ante trae ispirazione da una spalliera
di sedia del ‘500 veneto,
mentre i due bassorilievi, l’Annunciazione (a sinistra) e la Natività (a destra) sono tratti, l’uno
da una tavola della Bibbia illustrata da G. Dorè e l’altro, da una incisione
del Gandini in un vecchio libro ottocentesco La Vita di Gesù di Strauss. Altrettanto “intrecciati” gli influssi
negli altri elementi: la nicchia ha il modello in una stampa, i capitelli sono
desunti da una tavola dell’Enciclopedia Treccani (“modello poco diffuso in
arte” sottolinea il Catania), la cimasa, che corona tutta l’opera, da un pulpito
di Nicola Pisano mentre i tondi con i quattro evangelisti, nelle ante, traggono
modello da Duccio di Boninsegna, il grande Crocefisso, infine, coniuga arte,
cultura popolare e passione artigianale. Il prototipo è un piccolo crocefisso
in avorio approdato per restauro, anni prima, nella sua bottega, stimolando subito
la sua attenzione e creatività. Detto fatto –racconta – si pose all’opera: ma come
spesso era accaduto la riproduzione in scala risultò difficoltosa, in quanto
alcuni piccoli difetti, dovuti alla lavorazione dell’avorio, nell’ingrandimento
(di cinque volte) si espandevano mettendo a dura prova esperienza ed estro.
Difficoltà superate egregiamente.
Continuiamo: Gli elementi decorativi ad intaglio del tavolo
sono medievali, quelli delle gambe rimandano ad una colonna della cripta della
cattedrale di Canterbury. La caratteristica griglia in legno, nella porta del
Giubileo, riprende un motivo ideato dall’architetto francese Eugène Viollet Le
Duc (1814/1879) per l’abbazia di Cluny. Crocifisso portatile, ambone ed altare,
per la chiesa, recuperano stilemi settecenteschi, specie negli elementi decorativi.
Discorso che vale per quasi tutta la sua vasta ed eterogenea
produzione; nella quale prevale l’attrazione per il classicismo e la
riproposta, quando gli è possibile, di elementi stilistici del gotico e del
rinascimento. La vulgata locale poi è
assorbita, indagata, superata, stemperata in accademica riproposta, ironica rilettura dialettale e moderna lectio magistralis.
I tre personaggi che incontrate in questa mostra (invadenti
e inbarazzanti; potremmo dire, persino, iconoclasti in un percorso sacro: per
soggetti e temi) rappresentano questa peculiarità moderna, ironica ed
accademica dello scultore Catania: u Massa
Ciccu Malannata, Massa Minicu Causilienti e gentile consorte ‘gnà
Pè Nascatisa, sono oltre che divertita
rappresentazione del mondo lavorativo ibleo di ieri, ricerca introspettiva e condensato
di storia dell’arte (il primo replica un profeta
di Donatello, il secondo un ritratto del Bernini mentre il terzo è copia da
Andrea Sansovino). (5)
Giuseppe Cultrera
Note
(1)
Artisti & artigiani, 2003,
pag. 93; Il segno e il rito, 2007,
pagina 105.
(2) In quegli stessi anni Ferdinando Camon pubblicava Un altare per la madre (1978), intensa lettura dei valori del mondo
contadino friulano: la parte centrale racconta del padre e della realizzazione
di un altare in memoria della moglie. Opera lunga, impervia ed ostica per
l’artigiano, impegnato contro il tempo e contro difficoltà stilistiche e plastiche,
in una sfida irrinunciabile.
L’ho letto un paio di volte. E lo cito perché il racconto
della lunga gestazione del S. Vito del maestro Catania - tra ardori ed
entusiasmi iniziali, scoramenti e
ripensamenti successivi – lo trovo intriso della stessa pietas. Come la tensione per un mondo nel quale, la centralità del
sacro, la dignità dell’uomo, la valenza maieutica e catartica del lavoro, sono
presenze costanti.
(3) Ordinario, nell’accezione
siciliana, significa comune (con nessuna inflessione negativa).
(4) S. Nicola Tolentino, dipinto,
olio su tela, secolo XIX (cm 200x300). Veniva esposta nella serata del
Novenario gestita dai mugnai, dei quali è protettore. Era noto con la
denominazione popolare di Santu Vinnoccu. In Regina Claramontis. Percorsi e segni, catalogo della mostra, Chiaramonte,
2004; pagina 10, scheda 44.
(5)
Donatello (1386/1466); Gian Lorenzo Bernini (1598/ 1680); Andrea Sansovino
(1467/1529).
Cresciuto nelle chiese di
Chiaramonte, sempre affascinato da tutto ciò che riguarda l’architettura e
l’arte decorativa. Privo di qualsiasi scuola a
riguardo,
vissuto sempre in punta di piedi.
Oggi
all’approssimarsi del capolinea della vita presento il mio lavoro in
buona
compagnia del legno, che da 65 anni
mi è sempre vicino, quale
artigiano,
con i pregi e difetti che comporta la categoria…
Nella
speranza che tutto ciò serva di stimolo ai giovani (futuro dell’umanità) ai
quali va il mio invito alla cura e al rispetto del lavoro che i nostri antenati
ci hanno insegnato. * Iano Catania
* Segnalibro
Mostra: Storie di legno, Chiaramonte Gulfi, agosto 2009
“ Il legno. Essere vivente: nasce,
cresce e muore.
Compagno inseparabile dell’uomo,
sempre presente in mille
sembianze e mille occasioni.
Dall’umile fiammifero in pioppo al, fuori moda, stuzzicadenti in betulla.
Dalla
trave in abete nella modesta casetta, all’imponente capriata della grande
cattedrale.
Dalla cassetta delle elemosine al
cassone intagliato in noce del
rinascimento. Dall’anonimo sgabello
in abete ai monumentali stalli
delle chiese. Dalla sperduta
capanna, alla spettacolare e colossale
impalcatura per costruire la cupola
di S. Pietro.
Il legno! compagno inseparabile lo accoglie come culla
al suo arrivo e
lo accompagna nell’aldilà come letto
in cui dormire l’ultimo sonno.”
Iano Catania
“STORIE DI LEGNO”
Mostra di sculture del
maestro IANO CATANIA di Chiaramonte Gulfi
Palazzo Garofalo
(Museo della Cattedrale) C.so Italia, 87 RAGUSA
25
agosto / 1 settembre 2013. Apertura: ore 17,30 – 21,30
Esposizione
Testa di S. Giuseppe, pero intagliato, 1974.
Riproduce al vero la statua del presepe del Santuario di
Gulfi.
San Francesco
d’Assisi,
intagliato in noce, fine anni ’80.
Ripropone una scultura in legno policromo di Pedro de Mena
(1628 -1688).
Arredo sacrestia [Fotografie
- *Particolari esposti]
Due armadi, due cassettiere, cappella con Crocifisso; Santuario di Gulfi, 1992/96.
Elementi decorativi delle ante: intaglio di fondo tratto da
una spalliera di sedia del ‘500 veneto; con bassorilievi (a sx Annunciazione,
dalla Bibbia illustrata da Gustavo Dorè, a dx la Natività*, da un vecchio libro ottocentesco la Vita di Gesù di
Strauss, incisore Gandini).
Decorazione delle ante in basso: intaglio tratto da una
spalliera di sedia del ‘500 veneto. Fusto
delle colonne* della cappella del Crocifisso: intaglio ad intreccio. Capitelli*
della stessa cappella: composito a foglie lisce., da un disegno
nell’Enciclopedia Treccani dell’Arte antica (modello poco diffuso in arte).
Ante degli armadietti: i quattro Evangelisti, da opera di Duccio di Boninsegna
(Siena 1255/1318).
La cimasa che corona tutta l’opera trae ispirazione dal
pulpito di Nicola Pisano (Pisa, 1220/1284).
Porta del Giubileo [Fotografia]
Sacrestia Santuario di Gulfi, legno lamellare di noce
mansonia, irocho e noce nazionale; donazione, 2000. Caratteristica di questo manufatto
è la griglia in legno, da una ricostruzione per l’abbazia di Cluny
dall’architetto francese Eugène Viollet le Duc ( 1814-1879 )
Tavolo sacrestia [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale e
noce mansonia, donazione, 1998.
Elementi decorativi medievali, piano intarsiato con pasta di
riso, le gambe traggono ispirazione da una colonna della cripta della cattedrale
di Canterbury (Inghilterra).
Ambone
Santuario di Gulfi, intagliato in noce, donazione, 2005.
Elementi decorativi settecenteschi.
Altare [Fotografia]
Santuario di Gulfi, cipresso e massello di noce nazionale,
donazione, 2007.
Realizzato secondo i canoni dell’ebanisteria settecentesca.
Gli elementi decorativi, come le foglie e le volute si
ispirano al piedistallo argenteo della Madonna di Gulfi; il cartiglio ad un
pannello intagliato in noce del ‘600 italiano; il medaglione: le fasce
decorative applicate e la decorazione di fondo, da bronzi dorati del settecento
francese.
Crocifisso
Santuario di Gulfi,
donazione, 2002
Realizzato con i seguenti legni: noce mansonia (croce),
cipresso(struttura), noce nazionale (supporto), pero (figura). Elementi decorativi
settecenteschi.
Iscrizione: «11 gennaio 2012 - Donazione»
Cornice
Intagliata in noce satin, 2012. Donata al Museo etnomusicale
di Chiaramonte. “Dedicata al valente concertista, tromba e tromba piccola
Maestro Vito Calabrese, orgoglio musicale chiaramontano”
Ciborio
[Fotografia]
Chiesa S. Maria di Gesù; quercia rovere, pero, ciliegio,
cipresso, olivo, acero, sommacco, 2003.
I soggetti biblici in bassorilievo nei pannelli laterali (La manna nel deserto e La moltiplicazione dei pani) e la decorazione della porta del
tabernacolo sono conformi ad una precisa indicazione del Guardiano Fra Carmelo
Latteri, committente.
Base
Chiesa S. Maria di Gesù, noce intagliata, donazione con
dedica, 2007.
Intaglio
della parte frontale da una transenna in marmo del VI secolo, che si trova nel
Museo nazionale di Ravenna. L’intaglio dei pannelli laterali: da una porta
lignea nella basilica di S. Sabina in Roma. Ha motivazione funzionale: serve ad
esporre le statue dei santi Antonio e Francesco nel periodo delle loro feste.
Crocifisso
Noce nazionale e pero intagliato (i simboli degli Evangelisti),
donato alla Curia Vescovile in occasione del X° anniversario dell’insediamento
di S. E. Mons. Paolo Urso vescovo di Ragusa. 2012.
Calice
In olivo intagliato; donato a Don Giuseppe Russelli. 2013.
Ciotola
In palissandro, intagliata a mano senza ausiilio del tornio.
Ginevra, 1964.
Capitello composito
A foglie lisce intagliato in legno pero.
Copia dal fercolo del SS.mo Cristo, nella chiesa di S.
Giovanni Battista.
Capitello
Provino, colonna cappella del Crocifisso (Santuario di Gulfi,
sacrestia)
Si ispira alla Domus del tempio rotondo di Ostia. Capitello
composito a foglie liscie, IV secolo.
Il profeta barbuto,
Bassorilievo in noce satin, 2009.
Copia del Profeta barbuto, scultura in marmo di Donatello.
Nel cartiglio scritta dantesca «Vassene il tempo e l’uom non se n’avvede».
S. Sebastiano
In noce; giugno 2008.
Cornice intagliata in noce con bassorilievo raffigurante il
martirio di S. Sebastiano. Da una scultura in legno policromo di Alonzo Berruguete
(1488-1561), Spagna.
S.Vito
Statua e fercolo, legno intagliato, 1970-1993
Riproduzione in scala 1:5 della statua lignea di Melchiorre
Ereddia e del capolavoro barocco di
Benedetto Cultraro (1719), realizzato in albicocco (fercolo) e pero (statua) a
più riprese nell’arco di 23 anni, dal
1970 al 1993, «con certosina ricerca dell’aderenza al minimo particolare».
Maria SS.ma di Gulfi,
arancio, 2004.
Realizzata in occasione del 50 anniversario
dell’Incoronazione ed esposto nella mostra Regina
Claramontis (Chiaramonte Gulfi, aprile/maggio 2004).
Catene (2)
intagliate in monoblocco di acero; 2009.
Nella iconografia cristiana hanno significato positivo in
quanto uniscono il Cielo e la terra.
Cornice
Intagliata in noce nazionale; da un originale dorato, fine
settecento.
Cartiglio
Intagliato in noce satin, 2010. Dono. Sacrestia della Chiesa
Madre, Chiaramonte Gulfi.
Candelabro
Intaglio in noce azionale, 2013. Dono. Santuario di Gulfi.
Tre busti, tiglio e pero; donati ed esposti
al Museo dell’olio di Chiaramonte Gulfi. 2013. Personaggi tipici del vecchio
frantoio (trappitu) con nome e
soprannome antichi in dialetto chiaramontano.
Massa Ciccu malannata (masciu ri cuonzu), pero.
Massa Minicu causilienti (trappitaru), tiglio.
A gnà Pè nascatisa (trappitara), tiglio.
* Salvo diversa indicazione, le opere esposte si trovano
tutte a Chiaramonte Gulfi.
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