giovedì 21 marzo 2013

Vincenzo Rabito

La storia del novecento attraverso 
gli occhi di un contadino chiaramontano
Terra matta opera postuma di Vincenzo Rabito, dopo la riduzione teatrale è ora anche un film

Al chiaramontano Vincenzo Rabito (1899/1981) rivelazione letteraria nel 2007 con Terra matta sono dedicati due giorni sabato e domenica prossimi: all'originale lettura - stavolta cinematografica del duo Costanza Quatriglio (regista) e Chiara Ottaviano (sceneggiatore e produttore) - della sua esemplare autobiografia. Chiaramonte, sua patria,  gli ha dedicato un convegno nazionale di studi nel 2008; il Teatro Stabile di Catania, una lettura teatrale diretta egregiamente da Vincenzo Pirrotta ...
Un invito a partecipare: per conoscere anche l'originale progetto dell'Archivio degli iblei proposto da Chiara Ottaviano, aperto al contributo di tutti i chiaramontani e ragusani...


Su Vincenzo Rabito e la sua opera, a seguire ripropongo un mio articolo, 
pubblicato nel 2000 su Pagine dal Sud col titolo  "Un Gattopardo popolare?"

A settant’anni Vincenzo Rabito, cantoniere in pensione della Provincia regionale di Ragusa, decise di sciogliere i grumi della memoria nei traballanti caratteri di una vecchia Lettera 22 e spargerli sulle circa duemila pagine di un’originale ed estemporanea autobiografia. Chiuso nella sua stanza per oltre sette anni, dal 1969 al 1975, pagina dopo pagina ripercorse la propria vicenda umana che attraversava il secolo più esemplare – definito oggi dagli storici con l’appellativo di “breve”- per avvenimenti tumultuosi e scoperte scientifiche e tecnologiche.
Ogni sera a fine lavoro, richiudeva il “volume” lo assicurava con una doppia legatura e lo riponeva in un cassetto che chiudeva accuratamente a chiave. Sicchè nessuno conobbe questo suo tenace esercizio di alchemia letteraria: e sarebbe certamente rimasto un ipogeico percorso narrativo se alcuni anni dopo, esattamente nel 1981, e proprio in occasione della sua morte, uno dei figli, il più giovane, che aveva avuto sentore del travaglio narrativo, non lo avesse snidato dal cassetto segreto. Per riporlo in altro cassetto come cimelio affettivo.
A vent’anni di distanza Giovanni Rabito, quel figlio, fa pervenire il manoscritto alla prestigiosa «Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus» con la titolazione postuma di «Fontanazza, autobiografia 1899 – 1970». Ed è subito notorietà: il manoscritto ottiene ex aequo il Premio Pieve - Banca Toscana, mentre la stampa nazionale dà ampio risalto al caso letterario: «Il premio Pieve  Banca Toscana ha fatto emergere dal fondo magmatico della scrittura popolare – scriveva Beppe Del Colle su Famiglia Cristiana, n.ro 38 del 2000 – un capolavoro…».
«Rabito – si legge nella motivazione del Premio - si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da potere essere paragonato a un Gattopardo popolare»
*
Vincenzo Rabito nasce a Chiaramonte nel 1899, proprio nell’anno in cui scompare il letterato più illustre di questa terra, il barone Serafino Amabile Guastella, che era stato il disincantato cantore dei villani. Ai quali apparteneva la famiglia del nostro, che nelle terre di Fontanazza, aveva espresso la propria dolorante epopea di contadini del Sud. Fontanazza come Fontamara coi suoi cafoni in cerca di una redenzione impossibile; anche se i padroni chiaramontani erano meno arroganti e brutali di quelli del  paesello della Marsica dove Silone colloca la sua narrazione.
Baroni tanto filantropi quanto spiantati, come lo stesso Guastella costretto ad insegnare per vivere, o don Paolo Cultrera Fontanazza, che due secoli prima, in occasione del “terremoto grande” del 1693, raccolse e soccorse i deboli ed i derelitti, donando parte delle proprie ricchezze, o quel barone Melfi, contemporaneo del Rabito, esponente socialista del piccolo centro, che si era interessato a procuragli un posto stabile di lavoro. Molto più propensi alle speculazioni letterarie (anche se spesso velleitarie ed approssimative) che alla conduzione delle loro aziende agricole: esemplarmente rappresentati nel padre del citato Melfi, il barone Corrado, che aveva speso la propria esistenza e parte del patrimonio in ricerche archeologiche e pubblicazioni (quasi un centinaio) sugli aspetti più disparati di storia, arte, folclore, araldica della sua patria.
Ma c’erano, o c’erano stati, anche il barone Gaetano Guastella, il barone Spataro Guttadauro, il notaio Salvatore Ventura, il dottor Nicosia, il baronello Saverio Del Lago: tutti alla ricerca di notorietà letteraria.
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Agli antipodi è il narratore Rabito: scrive per sé e in una lingua sui generis, originalissima e personale in perenne dissidio con la lingua e sintassi italiana noncurante della più elementare ortografia e tutta impastata di sicilianismi; teso solo a trasmettere fluente e caldo il fiume dei ricordi sulla carta.
Un esercizio terapeutico, un conto da chiudere con la storia (la sua visione di storia), una ricerca improbabile di catarsi, il consuntivo all’appuntamento, sempre differito ed ora non più procastinabile?
«Più scriveva – ricorda uno dei figli – più si divertiva, più si convinceva di stare facendo la cosa più importante della sua vita, anche se escludo che mio padre sia mai stato sfiorato dall’idea della pubblicazione».
Pubblicazione che si rivela dapprima difficoltosa, nonostante l’impegno della prestigiosa fondazione di Pieve Santo Stefano, – mi dice un altro dei figli – per l’ampiezza dello scritto e per le difficoltà di trascrizione, ma poi avviata da una prestigiosa casa editrice, la Einaudi (nel 2007 il manoscritto è stato pubblicato – col titolo di Terra matta - nella collana Supercoralli e nel  2009 nella ET). La chiave che ha aperto il cassetto serrato da Vincenzo Rabito, dischiudendo l’epopea di Terra matta, ha proiettato lo scritto del villano nel dorato mondo letterario, invano concupito e rincorso dai conterranei baroni e notabili.      (2000)

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