La storia del novecento attraverso
gli occhi di un contadino chiaramontano
Terra matta opera postuma di Vincenzo Rabito, dopo la riduzione teatrale è ora anche un film
Al chiaramontano Vincenzo Rabito (1899/1981) rivelazione letteraria nel 2007 con Terra matta sono dedicati due giorni sabato e domenica prossimi: all'originale lettura - stavolta cinematografica del duo Costanza Quatriglio (regista) e Chiara Ottaviano (sceneggiatore e produttore) - della sua esemplare autobiografia. Chiaramonte, sua patria, gli ha dedicato un convegno nazionale di studi nel 2008; il Teatro Stabile di Catania, una lettura teatrale diretta egregiamente da Vincenzo Pirrotta ...
Un invito a partecipare: per conoscere anche l'originale progetto dell'Archivio degli iblei proposto da Chiara Ottaviano, aperto al contributo di tutti i chiaramontani e ragusani...
Su Vincenzo Rabito e la sua opera, a seguire ripropongo un mio articolo,
pubblicato nel 2000 su Pagine dal Sud col titolo "Un Gattopardo popolare?"
A settant’anni
Vincenzo Rabito, cantoniere in pensione della Provincia regionale di Ragusa,
decise di sciogliere i grumi della memoria nei traballanti caratteri di una
vecchia Lettera 22 e spargerli sulle circa
duemila pagine di un’originale ed estemporanea autobiografia. Chiuso nella sua stanza per oltre sette anni, dal
1969 al 1975, pagina dopo pagina ripercorse la propria vicenda umana che
attraversava il secolo più esemplare – definito oggi dagli storici con
l’appellativo di “breve”- per avvenimenti tumultuosi e scoperte scientifiche e
tecnologiche.
Ogni
sera a fine lavoro, richiudeva il “volume” lo assicurava con una doppia
legatura e lo riponeva in un cassetto che chiudeva accuratamente a chiave. Sicchè
nessuno conobbe questo suo tenace esercizio di alchemia letteraria: e sarebbe
certamente rimasto un ipogeico percorso narrativo se alcuni anni dopo, esattamente
nel 1981, e proprio in occasione della sua morte, uno dei figli, il più
giovane, che aveva avuto sentore del travaglio narrativo, non lo avesse snidato
dal cassetto segreto. Per riporlo in altro cassetto come cimelio affettivo.
A vent’anni di distanza
Giovanni Rabito, quel figlio, fa pervenire il manoscritto alla prestigiosa
«Fondazione Archivio Diaristico Nazionale Onlus» con la titolazione postuma di
«Fontanazza, autobiografia 1899 – 1970». Ed
è subito notorietà: il manoscritto ottiene ex aequo il Premio Pieve - Banca
Toscana, mentre la stampa nazionale dà ampio risalto al caso letterario: «Il
premio Pieve Banca Toscana ha fatto
emergere dal fondo magmatico della scrittura popolare – scriveva Beppe Del
Colle su Famiglia Cristiana, n.ro 38
del 2000 – un capolavoro…».
«Rabito – si legge nella
motivazione del Premio - si arrampica sulla scrittura di sé per quasi tutto il
Novecento, litigando con la storia d’Italia e con la macchina da scrivere, ma
disegnando un affresco della sua Sicilia così denso da potere essere paragonato
a un Gattopardo popolare»
*
Vincenzo
Rabito nasce a Chiaramonte nel 1899, proprio nell’anno in cui scompare il
letterato più illustre di questa terra, il barone Serafino Amabile Guastella,
che era stato il disincantato cantore dei villani. Ai quali apparteneva la
famiglia del nostro, che nelle terre di Fontanazza,
aveva espresso la propria
dolorante epopea di contadini del Sud. Fontanazza
come Fontamara coi suoi cafoni in
cerca di una redenzione impossibile; anche se i padroni chiaramontani erano
meno arroganti e brutali di quelli del
paesello della Marsica dove Silone colloca la sua narrazione.
Baroni tanto filantropi
quanto spiantati, come lo stesso Guastella costretto ad insegnare per vivere, o
don Paolo Cultrera Fontanazza, che due secoli prima, in occasione del
“terremoto grande” del 1693, raccolse e soccorse i deboli ed i derelitti,
donando parte delle proprie ricchezze, o quel barone Melfi, contemporaneo del
Rabito, esponente socialista del piccolo centro, che si era interessato a
procuragli un posto stabile di lavoro. Molto più propensi alle speculazioni
letterarie (anche se spesso velleitarie ed approssimative) che alla conduzione
delle loro aziende agricole: esemplarmente rappresentati nel padre del citato
Melfi, il barone Corrado, che aveva speso la propria esistenza e parte del
patrimonio in ricerche archeologiche e pubblicazioni (quasi un centinaio) sugli
aspetti più disparati di storia, arte, folclore, araldica della sua patria.
Ma
c’erano, o c’erano stati, anche il barone Gaetano Guastella, il barone Spataro
Guttadauro, il notaio Salvatore Ventura, il dottor Nicosia, il baronello
Saverio Del Lago: tutti alla ricerca di notorietà letteraria.
*
Agli
antipodi è il narratore Rabito: scrive per sé e in una lingua sui generis, originalissima e personale
in perenne dissidio con la lingua e sintassi italiana noncurante della più
elementare ortografia e tutta impastata di sicilianismi; teso solo a
trasmettere fluente e caldo il fiume dei ricordi sulla carta.
Un
esercizio terapeutico, un conto da chiudere con la storia (la sua visione di
storia), una ricerca improbabile di catarsi, il consuntivo all’appuntamento,
sempre differito ed ora non più procastinabile?
«Più
scriveva – ricorda uno dei figli – più si divertiva, più si convinceva di stare
facendo la cosa più importante della sua vita, anche se escludo che mio padre
sia mai stato sfiorato dall’idea della pubblicazione».
Pubblicazione
che si rivela dapprima difficoltosa, nonostante l’impegno della prestigiosa
fondazione di Pieve Santo Stefano, – mi dice un altro dei figli – per l’ampiezza
dello scritto e per le difficoltà di trascrizione, ma poi avviata da una
prestigiosa casa editrice, la Einaudi (nel
2007 il manoscritto è stato pubblicato – col titolo di Terra matta - nella collana Supercoralli e nel
2009 nella ET). La
chiave che ha aperto il cassetto serrato da Vincenzo Rabito, dischiudendo
l’epopea di Terra matta, ha proiettato lo scritto del villano nel dorato mondo letterario, invano concupito e rincorso dai conterranei
baroni e notabili. (2000)
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