La grande quercia di c.da Paraspola |
La quarta passeggiata sotto le stelle (venerdì 22 settembre 2017, ore 18) ha come percorso e tema gli ulivi saraceni di c.da Paraspola e alcuni misteri e racconti popolari ad essi legati. Relativamente ai fatti della Vuzzulera riporto parte di un mio testo pubblicato in Il segno e il rito (2007)
1854: il delitto della Vuzzulera
Anche se fra tutte sembra la più assurda, questa, è
storia, anzi cronaca.
A qualche centinaio di metri in linea d’aria ad est
del Paraspola, in territorio di
Chiaramonte Gulfi, si estende la contrada Buzzolera
anch’essa fin dall’antichità intensamente coltivata; qui sorge la chiesetta di
S. Elia e una sorgente d’acqua. Poco più in alto della sorgente e della chiesa,
per una trazzera a questa tangente, si arriva al caseggiato del fu canonico
Salvatore Ventura, che come tanti altri aveva la sua cappella.
E’ la notte del 5 febbraio 1854; nella casa del
canonico attorno al focolare stanno il mezzadro Vito Pepi di anni 42, il figlio
Paolo di 12 anni e Mariano Sinatra, il garzone, di 16. Fuori nevica.
Bussano alla porta e il Pepi va; accertatosi dalla
voce che è persona conosciuta, apre. Quando si accorge di essere stato
ingannato non fa in tempo a ritrarsi: una coltellata dietro l’altra lo
inchiodano al suolo in un lago di sangue. Tre uomini irrompono nella stanza (un
quarto, Francesco Amato, quello che si era fatto riconoscere, resta fuori a
controllare la situazione) e senza esitazione finiscono il garzone. Il figlio
di Pepi terrorizzato implora pietà. Gli assassini sembrano insensibili, come in
trance: ucciso anche costui lo
gettano nel fuoco, poi aggiungono i corpi degli altri due sventurati.
Ora si avviano verso la cappella, vanno verso
l’altare e cominciano a scavare. Cercano l’oro, il tesoro. Sì: perché anche per
questa cappella c’è una storia
popolare che parla di tesoro e d’oro. E loro che ci credono, lo cercano.
Inconsciamente ottemperavano alla prima condizione
per spignare* una truvatura: il sacrificio di un essere
umano.
Adesso bisognava cercare e saper cercare.
Ficiru ni
l’artari na furnera
Ni li mobili
ficiru apertura.
Nenti truvaru pi la so
svintura
Nidda nuttata
friddusa e scura
La notizia dell’eccidio giunge in città e desta
grande commozione e sdegno. I responsabili, in breve tempo, tutti e quattro
vengono assicurati alla giustizia; a due, Mariano Ferrante detto Ciresi e Michele Distefano, artefici dei
delitti, fu comminata la pena capitale, ad Antonio Mosca e Francesco Amato,
come complici, fu inflitta la condanna del carcere a vita.
L’impiccagione dei due rei avvenne l’anno
successivo.
O mammi e patri ca lu munnu siti
Si aviti figghi, beni l’insignati,
ri lu ciantu
no nu vi affriggiti,
ca Dio cumanna
ciantu e vastunati.
Suddu cu li
lignati nun ci putiti,
va mannatili
prestu carzarati,
ri stu fattu
l’esempiu n’aviti
successu a
Ciaramunti…
tristemente
ammonisce il poeta popolare Luciano Iannizzotto (1819 – 1884) iniziando a
narrare il tragico evento nel poemetto L’assassiniu
a la Vuzzulera**.
* Spignare un tesoro: eseguire gli atti e le pratiche rituali necessarie per impadronirsi di un tesoro nascosto.
Ad un rito cruento e terribile fa riferimento la leggenda attorno alla Chiusa di S. Maria in contrada Dicchiara, sempre nel territorio di Chiaramonte, dove doveva esistere un nucleo abitativo antico con annessa chiesa. Il Melfi agli inizi del secolo sondando la zona (Riassunto sulle scoverte fatte lungo il Dirillo, Noto, 1925) annotava: «Faccio notare che in questa chiusa di S. Maria il popolo crede trovarsi un tesoro in una grotta, che fin’ora non si è potuto appropriare, perché non si è trovato il bambino di sette anni da uccidersi, occorrendone il sangue, il fiele e il cuore.
Sconosciamo da dove trae origine questa leggenda, tanto che portatici ad osservare la grotta, costatammo essere di tre lati circondata di avanzi di basi di fabbrica, e nella volta si osserva quell’apertura chiusa di lastra che la fa giudicare una sepoltura comune dentro una chiesa, il tutto non dissimile di quanto osservammo in Gulfi tra i ruderi della chiesa di S. Nicola.».
Ancora attinenza con il fatto di cronaca “nera” della Vuzzulera ha la narrazione popolare ambientata a Frigintini (Modica) nella contrada Cipudduzza in un passato indeterminato (ma non sappiamo quanto la leggenda abbia sopraffatto il possibile accaduto): «Qui c’era una chiesetta campestre, dove era celato un tesoro che richiedeva, a differenza di altri, un sacrificio umano, e il “coraggio” di mangiare parti della vittima. Un uomo e una donna presero la terribile decisione di tentare e destinarono a vittima sacrificale un loro figlioccio, un bimbo di nome Clemente. E come voleva il rito, dopo averlo ucciso, gli strapparono cuore e fegato e cominciarono a mangiare. E più andavano avanti nell’empio pasto più dall’altare cadevano sul pavimento ai loro piedi monete d’oro. E il mucchio era già grande e copriva il corpo esanime della vittima, quando la donna non ebbe la forza di inghiottire l’ultimo pezzetto di fegato e lo gettò via a terra. Ma ecco che di colpo quell’oro si trasforma in carbone e i due impietriti, restano con l’orrore di un inutile misfatto» (G. Cultrera, Itinerario ibleo, Ragusa, 1993, pagina 103).
Stavolta abbiamo dei dati precisi relativi al prete che lo celò, che aveva nome Settimo Cannizzo, e all’epoca, il secolo XVIII° relativamente vicino a noi. L’ubicazione, invece, è più imprecisa, per lo meno oggi che in contrada Paraspola non è più identificabile il palazzo dei Cannizzo e la relativa cappella di famiglia.
La leggenda, che si pone all’interno di fatti realmente accaduti e quindi storici, narra che crollata nel 1693 per il disastroso terremoto la chiesa di S. Filippo di Chiaramonte, Don Settimo Cannizzo, cappellano di questa, in attesa della ricostruzione, trasportò la statua di S. Orsola nella chiesetta della casa di campagna in contrada Paraspola.
La morte lo colse prima che fosse completata la chiesa, per cui il progetto di dotare S. Orsola di una cappella rimase inattuato. E inattuabile, perché con la scomparsa di Don Settimo si estingueva pure la famiglia Cannizzo.
Fin qui i fatti accertabili.
La leggenda popolare sostiene che sotto l’altare di quella chiesetta di contrada Paraspola sta seppellito un sacco pieno di monete d’oro, che sarebbero dovute servire per edificare la cappella di S. Orsola. E difatti la Santa nella notte della sua festività, fa vedere questo tesoro; solo che non ha ancora deciso a chi donarlo.
Un pastore di passaggio, molti anni orsono, vide che in una delle grotte che sovrastano la valle del Paraspola c’era luce; quando si avvicinò vi trovò una fiera dove comprò un’arancia per l’irrisorio prezzo di un grano. Strana fiera, invero, perché con stupore il pastore (che non era di queste parti) si accorse arrivato al suo paese che quell’arancia era d’oro. (C. Melfi, La leggenda del tesoro di S. Orsola, in Estratto da “Archivio per le tradizioni popolari”, Palermo 1904)
Un ulivo secolare (saraceno) nel territorio di Chiaramonte Gulfi (RG). Ph.: Pippo Bracchitta |
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