Una testimonianza della prima chiesa, in parte poi crollata col sisma del 1693, è il portale laterale, ancora ben conservato, ascrivibile a Simone Mellini (sec. VXII).
L’aspetto attuale
La Chiesa di S. Giuseppe di
Chiaramonte Gulfi sorge nel centro storico, a poca distanza dalla piazza Duomo.
Il prospetto, volto a sud, si eleva
su una breve gradinata.
L’interno, ad unica navata, è
scandito da lesene, lievemente sporgenti, che evidenziano la sequenza delle
cappelle laterali interrotte, al centro di ogni lato, da due eleganti aperture.
Il decoro e gli stucchi divengono esuberanti nell’abside semicircolare dove le
colonne corinzie percorrono maestose il perimetro in un gioco di pieni e vuoti
– accentuato dalle quattro nicchie contenenti le statue di S. Anna, S.
Elisabetta, S. Gioacchino e S. Zaccaria – che esaltano la cappella centrale
(contenente nel passato, pala e statua del titolare) al cui culmine (catino
absidale) erompe il gruppo scultoreo, in stucco, della Assunzione di Maria.
La facciata, sebbene modestamente
semplice, acquista maestosità per la posizione angusta che la fa emergere sugli
edifici circostanti, ed eleganza per lo snello portale sovrastato dal
finestrone centrale (oggi murato) che accentua lo slancio verso l’alto,
alleggerendone la mole.
L’originario aspetto del prospetto
è, oggi, distorto per la mancanza di elementi scomparsi o modificati nel corso
degli ultimi 150 anni; principalmente due: il campanile laterale e il Collegio
delle vergini, edificati intorno al 1755.
Il collegio, fatiscente, fu
demolito intorno al 1980 e al suo posto costruito un moderno edificio pubblico,
destinato a servizi sociali ed uffici AUSL. Il campanile, che nell’unica
documentazione iconografica giunta a noi è rappresentato più alto del
prospetto, dovette essere demolito intorno al 1850, e sostituito con quello
attuale, la cui tipologia è rintracciabile in diversi interventi coevi.
Dal XVII secolo vi si riunivano il
consiglio civico per le deliberazioni e le
corporazioni e maestranze per l’elezione dei «consoli» da parte
dell’assemblea generale.
La fondazione
Intorno al 1623 fu edificata,
nell’attuale sito, una piccola chiesa dedicata al patriarca S. Giuseppe1, che fu portata a termine in breve tempo2.
Tra le maestranze che la
edificarono fu determinante l’apporto di uno scultore chiaramontano, che i
memorialisti locali identificano col nome di Simone Mellini, un tardo
gaginiano, al quale venivano attribuite la monumentale struttura dell’abside e
le sculture della cappella centrale3.
Una testimonianza di questa
prima chiesa, in parte poi crollata col sisma del 1693, è il portale laterale,
ancora ben conservato, ascrivibile al citato Mellini.
Simone Mellini operante a Chiaramonte dagli
inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal Melfi che
purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae notizia, l’artefice
di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche tardo rinascimentali,
alcune giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in
ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto
della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che
ornavano il recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della piazza, ed una cappella
interna non più esistente; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie
(chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella
chiesa di S. Maria di Gesù.
Come fosse questo primitivo edificio sacro possiamo
desumerlo dai resti e dalle testimonianze storiche: ad unica navata, abside
coincidente con l’attuale, più corto di circa un terzo.
L’ultimo dato e facilmente riscontrabile,
nell’ubicazione dell’antica porta, oggi murata all’esterno e riutilizzata
all’interno come nicchia. Sulla valenza
di questa apertura, quale porta principale (il Nicosia, storico locale accorto
e ben documentato, dà questa indicazione), o laterale e quindi secondaria, come
appare più logico, non si hanno riscontri. Non conoscendosi la sistemazione
topografica ed urbanistica del quartiere (denominato allora, S. Francesco).
La ricostruzione
La chiesa fu ristrutturata
ed ingrandita, a seguito del citato sisma, nei primi anni del XVIII secolo.
Nella seconda metà del
secolo la chiesa viene decorata con stucchi ed adornata di pitture e sculture.
Ad un Gianforma, verosimilmente Giovanni, sono attribuiti gli stucchi (notevole
il gruppo dell’Assunzione di Maria,
nel catino absidale).
Tra il 1737 (statua lignea
del titolare) ed il 1775 (S. Ignazio di Loyola, dipinto del netino Costantino
Carasi) si completa l’arredo d’altari e cappelle4.
La «nuova chiesa»
Dal 1751 al 1860 la storia
degli interventi è documentata nei “registri di introito ed esito” della chiesa5. Ed è
interessante perché evidenzia una serie di problemi di staticità dell’edificio
riconducibili, non soltanto a deficienze costruttive ma ancor più ad una
instabilità del suolo rilevata anche da un
recente studio geologico per i restauri in corso.
Una costante
dell’architettura religiosa iblea è il lento protrarsi, per quasi tutto il
secolo successivo al sisma, dei lavori di ricostruzione o ristrutturazione
degli edifici sacri. Nel caso della chiesa di S. Giuseppe a quest’aspetto
usuale si aggiunge un continuo consolidamento dell’edificio, determinato dalle
cause endemiche e strutturali, cui si è accennato sopra.
L’abside con la cappella
maggiore è quella che richiederà maggiori interventi, assieme alla volta ed al
lato occidentale.
Il Melfi ritiene che la
monumentale struttura dell’altare del titolare, opera del mastro scalpellino
Simone Mellini, risalente alla fase iniziale della costruzione della chiesa
(sec. XVII) sia sopravvissuta al terremoto. E in parte c’era del vero nella
testimonianza che mutuava da documentazione e memoria popolare. Soltanto che
non è giunta fino a noi. Quella attuale, che riecheggia moduli e stilemi del
maestro tardo gaginiano, è frutto di intervento ricostruttivo della metà
settecento. Ne abbiamo documentazione in un mandato di pagamento (1 novembre
1752), di 5 onze, a mastro Giuseppe Sciacco «per compra di pietre per il nuovo
cappellone».
Il capomastro Giuseppe
Sciacco apparteneva ad una famiglia di murifabbri,
operanti a Chiaramonte dalla ricostruzione post terremoto e fino alla metà del
secolo da poco trascorso. Nel decennio precedente, difatti, aveva lavorato
all’edificazione del campanile della Chiesa di S. Maria La Vetere (meglio nota, oggi,
come Santuario di Gulfi)6.
Pur mancando le indicazioni
delle maestranze per tutto il decennio successivo si ha documentazione di
lavori vari: «restaurare il tetto della chiesa», «fare il pavimento del nuovo
Cappellone». Anzi Dal 1766 si parla esplicitamente di «fabrica della nuova
chiesa». Le somme erogate, sono considerevoli, specie se si tiene conto che una
parte delle spese - le offerte spontanee di notabili o devoti - non venivano
rendicontate.
Nei lavori appare un altro
capomastro, il ragusano Giorgio Pulichino, per il quale il 5 maggio 1769 il notaio Matteo Ventura Sanctis rilascia àpoca (quietanza di pagamento) per onze
12 «a buon conto delli pezzi fatti e trasportati pella nuova fabbrica».
Interessante un mandato di
pagamento del 1774 nel quale come caparra vengono liquidate 4 onze a M. Carmelo
Spagna e non meglio precisato «compagno di Siracusa» per arredi tra cui
«cornici delli quadri»; cornici che dovettero servire, con probante sicurezza,
per i 4 quadri delle cappelle laterali (S. Ignazio di Loyola, S. Eligio, S.
Francesco di Paola, Madonna delle Grazie) per i quali i due storici locali
Nicosia e Melfi ipotizzavano le date di esecuzione (da documenti certamente in
loro possesso ma a noi sconosciuti) attorno al 1775.
Interventi di consolidamento e restauro nel secolo XIX
Col nuovo secolo iniziano
una serie ininterrotta d’interventi, a volte ripetuti, che interessano spesso
la staticità dell’edificio piuttosto che l’ornamento.
Nel 1835 viene ricostruita
la volta. Dalle note di pagamento non si evince se a causa di un cedimento o
per rinnovare la parte terminale dell’edificio.
Vi intervengano diverse
maestranze: falegnami, carpentieri, muratori e “mastri di maramma”. I lavori
hanno inizio nella primavera del 1835 quando viene approntato il «legname
necessario nella costruzione della volta, giusto l’estimo di M. Michele Ballato
e M. Carmelo Ragusa». Quest’ultimo è un mastro falegname di fiducia della
chiesa, che troviamo associato, in questa fase, ai mastri “marammieri” Salvatore
e Santo Fornaro, rispettivamente padre e figlio. Il completamento avviene
l’anno successivo. L’annotazione di pagamento datata 29 settembre 1836 si
riferisce, infatti, a lavori conclusivi quali «listone e volta, i canali e
tetto, le brodate nella volta», le tegole (provenienti «dalla campagna di S.
Margherita», zona ricca di creta e dove erano operanti diverse fornaci per la
fabbricazione dei coppi).
Della pavimentazione con
«balate di pietra forte» e «contorno di pietra nera», oggi non c’è più traccia.
E’ a seguito dei lavori
precedenti, che il pavimento della chiesa necessita di restauro: si desume da
una nota del 22 marzo 1837 per «compra di calce necessaria per acconciare il
pavimento della Chiesa» e «per un giorno di M. Pietro D’Angelo ed un manovale per
acconciare detto pavimento».
Sono lo stesso D’Angelo
«marammiere» e mastro Raimondo Calabrese, appartenente ad altra famiglia di
capomastri operante a Chiaramonte dal post terremoto al secolo scorso, che
dall’ottobre 1838 all’agosto 1841 sistemano la pavimentazione «intagliando e
sittando le balate». Con un lasso di tempo lungo che evidenzia un lavoro “in
economia”.
A distanza di dieci anni la
struttura della chiesa, specie la parte apicale, torna a manifestare segni di
cedimento.
Necessitano di consolidamento:
la volta, «l’arco del Cappellone che minacciava rovina», le pareti, specie
quella occidentale, il prospetto.
Per evitare un collasso
della struttura viene «sfabbricata la fabrica che poggiava sopra l’Arco
Maggiore» poi si passa a «scaricare l’arco e fare il tetto mettere il trabe ed
i forbici per levare il peso sopra l’arco» «chiudere le fessure, acconciare la
loggetta» «chiudere e murare le fessure nella facciata di fuori e dentro il
Cappellone».
I lavori furono eseguiti nel
1845.
I robusti contrafforti con
ampie arcate, appoggiati alla parete occidentale, appartengono con molta
probabilità a quest’intervento di consolidamento.
Il problema resta insoluto.
Nei primi del settembre 1850 necessitava «la formazione di quattro catene di
ferro perché la chiesa minacciava rovina».
L’intervento è affidato ai
mastri Salvatore e Santo Fornaro, che già nel 1835 avevano consolidato la
volta. Si tratta di «situare le catene» e sistemare la copertura consolidandola
col gesso.
Nel 1856 in consonanza con
quanto avveniva in altre chiese del comune, viene ripitturato e restaurato
l’interno.
Artefice e primo finanziatore fu il rettore della chiesa Don Emanuele
Nobile, che ne ha lasciato testimonianza autografa nella premessa all’esito dal 1 giugno 1856 sino ad agosto 1857:
«Si avverte che in
quest’anno fu intonacata e pittata la chiesa e fatto tutto quanto che fu
bisognevole; per la sola pittura furono impiegati onze 40, oltre a tutt’altro,
e che la spesa ammontò a circa onze 100 …»
Fu l’intervento più
notevole, dopo quello del 1750-70, sia come consolidamento che come
abbellimento e restauro. Furono aggiunte pitture, tra le quali, anche se non
citate espressamente i 5 affreschi in eleganti tondi, opera di Gaetano
Distefano (1809-1896); fu rinnovato l’altare maggiore, la parte in pietra (con
“balate petrapece”) opera di mastro Carmelo Pulichino, la struttura in legno
dello scultore Rosario Distefano (1789-1874); furono realizzati arredi, le
sedie presbiteriali opera di Salvatore Puccio (1812-1904), il confessionale -pergamo
opera di Rosario Distefano .
Fu pitturato e decorato
l’interno, compresa la volta (tenue azzurro e giallo ocra), indorati gli
altari.
Purtroppo fu anche l’ultimo
intervento in consonanza ed equilibrio stilistico.
Pochi anni dopo, nel 1860,
con la “costruzione dell’organo” si ha la prima rozza sovrastruttura. Si
continuerà col saccheggio di decori e fregi, per allestire l’annuale “apparato
festivo” (l’uso indiscriminato di chiodi, tavole, e addobbi è testimoniato nel registro degli esiti alla voce “Festa
del Patriarca”). E con le pulizie ed imbiancature delle pareti, che hanno
cancellato la patina pittorica ottocentesca (oggi scomparsa del tutto).
Nel secolo da poco scorso,
si è acuito il degrado: alla decadenza delle strutture si è aggiunta l’incuria
per le opere pittoriche (tutti i dipinti necessitano di un radicale restauro),
per le sculture (le quattro statue dell’abside furono ricoperte da un melenso
strato di pittura), per gli arredi (l’altare e il confessionale-pergamo del
Distefano, smembrati e fatiscenti).
L’intervento di
consolidamento e restauro, in corso, giunge opportuno; restituirà un piccolo
gioiello tardo barocco, alla fruizione del pubblico.
_________
Note esplicative
1) «Da un atto
del notaro Sebastiano Occhipinti si rileva che nel 1623 fu edificata la chiesa
di S. Giuseppe. Essa era però allora più piccola, e vi si entrava per la porta
or chiusa, che sporge in via S. Francesco.» S. Nicosia, Notizie storiche su Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1882; pag. 204
2) «Crescendo
sempre la pietà dei fedeli, non ostante nel comune fosse stato alzato da poco
un convento, sullo scorcio del 1623, il vicerettore Matteo Acciarito, fece
gettare le fondamenta di una chiesetta in onore di S. Giuseppe. Il popolo però
onde essere preservato dalla peste, portata nel seguente anno 1624 da una
galera proveniente dall’Africa carica di schiavi ricomprati dalla carità
siciliana, fece sì che fosse presto portata a termine.» C. Melfi, Cenni storici sulla città di Chiaramonte
Gulfi, Ragusa, 1912; pag. 98.
3) «Di fatto
nel 1623 ebbe principio l’erezione della piccola chiesa di S. Giuseppe, la cui
decorazione fu commessa al Mellini. Però questa chiesa nel susseguente secolo
fu prolungata e decorata di stucchi e dei lavori del Mellini rimase non
innovato l’abside attorno al quale sono otto colonne corinzie con ricche
decorazioni nei zoccoli, nel tergo dei fusti e nei capitelli, sui quali posa
una elegantissima architravata con finissimi bassorilievi sottoposta ad una
cornice con un addentellato seguito da leggiadri intagli.» C. Melfi, Le opere del Mancino e del Berrettaro in
Chiaramonte, Noto, 1929; pag. 21.
La figura
dell’architetto Simone Mellini e la
collocazione temporale della fondazione della chiesa di S. Giuseppe fu desunta
dagli storici Nicosia e Melfi (specie quest’ultimo che consultò archivi ed ebbe
documentazione di prima mano) da un atto del 1623 rogato dal notaio Occhipinti ; purtroppo oggi non più riscontrabile
in quanto il volume relativo all’anno 1623, custodito presso l’Archivio di
Stato, sezione di Modica, è deteriorato e non consultabile. SASM, Notaio Sebastiano Occhipinti
(1611-1628), vol. 8.
Simone Mellini
operante dagli inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal
Melfi che purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae notizia,
l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche, tardo
rinascimentali, alcune giunte sino a noi. Per citarne alcune, in ordine
cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della
Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il
recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della
piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S.
Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria
eleganza; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a
partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria
di Gesù.
4) Tra i
dipinti e le sculture posseduti dalla chiesa di S. Giuseppe, oggi sono ancora
esistenti:
S. Giuseppe,
una grande tela (320 x 230) un tempo sull’altare Maggiore; olio di autore
ignoto, di mediocre pregio, del secolo XVIII. E’ stato restaurato negli ultimi
decenni.
S. Ignazio di
Loyola, attr. a Costantino Carasi (Noto 1717 – 1779), tela di cm. 300 x 200.
Primo altare parete destra. L’attribuzione al Carasi è ipotizzabile sia per la
testimonianza del Melfi (Le opere del
Mancini e del Berrettaro, Noto, 1929; pag.38) «Nel 1775 i Giurati
chiamarono il notinese Costantino Garrasi (sic)
al quale, a loro spese fecero eseguire la tela di S. Ignazio di Loyola per la
chiesa di S. Giuseppe», sia per confronto stilistico con le sue opere
ampiamente presenti nell’area siracusana e ragusana. Numerosi studi ( Citti
Siracusano, La pittura del Settecento in
Sicilia, Roma, 1986; G: Barbera (a cura), Opere d’arte restaurate nella provincia di Siracusa e Ragusa, II, Siracusa, 1989 (scheda 20); F.
Balsamo, Costantino Carasi, protagonista
della pittura netina del Settecento,in QdM, Siracusa 1998) hanno definito
artista ed opere.
S. Francesco
di Paola, attr. a Giovannino Ventura, pittore chiaramontano vissuto nel XVIII
secolo operante dalla seconda metà del Settecento. Figlio del più noto Simone è
modesto pittore orbitante nell’area degli epigoni del D’Anna e Sozzi. Tela di
cm 230 x320, oggi in cattivo stato di conservazione.
S. Eligio,
olio d’autore ignoto. Datato «1776», in un cartiglio in basso a destra. E’
posto nel primo altare della parete sinistra.
Madonna delle
Grazie, attr. dai locali a Vito D’Anna, ma certamente opera di un epigono.
Misura cm 300x 200; è posto nel secondo altare della parete sinistra.
S. Giuseppe,
statua lignea, colorata. Datata 1737. La tradizione popolare la attribuisce a
non precisato artista palermitano. Potrebbe appartenere alla bottega del
Bagnasco. Le eleganti aureole del Patriarca e del Bambin Gesù, in argento
sbalzato, sono opera di Salvatore Puccio (rispettivamente, firmate e datate: S. Puccio 1867, 1873).
Assunzione di
Maria, gruppo scultoreo (stucchi bianchi e colorati) che sormonta la cappella
di S. Giuseppe in alto al centro del catino absidale. Vengono attribuiti dai
memorialisti locali a Giovanni Gianforma. E’ attestata nella seconda metà del
secolo XVII la presenza dell’artista nell’area iblea. Più che probante la sua
paternità.
Affreschi (5
tondi sulle pareti con episodi della vita di S. Giuseppe, Arcangelo Gabrile e
S. Michele Arcangelo).
Via Crucis
(olio su lastre di zinco) opera del Sac. Gaetano Distefano.
S. Anna, S.
Gioacchino, S. Elisabetta, S. Zaccaria: quattro statue in pietra attribuite
dagli storici locali a Benedetto Cultraro, scultore chiaramontano vissuto a
cavallo del XVIII secolo; ma sembrano piuttosto essere parte della decorazione
del Mellini, a cui, per confronto stilistico con le altre opere esistenti in
Chiaramonte e specie con le due statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre, si possono
con maggior verosimiglianza attribuire. Il recente restauro, ha evidenziato a
seguito della pulitura delle quattro statue il loro connotato seicentesco
(compresa la decorazione con cromie forti che era stata nascosta dalle numerose
ridipinture).
5) Due volumi
custoditi nell’archivio parrocchiale della Chiesa Madre. Il primo riporta le
annotazioni relative agli anni 1751/1803 ed il secondo, agli anni 1774/ 1860;
la sovrapposizione di date tra i due volumi, come l’ordine interno delle pagine
o fogli discontinuo e disordinato, è derivato dal fatto che ciascun volume
raccoglie fascicoli già sciolti e rilegati in un momento successivo.
Nel regesto il
volume è indicato col numero romano, il foglio (recto a verso b)
con cifra araba.
Tutte le note
di pagamento, cui si fa riferimento nel testo, si trovano nella sezione
documenti, elencate, per lo più integralmente, in ordine cronologico.
* Notizie storiche sulla chiesa di S. Giuseppe è tratto dal volume: Giuseppe Cultrera, Artisti & artigiani, aspetti e momenti dell’architettura religiosa a Chiaramonte, 2002
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