La Chiesa di S. Giuseppe di Chiaramonte Gulfi sorge nel centro storico, a poca distanza dalla piazza Duomo. Il prospetto, volto a
sud, si eleva su una breve gradinata.
L’interno, ad unica navata, è
scandito da lesene, lievemente sporgenti, che evidenziano la sequenza delle
cappelle laterali interrotte, al centro di ogni lato, da due eleganti aperture.
Il decoro e gli stucchi divengono esuberanti nell’abside semicircolare dove le
colonne corinzie percorrono maestose il perimetro in un gioco di pieni e vuoti
– accentuato dalle quattro nicchie contenenti le statue di S. Anna, S.
Elisabetta, S. Gioacchino e S. Zaccaria – che esaltano la cappella centrale
(contenente nel passato, pala e statua del titolare) al cui culmine (catino
absidale) erompe il gruppo scultoreo, in stucco, della Assunzione di Maria.
La facciata, sebbene modestamente
semplice, acquista maestosità per la posizione angusta che la fa emergere sugli
edifici circostanti, ed eleganza per lo snello portale sovrastato dal
finestrone centrale (oggi murato) che accentua lo slancio verso l’alto,
alleggerendone la mole.
L’originario aspetto del prospetto
è, oggi, distorto per la mancanza di elementi scomparsi o modificati nel corso
degli ultimi 150 anni; principalmente due: il campanile laterale e il Collegio
delle vergini, edificati intorno al 1755.
Il collegio, fatiscente, fu
demolito intorno al 1980 e al suo posto costruito un moderno edificio pubblico,
destinato a servizi sociali ed uffici AUSL. Il campanile, che nell’unica
documentazione iconografica giunta a noi è rappresentato più alto del
prospetto, dovette essere demolito intorno al 1850, e sostituito con quello
attuale, la cui tipologia è rintracciabile in diversi interventi coevi.
Dal XVII secolo vi si riunivano il
consiglio civico per le deliberazioni e le corporazioni e maestranze per
l’elezione dei «consoli» da parte dell’assemblea generale.
La fondazione
- Intorno
al 1623 fu edificata, nell’attuale sito, una piccola chiesa dedicata al
patriarca S. Giuseppe1, che fu portata a termine
in breve tempo2.
Tra le maestranze che la
edificarono fu determinante l’apporto di uno scultore chiaramontano, che i
memorialisti locali identificano col nome di Simone Mellini, un tardo
gaginiano, al quale venivano attribuite la monumentale struttura dell’abside e
le sculture della cappella centrale3.
Una testimonianza di questa
prima chiesa, in parte poi crollata col sisma del 1693, è il portale laterale,
ancora ben conservato, ascrivibile al citato Mellini.
Simone Mellini operante a Chiaramonte dagli
inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal Melfi che
purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae notizia,
l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche tardo
rinascimentali, alcune giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in
ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto
della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che
ornavano il recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della piazza, ed una cappella
interna non più esistente; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie
(chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella
chiesa di S. Maria di Gesù.
Come fosse questo primitivo edificio sacro possiamo
desumerlo dai resti e dalle testimonianze storiche: ad unica navata, abside
coincidente con l’attuale, più corto di circa un terzo.
L’ultimo dato e facilmente riscontrabile,
nell’ubicazione dell’antica porta, oggi murata all’esterno e riutilizzata
all’interno come nicchia. Sulla valenza
di questa apertura, quale porta principale (il Nicosia, storico locale accorto
e ben documentato, dà questa indicazione), o laterale e quindi secondaria, come
appare più logico, non si hanno riscontri. Non conoscendosi la sistemazione
topografica ed urbanistica del quartiere (denominato allora, S. Francesco).
La ricostruzione- La chiesa fu ristrutturata ed ingrandita, a seguito
del citato sisma, nei primi anni del XVIII secolo.
Nella seconda metà del
secolo la chiesa viene decorata con stucchi ed adornata di pitture e sculture. Ad
un Gianforma, verosimilmente Giovanni, sono attribuiti gli stucchi (notevole il
gruppo dell’Assunzione di Maria, nel
catino absidale).
Tra il 1737 (statua lignea
del titolare) ed il 1775 (S. Ignazio di
Loyola, dipinto del netino Costantino Carasi) si completa l’arredo d’altari
e cappelle4.
La «nuova chiesa» - Dal 1751 al 1860 la storia degli interventi è
documentata nei “registri di introito ed esito” della chiesa. Ed è
interessante perché evidenzia una serie di problemi di staticità dell’edificio
riconducibili, non soltanto a deficienze costruttive ma ancor più ad una
instabilità del suolo rilevata anche da un
recente studio geologico propedeutico ai lavori di restauro del 2000.
Una costante
dell’architettura religiosa iblea è il lento protrarsi, per quasi tutto il
secolo successivo al sisma, dei lavori di ricostruzione o ristrutturazione
degli edifici sacri. Nel caso della chiesa di S. Giuseppe a quest’aspetto
usuale si aggiunge un continuo consolidamento dell’edificio, determinato dalle
cause endemiche e strutturali, cui si è accennato sopra.
L’abside con la cappella
maggiore è quella che richiederà maggiori interventi, assieme alla volta ed al
lato occidentale.
Il Melfi ritiene che la
monumentale struttura dell’altare del titolare, opera del mastro scalpellino
Simone Mellini, risalente alla fase iniziale della costruzione della chiesa
(sec. XVII) sia sopravvissuta al terremoto. E in parte c’era del vero nella
testimonianza che mutuava da documentazione e memoria popolare. Soltanto che
non è giunta fino a noi. Quella attuale, che riecheggia moduli e stilemi del
maestro tardo gaginiano, è frutto di intervento ricostruttivo della metà
settecento. Ne abbiamo documentazione in un mandato di pagamento (1 novembre
1752), di 5 onze, a mastro Giuseppe Sciacco «per compra di pietre per il nuovo
cappellone».
Il capomastro Giuseppe
Sciacco apparteneva ad una famiglia di murifabbri,
operanti a Chiaramonte dalla ricostruzione post terremoto e fino alla metà del
secolo da poco trascorso. Nel decennio precedente, difatti, aveva lavorato all’edificazione
del campanile della Chiesa di S. Maria La Vetere (meglio nota, oggi, come Santuario di
Gulfi)5.
Pur mancando le indicazioni
delle maestranze per tutto il decennio successivo si ha documentazione di
lavori vari: «restaurare il tetto della chiesa», «fare il pavimento del nuovo
Cappellone». Anzi Dal 1766 si parla esplicitamente di «fabrica della nuova
chiesa». Le somme erogate, sono considerevoli, specie se si tiene conto che una
parte delle spese - le offerte spontanee di notabili o devoti - non venivano
rendicontate.
Nei lavori appare un altro
capomastro, il ragusano Giorgio Pulichino, per il quale il 5 maggio 1769 il notaio Matteo Ventura Sanctis rilascia àpoca (quietanza di pagamento) per onze
12 «a buon conto delli pezzi fatti e trasportati pella nuova fabbrica».
Interessante un mandato di
pagamento del 1774 nel quale come caparra vengono liquidate 4 onze a M. Carmelo
Spagna e non meglio precisato «compagno di Siracusa» per arredi tra cui
«cornici delli quadri»; cornici che dovettero servire, con probante sicurezza,
per i 4 quadri delle cappelle laterali (S.
Ignazio di Loyola, S. Eligio, S. Francesco di Paola, Madonna delle Grazie)
per i quali i due storici locali Nicosia e Melfi ipotizzavano le date di
esecuzione attorno al 1775.
Interventi di consolidamento e restauro nel secolo XIX - Col nuovo secolo iniziano
una serie ininterrotta d’interventi, a volte replicati, che interessano spesso
la staticità dell’edificio piuttosto che l’ornamento.
Nel 1835 viene ricostruita
la volta. Dalle note di pagamento non si evince se a causa di un cedimento o
per rinnovare la parte terminale dell’edificio.
Vi intervengano diverse
maestranze: falegnami, carpentieri, muratori e “mastri di maramma”. I lavori
hanno inizio nella primavera del 1835 quando viene approntato il «legname
necessario nella costruzione della volta, giusto l’estimo di M. Michele Ballato
e M. Carmelo Ragusa». Quest’ultimo è un mastro falegname di fiducia della
chiesa, che troviamo associato, in questa fase, ai mastri “marammieri”
Salvatore e Santo Fornaro, rispettivamente padre e figlio. Il completamento
avviene l’anno successivo. L’annotazione di pagamento datata 29 settembre 1836
si riferisce, infatti, a lavori conclusivi quali «listone e volta, i canali e
tetto, le brodate nella volta», le tegole (provenienti «dalla campagna di S.
Margherita», zona ricca di creta e dove erano operanti diverse fornaci per la
fabbricazione dei coppi).
Della pavimentazione con
«balate di pietra forte» e «contorno di pietra nera», oggi non c’è più traccia.
E’ a seguito dei lavori
precedenti, che il pavimento della chiesa necessita di restauro: si desume da
una nota del 22 marzo 1837 per «compra di calce necessaria per acconciare il
pavimento della Chiesa» e «per un giorno di M. Pietro D’Angelo ed un manovale
per acconciare detto pavimento».
Sono lo stesso D’Angelo
«marammiere» e mastro Raimondo Calabrese, appartenente ad altra famiglia di capomastri
operante a Chiaramonte dal post terremoto al secolo scorso, che dall’ottobre
1838 all’agosto 1841 sistemano la pavimentazione «intagliando e sittando le
balate». Con un lasso di tempo lungo che evidenzia un lavoro “in economia”.
A distanza di dieci anni la
struttura della chiesa, specie la parte apicale, torna a manifestare segni di
cedimento.
Necessitano di
consolidamento: la volta, «l’arco del Cappellone che minacciava rovina», le
pareti, specie quella occidentale, il prospetto.
Per evitare un collasso
della struttura viene «sfabbricata la fabrica che poggiava sopra l’Arco
Maggiore» poi si passa a «scaricare l’arco e fare il tetto mettere il trabe ed
i forbici per levare il peso sopra l’arco» «chiudere le fessure, acconciare la
loggetta» «chiudere e murare le fessure nella facciata di fuori e dentro il
Cappellone».
I lavori furono eseguiti nel
1845.
I robusti contrafforti con
ampie arcate, appoggiati alla parete occidentale, appartengono con molta
probabilità a quest’intervento di consolidamento.
Il problema resta insoluto.
Nei primi del settembre 1850 necessitava «la formazione di quattro catene di
ferro perché la chiesa minacciava rovina».
L’intervento è affidato ai
mastri Salvatore e Santo Fornaro, che già nel 1835 avevano consolidato la volta.
Si tratta di «situare le catene» e sistemare la copertura consolidandola col
gesso.
Nel 1856 in consonanza con
quanto avveniva in altre chiese del comune, viene ripitturato e restaurato
l’interno.
Artefice e primo
finanziatore fu il rettore della chiesa Don Emanuele Nobile, che ne ha lasciato
testimonianza autografa nella premessa all’esito
dal 1 giugno 1856 sino ad agosto 1857:
«Si avverte che in quest’anno fu intonacata e pittata la chiesa e fatto
tutto quanto che fu bisognevole; per la sola pittura furono impiegati onze 40,
oltre a tutt’altro, e che la spesa ammontò a circa onze 100 …»
Fu l’intervento più
notevole, dopo quello del 1750-70, sia come consolidamento che come
abbellimento e restauro. Furono aggiunte pitture, fu rinnovato l’altare
maggiore, la parte in pietra (con “balate petrapece”) opera di mastro Carmelo
Pulichino, la struttura in legno dello scultore Rosario Distefano (1789-1874);
furono realizzati arredi, le sedie presbiteriali opera di Salvatore Puccio
(1812-1904), il confessionale-pergamo opera di Rosario Distefano. Fu pitturato
e decorato l’interno, compresa la volta (tenue azzurro e giallo ocra), indorati
gli altari.
Purtroppo fu anche l’ultimo
intervento in consonanza ed equilibrio stilistico.
Pochi anni dopo, nel 1860,
con la “costruzione dell’organo” si ha la prima rozza sovrastruttura. Si
continuerà col saccheggio di decori e fregi, per allestire l’annuale “apparato
festivo” (l’uso indiscriminato di chiodi, tavole, e addobbi è testimoniato nel registro degli esiti alla voce “Festa
del Patriarca”). E con le pulizie ed imbiancature delle pareti, che hanno
cancellato la patina pittorica ottocentesca (oggi scomparsa del tutto).
_________
1) «Da un atto
del notaro Sebastiano Occhipinti si rileva che nel 1623 fu edificata la chiesa
di S. Giuseppe. Essa era però allora più piccola, e vi si entrava per la porta
or chiusa, che sporge in via S. Francesco.» S. Nicosia, Notizie storiche su Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1882; pag. 204
2) «Crescendo
sempre la pietà dei fedeli, non ostante nel comune fosse stato alzato da poco un
convento, sullo scorcio del 1623, il vicerettore Matteo Acciarito, fece gettare
le fondamenta di una chiesetta in onore di S. Giuseppe. Il popolo però onde
essere preservato dalla peste, portata nel seguente anno 1624 da una galera
proveniente dall’Africa carica di schiavi ricomprati dalla carità siciliana,
fece sì che fosse presto portata a termine.» C. Melfi, Cenni storici sulla città di Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1912; pag.
98.
3) «Di fatto
nel 1623 ebbe principio l’erezione della piccola chiesa di S. Giuseppe, la cui
decorazione fu commessa al Mellini. Però questa chiesa nel susseguente secolo
fu prolungata e decorata di stucchi e dei lavori del Mellini rimase non
innovato l’abside attorno al quale sono otto colonne corinzie con ricche
decorazioni nei zoccoli, nel tergo dei fusti e nei capitelli, sui quali posa
una elegantissima architravata con finissimi bassorilievi sottoposta ad una
cornice con un addentellato seguito da leggiadri intagli.» C. Melfi, Le opere del Mancino e del Berrettaro in
Chiaramonte, Noto, 1929; pag. 21.
La figura
dell’architetto Simone Mellini e la
collocazione temporale della fondazione della chiesa di S. Giuseppe fu desunta
dagli storici Nicosia e Melfi (specie quest’ultimo che consultò archivi ed ebbe
documentazione di prima mano) da un atto del 1623 rogato dal notaio Occhipinti ; purtroppo oggi non più riscontrabile
in quanto il volume relativo all’anno 1623, custodito presso l’Archivio di
Stato, sezione di Modica, è deteriorato e non consultabile. SASM, Notaio Sebastiano Occhipinti
(1611-1628), vol. 8.
Simone Mellini
operante dagli inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal
Melfi che purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae
notizia, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche,
tardo rinascimentali, alcune giunte sino a noi. Per citarne alcune, in ordine
cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della
Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il
recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della
piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S.
Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria
eleganza; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a
partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria
di Gesù.
4) Tra i
dipinti e le sculture posseduti dalla chiesa di S. Giuseppe, oggi sono ancora
esistenti:
S. Giuseppe, una grande tela (320 x 230)
un tempo sull’altare Maggiore; olio di autore ignoto, di mediocre pregio, del
secolo XVIII. E’ stato restaurato negli ultimi decenni.
S. Ignazio di Loyola, attr. a Costantino
Carasi (Noto 1717 – 1779), tela di cm. 300 x 200. Primo altare parete destra.
L’attribuzione al Carasi è ipotizzabile sia per la testimonianza del Melfi (Le opere del Mancini e del Berrettaro,
Noto, 1929; pag.38) «Nel 1775 i Giurati chiamarono il notinese Costantino
Garrasi (sic) al quale, a loro spese
fecero eseguire la tela di S. Ignazio di Loyola per la chiesa di S. Giuseppe»,
sia per confronto stilistico con le sue opere ampiamente presenti nell’area
siracusana e ragusana. Numerosi studi ( Citti Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma, 1986; G: Barbera (a
cura), Opere d’arte restaurate nella
provincia di Siracusa e Ragusa, II,
Siracusa, 1989 (scheda 20); F. Balsamo, Costantino
Carasi, protagonista della pittura netina del Settecento,in QdM, Siracusa
1998) hanno definito artista ed opere.
S. Francesco di Paola, attr. a
Giovannino Ventura, pittore chiaramontano vissuto nel XVIII secolo operante
dalla seconda metà del Settecento. Figlio del più noto Simone è modesto pittore
orbitante nell’area degli epigoni del D’Anna e Sozzi. Tela di cm 230 x320.
S. Eligio, olio d’autore ignoto. Datato
«1776», in un cartiglio in basso a destra. E’ posto nel primo altare della
parete sinistra.
Madonna delle Grazie, attr. dai locali a
Vito D’Anna, ma certamente opera di un epigono. Misura cm 300x 200; è posto nel
secondo altare della parete sinistra.
S. Giuseppe, statua lignea, colorata.
Datata 1737. La tradizione popolare la attribuisce a non precisato artista
palermitano. Potrebbe appartenere alla bottega del Bagnasco. Le eleganti
aureole del Patriarca e del Bambin Gesù, in argento sbalzato, sono opera di
Salvatore Puccio (rispettivamente, firmate e datate: S. Puccio 1867, 1873).
Assunzione di Maria, gruppo scultoreo
(stucchi bianchi e colorati) che sormonta la cappella di S. Giuseppe in alto al
centro del catino absidale. Vengono attribuiti dai memorialisti locali a
Giovanni Gianforma. E’ attestata nella seconda metà del secolo XVII la presenza
dell’artista nell’area iblea. Più che probante la sua paternità.
Tempere (5 tondi sulle pareti con
episodi della vita di S. Giuseppe, Arcangelo Gabrile e S. Michele Arcangelo).
Via Crucis (olio su lastre di zinco) opera
del Sac. Gaetano Distefano (Chiaramonte 1809 – ivi 1896), autore di molte opere
pittoriche nell’area iblea.
S. Anna, S. Gioacchino, S. Elisabetta, S.
Zaccaria: quattro statue in pietra attribuite dagli storici locali a
Benedetto Cultraro, scultore chiaramontano vissuto a cavallo del XVIII secolo;
ma sembrano piuttosto essere parte della decorazione del Mellini, a cui, per
confronto stilistico con le altre opere esistenti in Chiaramonte e specie con
le due statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre, si possono
con maggior verosimiglianza attribuire. Il recente restauro, ha evidenziato a
seguito della pulitura delle quattro statue il loro connotato seicentesco
(compresa la decorazione con cromie forti che era stata nascosta dalle numerose
ripinture).
5) 12 luglio
1745 - I procuratori della chiesa di Gulfi incaricano mastro Giuseppe Sciacco
di Chiaramonte di «perfectionare il campanile già cominciato di detta Ven.
Chiesa di Gulfi secondo il disegno che li daranno essi procuratori e d’intaglio
di pietra della perrera della Valatazza della med. qualità che sono gli intagli
della facciata di d. Chiesa e benvisto al rev. Sac. D. Stefano Cutello» (SASM, notaio Pietro Antonio Bonelli, vol. 4 f . 752)
Estratto da: Giuseppe Cultrera, Artisti & artigiani,Aspetti e momenti dell'architettura religiosa a Chiaramonte G. , 2003.
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