domenica 12 luglio 2015

Per le antiche vie. Passeggiate sotto le stelle

   Programma delle 

   PASSEGGIATE SOTTO LE STELLE 

    Chiaramonte Gulfi 3 luglio / 4 settembre 2015  

    ogni venerdì, ore 21,15





Il Castello e la città medievale.                    
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , via S. Giovanni, Arco dell’Annunziata, antica Matrice, via Porta, la Pusterla, piazza S. Giovanni, il Baglio e la porta per Ragusa, resti della Torre, via Esterna, via Muraglia.  3 luglio

La misura del tempo                       
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , Corso, chiesa S. Francesco, Chiesa Madre.
Meridiane ed antichi orologi (intervento del prof. Giovanni Bellina) - Una sconosciuta fonderia di campane a Chiaramonte (intervento del prof. Luigi Lombardo, antropologo). 10 luglio

Il tempo libero a Chiaramonte, tra ottocento e novecento. 
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , Piazza duomo, via Corallo.
Le società operaie Vittorio Emanuele e Umberto; il Circolo di Conversazione: i luoghi del tempo libero della nuova borghesia, degli artigiani ed operai, dei nobili e cavalieri. Il democratico dott. Casì fondatore di due società operaie e cofondatore della Cassa Rurale depositi e prestiti Maria SS. di Gulfi … Il barone Guastella abituale frequentatore del Circolo ed il cameriere Molè…   gli affreschi e tempere di Nicolò Distefano e Giovanni De Vita, Giovanni Cutrone Sansone pittori chiaramontani. Intervento della prof.ssa Luisa Fontanella, presidente del Circolo di Conversazione.    17 luglio

Barocco ed oltre.                                     
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) -, il Corso, S. Giuseppe (interno), palazzo Montesano, Chiesa S. Filippo (prospetto), S. Giovanni (interno).
Visita ad alcuni monumenti ed opere d’arte del tardo barocco; con particolare attenzione alle maestranze ed artisti locali. Interviene la prof.ssa Gaudenzia Flaccavento (storica d’arte).  24 luglio

Neoclassico e liberty                               
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , Corso Umberto, Sala Sciascia (prospetto), Palazzo di città.
Un architetto neoclassico (Nicolò Ragusa) un ingegnere che era anche architetto (Giuseppe Gafà), un pittore-decoratore, aiuto del Cambellotti (Antonino Cannì). Il prospetto incompiuto, il teatro comunale demolito; l’acquedotto comunale e il nuovo palazzo di città … ed altre storie. Con un intervento, sul pittore ragusano A. Cannì, del prof. Giorgio Flaccavento (storico d’arte).   31 luglio

 Missing! Luoghi del tempo andato, scomparsi o misteriosi.
Itinerario: Belvedere (Giardini Comunali) - , via Montesano, largo Gurrieri, via Muraglia, via Ciano, via S. Paolo e piazzetta S. Paolo, via S. Elisabetta, via S. Vito, via Manfredi, Piazza duomo.
Frammenti e memorie di luoghi e monumenti scomparsi: la casa famiglia per ragazze indigenti del sac. Garretto e la chiesa della Sacra Famiglia; la chiesa di S. Elisabetta; le Logge di San Vito; il convento e la chiesa di S. Caterina; il carcere borbonico…  
Interviene: Giovanni DiStefano (docente Università della Calabria, direttore del Museo archeologico di Camarina)  7 agosto

Il tardo Rinascimento nella nuova Chiaramonte.
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , via Maiorana, via Molè, Corso, Piazza del Salvatore, via S. Caterina. Il primo ordine della Chiesa madre, 1608, dalla VI tavola del quarto libro del De architectura di S. Serlio e il fregio gagianiano nella sacrestia; L’arco di cappella del tardo gaginiano Nicolò Mineo (Chiesa di S. Filippo); i resti dell’antico portale del Salvatore; il sarcofago di Don MarcAntonio Ventura (1652) al Museo d’arte sacra.  14 agosto

Per le antiche vie. Personaggi e luoghi del tempo andato.
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , via S. Paolo, via Brullo, via Guastella, via T. Chiavola, via S. Sofia, Corso, piazza duomo. Il poeta Comitini, il putiaro Don Carruzzo, lo stampasanti Puccio, il barone Guastella e il barone Melfi, il poeta popolare Giuseppe Bonafede, l’umanista Thomas Chaula, il pittore Giovanni De Vita, l’archeologo Antonino Di Vita, il giuriconsulto GianAntonio Cannizzo, il pittore Simone Ventura e il figlio Giovannino. Interventi di: Silvana Catania, Vito Cultrera, Gina Cusumano, Giovanni Laterra, Marta Laterra, Martina Occhipinti , Mario Scollo.   21agosto

La guerra di Vincenzo.                
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , via Corallo, vicolo V. Rabito, via Brullo, via T. Chiavola, via Martiri Ungheresi, piazza duomo (monumento ai caduti). Un itinerario, attraverso la memoria ed i luoghi di Vincenzo Rabito, nel dramma della grande guerra, con approdo al monumento ai caduti che ricorda gli oltre 200 chiaramontani che non tornarono a casa. Rabito ritornò, anche con una medaglia al valore e in Terra matta raccontò quella storia. Contromano. Interventi e testimonianze: Tano Rabito (figlio dello scrittore); Chiara Ottaviano (sceneggiatore e produttore del film Terramatta). 28 agosto

Per le antiche vie. Il quartiere lontano.                     
Percorso: Belvedere (Giardini Comunali) - , via S. A. Guastella, piazza S. Maria di Gesù, Convento e chiesa, quartiere Cuba.
La Cuba: arabi ed ebrei nella Chiaramonte tardo medievale. Il convento seicentesco al limite del territorio. La chiesa di S. Maria dell’Itria, poi S. Maria di Gesù. L’antica via dei Riformati e la neviera. Interviene: Salvatore Marletta (guida ecologica)
4 settembre
Partenza dal Belvedere accanto (ai Giardini Comunali )
h. 21,30 - in punto; rientro, stesso luogo, h. 23


10 luglio 2015

mercoledì 8 aprile 2015

Ville e villeggiatura

Architettura rurale - Ville e masserie iblee



Punteggiano, lievi ed eleganti, il paesaggio umano, immerse nel verde degli olivi, dei mandorli, dei carrubi, imprigionate dal dedalo bianco dei muri a secco: sono le ville rurali e le masserie sette‑ottocentesche sparse nel territorio ibleo (1). Sorsero nel secolo scorso in massima parte  ‑ alcune, specie le fattorie e masserie, risalgono agli inizi del secolo XVIII (2) ed alla ricostruzione post terremoto  ‑  ed ebbero funzioni ed utilizzo vario.
Espressione di una classe piccolo nobiliare o borghese agiata, rappresentano il legame affettivo alla proprietà rurale e l'alternativa, delle zone interne, alla villeggiatura estiva. A secondo della funzione, varia la tipologia costruttiva: un edificio semplice e snello a due piani per la villeggiatura, un edificio ampio, con la corte chiusa e con corredo di corpi minori quali opifici, case coloniche, cappella, magazzini per la masseria, da utilizzare tutto l'anno, durante i cicli di produzione (3).
E' chiaro che la grandezza dell'edificio e la vastità dell'eventuale giardino annesso sono in proporzione all'importanza, reale o pretesa, del proprietario.
Al loro moltiplicarsi contribuì, a partire dalla seconda metà ottocento, la trasformazione capitalistica delle campagne, con la diffusione sistematica dei campi chiusi, l'incentivazione dell'agricoltura intensiva e razionale, la costruzione delle strade di collegamento interno e della ferrovia, avviate dal governo dell'Italia unita (4).
Inoltre con la bonifica dei territorio, iniziata nel secolo precedente col disboscamento, una vasta porzione di campagna, specie nella fascia pianeggiante degradante verso la marina, fu recuperata alla coltivazione dei vigneti e all'impianto di nuovi oliveti.
Le fattorie e le case coloniche, perciò, si adattarono alla estrazione, immagazzinamento e commercializzazione dei prodotti agricoli: molti palmenti e frantoi datano da questa fase.
La famiglia del proprietario nel periodo estivo si trasferiva nelle abitazioni rurali (dove nel resto dell'anno abitava permanentemente fattore o soprastante) e partecipava o assisteva alle fasi di trebbiatura, alla bacchiatura e raccolta delle olive, mandorle e carrube, alla raccolta e pigiatura delle uve; e nel contempo trascorreva il periodo di villeggiatura nella accogliente parte della villa o masseria, che il proprietario aveva destinato a sè e ai famigliari (5).


Tipologia degli edifici rurali

Una suddivisione dei tipi di dimore rurali, è solo esemplificativa: ed è, tenendo conto degli studi di Aldo Pecora, Giorgio Valussi, Mario Giorgianni,  Annalena Lippi Guidi ecc. (6) che qui si dà sommaria descrizione.
Nell'area Iblea, in generale, possiamo dividerle in
a) masseria;
b) villa fattoria;
e) abitazione del coltivatore diretto;
d) casa di villeggiatura.
Escludendo le strutture di più modesta entità (quali ricoveri, magazzini, edifici sacrali extraurbani) che potrebbero formare un altro paio di categorie.
La Masseria è senz'altro la più antica struttura abitativa rurale; corrispondeva alle massae, alle cortes, alle castra medioevali (7), e pur non essendo tanto antiche, conservano di quelle progenitrici, tipologie e modelli.
La costruzione ad esempio in luogo elevato, spesso impervio e brullo: il ché produceva due vantaggi, l'utilizzo della porzione di terreno meno coltivabile e il controllo del feudo o proprietà, oltre alla facilità di difesa da possibili nemici. Che erano, dal secolo XVII al XIX, periodo al quale appartengono molte di queste masserie tutt'ora esistenti, i briganti che liberamente scorazzavano nel territorio e, specie di notte, tentavano qualche sortita (8). Sicché l'ingresso era protetto da una piccola torre o terrazza di avvistamento, con numerose feritoie per respingere, senza essere colpiti l'assalitore, e un piccolo vestibolo dove venivano deposte le armi. Ovviamente questo tipo di struttura è a corte chiusa, con tutte le aperture che si affacciano sul cortile (bàgghiu) interno, e solo strette finestre, o prese d'aria munite di robuste inferriate che danno sull'esterno; in alcune (es. la masseria di Casasia, territorio di Monterosso) le feritoie sono attorno a tutto l'edificio, con raddoppiata funzione di difesa. La costruzione denota, quasi sempre, assenza di schemi progettuali; e si evince, la vicenda costruttiva, dai numerosi aggiustamenti e rimaneggiamenti che producono la sovrapposizione di un corpo o l'aggiunta di un magazzino, o del piano rialzato per il proprietario; o persino di una chiesetta per le funzioni religiose domenicali.
Spesso questo edificio sorge accanto o ingloba una struttura antica preesistente, bizantina o medievale, più comunemente una torre di avvistamento medievale (9) o si accosta a grotte ancora più antiche, primitivi ricoveri o rudimentali palmenti e frantoi, che ingloba come nucleo laterale (10).
In funzione del ciclo produttivo e dell'ubicazione si può distinguere, secondo una acuta classificazione di A. Pecora (11) in:

a) ragusana (comune nell'altopiano ragusano e modicano) con preminenza dell'allevamento bovino e coltura di fieno e granaglie per le bestie; struttura a corte chiusa ed aperta, corpi allineati o giustapposti, pietra da intaglio (ricavata dal calcare affiorante sull'altopiano) per gli stipiti delle porte e finestre, i cantonali, gli archi, il basolato. L'abitazione è circondata da numerosi muri a secco per proteggere ‑ dal passaggio e dalla voracità degli animali ‑ gli alberi da frutto, da ombra, il piccolo orto ecc. E', generalmente, relativamente più recente e più piccola della masseria comune al resto della Sicilia e del territorio íbleo.

b) Siracusana, più comune nella Sicilia sud orientale, e per quanto riguarda l'aria nostra, nel territorio di Comiso, Vittoria, Acate, Chiararnonte, Giarratana, Monterosso, Ispica e Scicli.
Come detto, è più complessa come struttura, con ancora la preminenza del tipo a corte chiusa. Presenta, oltre all'abitazione dei lavoratori, la casa sopraelevata, del padrone e i magazzini e le stalle, gli opifici, quali il frantoio per l'estrazione dell'olio e il palmento per la pigiatura delle uve, Il cortile interno (bàgghiu) è più ampio del tipo ragusano, ha al centro o su un lato corto, il pozzo o la cisterna, sedili e panche in pietra (ticcène) numerosi ganci in pietra o ferro (úccule) per legarvi le bestie da soma; un ampio locale per ospitare il bracciantato avventizio, numeroso nel periodo della raccolta delle uve e delle olive, della semina, mietitura e trebbiatura.
Se la masseria è grande, è sempre presente una cappella, per non interrompere il cielo lavorativo, e permettere le pratiche devozionali, specie il precetto domenicale, al numeroso bracciantato, la maggior parte del quale era spesso costituito da donne.

Ad un periodo successivo, fine settecento e ottocento, appartiene il tipo di villa fattoria collegata a un fondo di media estensione, con corpo centrato e disposizione su due piani, corte aperta, spesso elegante scalone di accesso, pianta quadrangolare con tetto a quattro falde, o a spiovente. Il piano superiore appartiene al padrone e alla sua famiglia; nei bassi, alloggiano il mezzadro, qualche occasionale lavorante, vi sono ubicate le stalle e i magazzini, a volte il palmento o il frantoio.
Espressione di una piccola nobiltà o di una borghesia agiata questo edificio rurale ha connotati estetici più ricercati; eleganza delle aperture, prospetto animato da leggere paraste, e qualche volta anche da colonne (12). L'interno ha saloni ampi e spesso decorati con pitture. In comune con la casa di villeggiatura (la cui funzione, dal XIX secolo, a volte, svolge nel periodo estivo) ha l’inclinazione all'eclettismo architettonico.

L'abitazione del coltivatore diretto è in piccolo la villa fattoria: abitazione di un solo agricoltore, agiato, padrone di un fondo di due/cinque ettari a seguito della quotizzazione dei demani feudali. Spesso ad un solo piano, ha semplicità di pianta e di materiali; non manca il magazzino per gli attrezzi, la carretteria (dalla seconda metà ottocento quando la costruzione delle strade permette l'utilizzo del carro agricolo) la  pagghialora, cisterna o pozzo sul davanti.

La casa di villeggiatura
Anche se inserite nel tessuto rurale, non sono finalizzate alla conduzione dell'azienda agricola o allo sfruttamento della campagna; sono altresì l'espressione di una nuova classe sociale, di nuove esigenze e l'esternazione di uno status raggiunto. La vacanza, vale a dire la pausa dal lavoro, è un concetto nuovo, estraneo alla pigra nobiltà sette ottocentesca, inattiva tutto l'anno, chiusa nei reiterati riti di gruppo.

La borghesia e i ricchi commercianti, spesso assurti attraverso matrimoni di comodo allo stato aristocratico, sono i principali committenti di queste eleganti strutture. La funzione esclusivamente di villeggiatura (è questo il termine in voga sul finire ottocento‑primi del novecento) rende superflui tutti i corpi edilizi destinati alla conduzione dell'azienda agricola o allevatrice: resta solo la struttura centrale, quella del padrone di casa, che si ingentilisce e si arricchisce di comodità od “otii” come si diceva allora.
La mano dell'architetto o del capo mastro è ora evidente, i fregi sono più numerosi e più ricercati, l'eclettismo è il credo dei progettisti.

Una variante minore di questo tipo di villa, è la "casina di villeggiatura" piccola struttura, spesso ad un solo piano, che ha la massima diffusione nei primi venti anni del 900. Sobria nell'impostazione è comunemente di ispirazione liberty; e si sviluppa poco distante dall'abitato, nella zona intermedia tra la campagna e la città.

Appartengono al periodo storico più vicino a noi, metà ottocento inizio del novecento e oltre, le ville sub urbane, destinate esclusivamente alla villeggiatura (13). Sono per molti versi gli esiti stilistici e costruttivi più interessanti: dove il committente esige dall'artigiano un prodotto che esprima lo status sociale raggiunto o l'appartenenza ad una classe già privilegiata, come era avvenuto per le dimore delle Città (14).


Cinque esemplificazioni

1 – MASSERIA TORRE VECCHIA, contrada Dirillo, Acate (1668)

Appartenente in origine ai principi Mirti, oggi è proprietà di una azienda vinicola. Masseria di tipo a recinto con due cortili attorno ai quali si dispongono le varie parti: abitazione del soprastante, del fattore, ambiente di servizio, cappella, casa del proprietario e (nell'altro cortile più piccolo) magazzini e abitazioni dei lavoranti. La struttura è oltre che imponente molto vasta; e il restauro e riadattamento funzionale recente, ha conservato l'aspetto originario.
L'epoca di edificazione si può far risalire alla fine dei secolo XVII, ne è testimonianza una iscrizione sull'architrave della cappella datata 1668. Evidentemente molti dei corpi minori aggiunti man mano sono di epoca successiva. Tra questi il trappeto e il palmento per la pigiatura delle uve o l'elegante basolato dei cortile interno con pozzo‑cisterna al centro.
L'abitazione del proprietario denota con la sua imponenza e l'eleganza delle soluzioni costruttive (la scala laterale di accesso al piano alto, le aperture sui prospetti) l'alto rango di appartenenza.


1 bis ‑ MASSERIA TORRE NUOVA, contrada Dirillo, Acate (secolo XVIII).

Alla fine settecento inizio ottocento appartiene questa altra masseria proprietà in origine dei conti Lanza. Gli edifici si sviluppano attorno ad un ampio atrio, tutti, ad esclusione della casa del fattore e del padrone, ad unico piano. 1 più recenti, datati 1934/1936, sono il trappeto e il palmento; ma fanno presumere che sostituiscano opifici più antichi sicuramente esistenti, data la prevalenza, nella zona, della coltura dell'olivo e della vite. E' l'evoluzione, sette ottocentesca, della masseria precedente.


VILLA FATTORIA VENTURA, contrada Pretepaolo, Chiaramonte Gulfi (1613/1780).

La villa Ventura, oggi Arezzo, in contrada Pretepaolo (territorio di Chiaramonte Gulfi) ha un iter costruttivo, documentato, dal 1613 al 1950. Tre corpi sovrapposti abbastanza ben integrati, rapporto con la campagna adiacente, economico e produttivo, continuato ed equilibrato: un esempio di azienda rurale funzionale funzionante dal suo nascere a tutt'oggi,

Sorge nella fertile vallata sottostante la città di Chiaramonte Gulfi, su una leggera altura. Risale per la parte più antica, come si diceva, ai primi anni del 1600 (la data 1613 era scolpita sul finale di un cantonale) (15); questa porzione di edificio è quella che occupa il lato nord est e nord ovest e che conserva la tipologia semplice e massiccia originaria sia nella facciata esterna che nelle scansioni interne. 1 balconi con ballatoi circolari e semplici mensole, le cornici aggettanti in pietra tenera intagliata; le aperture dei bassi in corrispondenza simmetrica di eguale semplicità, appena elusa nelle porte principali.

Più vistosamente pretenziosa la ristrutturazione, a partire dal 1780 (16), che sovrappose al lato sud ovest e sud est un prospetto neogotico, spostò l'accesso principale a sud proteggendolo con una corte chiusa. Nell'interno si ha la coesistenza dei due tempi dell'edificazione per cui si passa da un settore all'altro con piani sfalsati o addirittura con ribassamenti.
L'elegante nuovo prospetto è animato dalle aperture a sesto acuto nel piano terra, e dalle eleganti bifore nelle finestre del piano alto, tutte con abbondanza di fregi e di pietra intagliata; e ovviamente la vistosa parata di merli. Dello stesso periodo (1784) è la chiesetta che prospetta sulla corte aperta, sulla cui chiave di volte oltre alla citata data, troviamo lo stemma della famiglia Ventura, proprietaria fino alla fine ottocento della Villa e fondo. Questa chiesetta fu funzionante fino agli anni '60, e la messa domenicale raccoglieva oltre ai lavoranti del fondo, i vicini abitanti delle contrade Gerardo, Morana e Piano Zacchi. Altro pubblico raccoglievano, tra metà ottocento e fine secolo, i saloni della villa: punto di incontro della nobiltà agraria e della borghesia che nel proprietario il barone Filippo Nicastro Ventura, deputato del regno per più legislature, e longa manus del sindaco, aveva il proprio referente politico (17). Si diceva che in quelle stanze si prendessero le decisioni municipali e scelte politiche ed economiche generali sollecitate da istanze dei suoi clienti.

E ad una nobiltà e borghesia colta e protesa alla "bella vita" era finalizzata la villa nella sua ultima trasformazione ottocentesca: con il completamento dei corpi neogotici, le basole nei due cortili, il giardino ampio e ricco di ornamenti e piante esotiche (oggi sopraffatto dalla vegetazione; ma tracce del quale, specie nelle vicinanze della villa, testimoniano l'originalità e lo splendore passato, non ultimo alcune vestigia di pitturazione in stile pompeiano).

Agli inizi del novecento proprietà e villa passano alla famiglia Morso, un figlio dei quali l'estroso Franz Morso, tenterà la scalata politica come deputato. Che probabilmente è alla base delle difficoltà economiche che in seguito travaglieranno la famiglia fino alla cessione dell'azienda. Viene acquistata da una ricca famiglia ragusana, gli Arezzo, che tutt'ora la gestiscono. Un ultimo intervento sulla struttura edilizia avviene nel 1950: a seguito di lesioni sul lato nord est (il più antico) determinate dai sondaggi petroliferi nelle vicinanze a cura della Gulf Oil Co. La responsabile dell'incidente si occupa del consolidamento della parte lesionata e, a parziale indennizzo, sul lato nord edifica una terrazza in consonanza con l'edificio. Un altro corpo edilizio, destinato a stalle, di recente costruzione testimonia la continuità funzionale dell'azienda, fino agli anni scorsi.


3 ~ VILLA GRAZIA, contrada Michelica, Modica (18 10)

La villa Grazia sorge nelle vicinanze di Modica, a cinque Km sulla SS 115 per Ispica. E' un elegante edificio nobiliare dì villeggiatura, con ampio ed elegante giardino, stanze per ospiti e per la servitù; magazzini e stalle.

Risale per il primo nucleo, che era una casa colonica, alla fine del XVIII secolo ed era proprietà dei baroni Tornasi Rosso. Questo nucleo fu ingrandito e trasformato in villa intorno al 1810 dal Barone Francesco Ignazio Tomasi Rosso. Divenne poi, tra metà e fine dello stesso secolo, proprietà del figlio Saverio e della di lui moglie Grazia Tedeschi Impellizzeri, dalla quale prese nome.

Agli inizi del novecento la villa fu ereditata dai nipote di costei, Corradino Tedeschi, che aggiunse il monumentale ingresso, riformò in stile liberty il prospetto, fece affrescare nello stesso stile gli interni e impiantò, su progettazione e direzione di un architetto francese, il giardino. Sicché in quegli anni la villa "conobbe il periodo più vivace, essendo uno dei salotti più frequentati di Modica; fu soprannominata la Regina, poiché era la più bella che si potesse trovare in tutta l'area" (18). La villa, come appare oggi, ha un accesso monumentale e si presenta incompleta del lato destro (19), circondata da alte mura che quasi la mimetizzano nel pianeggiante fondo sul quale è ubicata. Il giardino ricco di piante ed elegantemente strutturato è animato da arredi quali colonne, vasi da fiori, scalinate e da un tempietto neo classico.

La divisione interna è razionale: la parte riservata ai padroni di casa si affaccia sul lato esterno, quella della servitù sul cortile interno. Ampi saloni, decorati con pitture, e salottini vari si succedono numerosi nelle due ali destinate ai padroni ai loro ospiti: testimonianze dì una vita sociale agiata e raffinata.


4 ‑ VILLA RIZZA, contrada Fegotto, Chiaramonte Gulfi (1870)

Villa Rizza è l'esempio di azienda agricola sorta, dopo l'unità d'Italia sull'onda del nuovo interesse per l'agricoltura e per il razionale sfruttamento delle sue risorse.

La fattoria edificata intorno al 1830 ad opera di Vito Rizza fu, nel 1870, a cura dei figlio Evangelista, ristrutturata in azienda rurale (20).

Una mappa dell'azienda (1878) ci da il dettaglio della disposizione dei locali e l'ampiezza del complesso (che poi è lo stesso di oggi). Attorno alla grande corte centrale si dispongono i magazzini di granaglie, carretteria, chiesa, abitazioni dei lavoranti, stalle e pagliere, cantina, caldaia e fornace, palmento, bottiglieria, cisterna ed abbeveratoio, trappeto con macina, forno e cucina (per i lavoranti), abitazione della massaia, scuderie, attrezzi da stalla e da basto, latrine, pollaio, porcile" appartamenti padronali (piani superiori) e giardino annesso.
I due accessi, “Est da Chiaramonte”" e “Ovest da Vittoria”, che si collegano con le due principali strade che attraversano il latifondo, appunto quella che porta nella soprastante città di Chiaramonte e l'altra sul fronte opposto che si snoda nella vallata verso le zone marine, si riuniscono al centro del complesso edilizio nella grande corte lastricata con piccole basole di calcare duro.
Attorno a questa "piazza" si svolge la piccola città agricola, con la sua chiesa, le sue monumentali cantine, i vari opifici, le cucine e le stanze per i lavoranti stagionali e per i soprastanti e mezzadri. E persino la scuola (21). Sul lato meglio esposto (di fronte ai due accessi e rivolto a sud) troviamo la dimora dei padrone,  i cui bassi erano destinati alla produzione.
Una scala a forbice conduce al piano superiore il cui portico è abbellito da quattro colonne; la facciata si slancia ancora con un terzo piano che continua il sapiente gioco di pieni e vuoti con lesene che formano archi ciechi.
Il tutto coronato da un piccolo campanile (22).
L’interno è decorato con pitture; i pavimenti sono in ceramica di Caltagirone e mattoni di pietra pece. Le stanze, come avviene comunemente negli edifici di questo periodo, sono disposte in successione.
I resti del giardino rivelano la sua ampiezza e l'originale alternanza di piante decorative e piante da frutto, con spazi dedicati all'orto domestico.
Proprietario della villa, nel suo massimo splendore, fu quel Don Evangelista Rizza, ricco proprietario terriero di origini borghesi, divenuto poi potente deputato ibleo sul finire dell'ottocento. Potentissimo e temuto dagli avversari, seppe coniugare gestione del potere e illuminata imprenditoria (23).


VILLA MOLTISANTI, contrada Palazzello, Ragusa (secolo XIX)

Appartiene alle ville suburbane che sorsero numerose, appena fuori dalla città sul finire dell'ottocento e, specialmente, tra inizio e primo ventennio del nostro secolo; e che oggi inglobate nella espansione della nuova Ragusa, in poche sono sopravissute. Fu edificata sul finire del secolo scorso da maestranze locali su progetto dell'ing. Giovanni Migliorisi "il maggiore rappresentante in loco della Scuola Accademica di Architettura" (24) autore, tra l'altro, a Ibla del Palazzo Arezzo e a Ragusa Superiore del Palazzo Garofalo, del Palazzo Di Natale e del convento di via Mariannina Schininà. Degli edifici citati, specie del Palazzo Di  Natale, la Villa Moltisanti ripete gli elementi stilistici.
L’influsso della nuova architettura, che nell'isola ebbe l'elemento più rappresentativo nell'architetto palermitano G.B. Basile, "qui si sente maggiormente, pur nel frasario classicheggiante" (25).
La facciata più interessante è quella rivolta ad est, movimentata da due terrazze aggettanti. Le decorazioni delle aperture, in pietra tenera locale, sono sobrie ed eleganti nello stesso tempo (e qui è più evidente la lezione del Basile, le cui tematiche sarebbero divenute leggibili nel palazzo Bruno della vicina Ispica).
Oggi della villa restano le sole strutture e i prospetti esterni; la sua robusta fibra evitò la demolizione nel 1943, quando i militari tedeschi che l'avevano usata come sede del loro comando, in ritirata, la minarono con l'intento di distruggerla. Scampata alla guerra sembrava che negli anni '90 dovesse soccombere alle ruspe: le proteste di cittadini e ambientalisti e il vivace dibattito che ha animato intellettuali e responsabili della cosa pubblica, pare aver scongiurato il pericolo.




Sembra chiuso, per molte di queste antiche dimore, il ciclo della vita: giacciono, incuneate tra una estemporanea e turbolenta edilizia moderna, tra esasperate recinzioni e monumentali muraglie di cemento dentro un irrazionale sfruttamento del territorio, non più in armonia col paesaggio circostante. Quel paesaggio umano del quale erano parti integranti, assieme all'uomo che tali spazi abitò e colonizzò.
Spezzate anche le ragnatele di mura a secco e gli altri segni, più o meno grandi, della presenza e del lavoro dell'uomo nel corso dei secoli, prende il sopravvento una deteriore urbanizzazione della campagna ‑ più evidente nelle zone marine e nelle vicinanze di arterie di comunicazione o di contrade munite di servizi ‑ che replica, esasperando le forme più deteriori, le problematiche delle città del nostro tempo.
Ma è proprio cessata, allora, ogni loro funzione; non è più possibile ricondurle al legame con l'uomo e col territorio, che fu ragione del loro nascere ed esistere? Certamente no. E lo dimostrano il recupero di alcune di esse, in funzione agrituristica, di razionalizzazione dell'agricoltura, di riconversione in strutture sociali o culturali, commerciali (26).
L'Ente Provinciale Turismo (oggi A. A. P. I. T.) di Ragusa sul finire degli anni settanta acquistò una masseria in contrada Castiglione, dando il primo intelligente impulso non solo alla tutela, ma indicando una strada di utilizzazione e riconversione di queste strutture legate al mondo del lavoro agricolo (27)

Negli ultimi anni alcune delle più funzionali sono state ristrutturate in fattorie agrituristiche o in ristoranti, altre sono tornate ad essere abitazioni estive per la villeggiatura, magari senza i fasti che accompagnarono il loro periodo iniziale di vita; qualcuna ha conservato il ruolo di status simbol e cerca, oggi, un acquirente che voglia, a suon di milioni, quel ruolo esplicitare (28).
[1996] Tratto da:
 G. Cultrera, Edilizia rurale negli iblei. Le ville,  in AA. VV. La provincia iblea dall’unità al secondo dopoguerra, Ragusa, 1996.

Le note si possono consultare sul volume  sopra citato.



sabato 14 marzo 2015

Visita a Villa Fegotto

VILLA  FEGOTTO, contrada Fegotto, Chiaramonte Gulfi (RG)

 

 E’ l'esempio di azienda agricola sorta, dopo l'unità d'Italia, sull'onda del nuovo interesse per l'agricoltura e per il razionale sfruttamento delle sue risorse. La fattoria edificata intorno al 1830 ad opera di Vito Rizza fu, nel 1870, a cura dei figlio Evangelista, ristrutturata in azienda rurale.

In una mappa dell'azienda del 1878 troviamo il dettaglio della disposizione dei locali e l'ampiezza del complesso (che poi è lo stesso di oggi). Attorno alla grande corte centrale si dispongono i magazzini di granaglie,carretteria, chiesa, abitazioni dei lavoranti, stalle e pagliere, cantina, caldaia e fornace, palmento, bottiglieria, cisterna ed abbeveratoio, trappetocon macina, forno e cucina (per i lavoranti), abitazione della massaia, scuderie, attrezzi da stalla e da basto, latrine, pollaio, porcile, appartamenti padronali (piani superiori) e giardino annesso.

I due accessi, Est -  da Chiaramonte  e Ovest - da Vittoria, la collegano alle due principali strade che attraversano il latifondo, appunto quella che porta nella soprastante città di Chiaramonte e l'altra sul fronte opposto che si snoda nella vallata verso le zone marine e si riuniscono al centro del complesso edilizio nella grande corte lastricata con piccole basole di calcare duro.

Attorno a questa "piazza" si svolge la piccola città agricola, con la sua chiesa, le sue monumentali cantine, i vari opifici, le cucine e le stanze per i lavoranti stagionali e per i soprastanti e mezzadri. E persino la scuola. Sul lato meglio esposto (di fronte ai due accessi e rivolto a sud) troviamo la dimora dei padrone,  i cui bassi erano destinati alla produzione. Una scala a forbice conduce al piano superiore il cui portico è abbellito da quattro colonne; la facciata si slancia ancora con un terzo piano che continua il sapiente gioco di pieni e vuoti con lesene che formano archi ciechi. Il tutto coronato da un piccolo campanile.

L’interno è decorato con pitture; i pavimenti sono in ceramica di Caltagirone e mattoni di pietra pece. Le stanze, come avviene comunemente negli edifici di questo periodo, sono disposte in successione.

I resti del giardino rivelano la sua ampiezza e l'originale alternanza di piante decorative e piante da frutto, con spazi dedicati all'orto domestico.

Proprietario della villa, nel suo massimo splendore, fu quel Don Evangelista Rizza, ricco proprietario terriero di origini borghesi, divenuto poi deputato ibleo sul finire dell'ottocento. Potentissimo e temuto dagli avversari, seppe coniugare gestione del potere e illuminata imprenditoria. Nelle terre attorno alla villa tra fine ottocento e primi del novecento fu realizzata un’agricoltura moderna, con produzione vinicola e olearea di buon livello, esportata in Italia ed Europa.

La villa è stata acquistata negli anni ’90 dall’avv. D’Avola, che ne ha curato il restauro con accurata aderenza all’originaria struttura. Elegante set per numerosi film (tra i più importanti: Marianna Ucria e I vicerè, entrambi di Roberto Faenza e un episodio dell’ormai famoso commissario Montalbano) per eventi o serate musicali di alto livello in estate, non è aperta al pubblico.




Testo estratto da: 
Giuseppe Cultrera, Edilizia rurale negli Iblei.Le ville
in "La Provincia iblea dall'unità al secondo dopoguerra", Ragusa, 1996.

lunedì 1 dicembre 2014

Notizie storiche sulla chiesa di S. Giuseppe di Chiaramonte Gulfi


Una testimonianza della prima chiesa, in parte poi crollata col sisma del 1693, è il portale laterale, ancora ben conservato, ascrivibile a Simone Mellini (sec. VXII).


L’aspetto attuale

La Chiesa di S. Giuseppe di Chiaramonte Gulfi sorge nel centro storico, a poca distanza  dalla piazza Duomo.
Il prospetto, volto a sud, si eleva su una breve gradinata.
L’interno, ad unica navata, è scandito da lesene, lievemente sporgenti, che evidenziano la sequenza delle cappelle laterali interrotte, al centro di ogni lato, da due eleganti aperture. Il decoro e gli stucchi divengono esuberanti nell’abside semicircolare dove le colonne corinzie percorrono maestose il perimetro in un gioco di pieni e vuoti – accentuato dalle quattro nicchie contenenti le statue di S. Anna, S. Elisabetta, S. Gioacchino e S. Zaccaria – che esaltano la cappella centrale (contenente nel passato, pala e statua del titolare) al cui culmine (catino absidale) erompe il gruppo scultoreo, in stucco, della Assunzione di Maria.
La facciata, sebbene modestamente semplice, acquista maestosità per la posizione angusta che la fa emergere sugli edifici circostanti, ed eleganza per lo snello portale sovrastato dal finestrone centrale (oggi murato) che accentua lo slancio verso l’alto, alleggerendone la mole.
L’originario aspetto del prospetto è, oggi, distorto per la mancanza di elementi scomparsi o modificati nel corso degli ultimi 150 anni; principalmente due: il campanile laterale e il Collegio delle vergini, edificati intorno al 1755.
Il collegio, fatiscente, fu demolito intorno al 1980 e al suo posto costruito un moderno edificio pubblico, destinato a servizi sociali ed uffici AUSL. Il campanile, che nell’unica documentazione iconografica giunta a noi è rappresentato più alto del prospetto, dovette essere demolito intorno al 1850, e sostituito con quello attuale, la cui tipologia è rintracciabile in diversi interventi coevi.
Dal XVII secolo vi si riunivano il consiglio civico per le deliberazioni e le  corporazioni e maestranze per l’elezione dei «consoli» da parte dell’assemblea generale.

La fondazione

Intorno al 1623 fu edificata, nell’attuale sito, una piccola chiesa dedicata al patriarca S. Giuseppe1, che fu portata a termine in breve tempo2.
Tra le maestranze che la edificarono fu determinante l’apporto di uno scultore chiaramontano, che i memorialisti locali identificano col nome di Simone Mellini, un tardo gaginiano, al quale venivano attribuite la monumentale struttura dell’abside e le sculture della cappella centrale3.
Una testimonianza di questa prima chiesa, in parte poi crollata col sisma del 1693, è il portale laterale, ancora ben conservato, ascrivibile al citato Mellini.
 Simone Mellini operante a Chiaramonte dagli inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal Melfi che purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae notizia, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche tardo rinascimentali, alcune giunte sino a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della piazza, ed una cappella interna non più esistente; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù.
Come fosse questo primitivo edificio sacro possiamo desumerlo dai resti e dalle testimonianze storiche: ad unica navata, abside coincidente con l’attuale, più corto di circa un terzo.
L’ultimo dato e facilmente riscontrabile, nell’ubicazione dell’antica porta, oggi murata all’esterno e riutilizzata all’interno come nicchia.  Sulla valenza di questa apertura, quale porta principale (il Nicosia, storico locale accorto e ben documentato, dà questa indicazione), o laterale e quindi secondaria, come appare più logico, non si hanno riscontri. Non conoscendosi la sistemazione topografica ed urbanistica del quartiere (denominato allora, S. Francesco).




La ricostruzione

La chiesa fu ristrutturata ed ingrandita, a seguito del citato sisma, nei primi anni del XVIII secolo.
Nella seconda metà del secolo la chiesa viene decorata con stucchi ed adornata di pitture e sculture. Ad un Gianforma, verosimilmente Giovanni, sono attribuiti gli stucchi (notevole il gruppo dell’Assunzione di Maria, nel catino absidale).
Tra il 1737 (statua lignea del titolare) ed il 1775 (S. Ignazio di Loyola, dipinto del netino Costantino Carasi) si completa l’arredo d’altari e cappelle4.


La «nuova chiesa»

Dal 1751 al 1860 la storia degli interventi è documentata nei “registri di introito ed esito” della chiesa5. Ed è interessante perché evidenzia una serie di problemi di staticità dell’edificio riconducibili, non soltanto a deficienze costruttive ma ancor più ad una instabilità del suolo rilevata anche da un  recente studio geologico per i restauri in corso.
Una costante dell’architettura religiosa iblea è il lento protrarsi, per quasi tutto il secolo successivo al sisma, dei lavori di ricostruzione o ristrutturazione degli edifici sacri. Nel caso della chiesa di S. Giuseppe a quest’aspetto usuale si aggiunge un continuo consolidamento dell’edificio, determinato dalle cause endemiche e strutturali, cui si è accennato sopra.
L’abside con la cappella maggiore è quella che richiederà maggiori interventi, assieme alla volta ed al lato occidentale.
Il Melfi ritiene che la monumentale struttura dell’altare del titolare, opera del mastro scalpellino Simone Mellini, risalente alla fase iniziale della costruzione della chiesa (sec. XVII) sia sopravvissuta al terremoto. E in parte c’era del vero nella testimonianza che mutuava da documentazione e memoria popolare. Soltanto che non è giunta fino a noi. Quella attuale, che riecheggia moduli e stilemi del maestro tardo gaginiano, è frutto di intervento ricostruttivo della metà settecento. Ne abbiamo documentazione in un mandato di pagamento (1 novembre 1752), di 5 onze, a mastro Giuseppe Sciacco «per compra di pietre per il nuovo cappellone».
Il capomastro Giuseppe Sciacco apparteneva ad una famiglia di murifabbri, operanti a Chiaramonte dalla ricostruzione post terremoto e fino alla metà del secolo da poco trascorso. Nel decennio precedente, difatti, aveva lavorato all’edificazione del campanile della Chiesa di S. Maria La Vetere (meglio nota, oggi, come Santuario di Gulfi)6.
Pur mancando le indicazioni delle maestranze per tutto il decennio successivo si ha documentazione di lavori vari: «restaurare il tetto della chiesa», «fare il pavimento del nuovo Cappellone». Anzi Dal 1766 si parla esplicitamente di «fabrica della nuova chiesa». Le somme erogate, sono considerevoli, specie se si tiene conto che una parte delle spese - le offerte spontanee di notabili o devoti - non venivano rendicontate.
Nei lavori appare un altro capomastro, il ragusano Giorgio Pulichino, per il quale il 5 maggio 1769  il notaio Matteo Ventura Sanctis rilascia àpoca (quietanza di pagamento) per onze 12 «a buon conto delli pezzi fatti e trasportati pella nuova fabbrica».
Interessante un mandato di pagamento del 1774 nel quale come caparra vengono liquidate 4 onze a M. Carmelo Spagna e non meglio precisato «compagno di Siracusa» per arredi tra cui «cornici delli quadri»; cornici che dovettero servire, con probante sicurezza, per i 4 quadri delle cappelle laterali (S. Ignazio di Loyola, S. Eligio, S. Francesco di Paola, Madonna delle Grazie) per i quali i due storici locali Nicosia e Melfi ipotizzavano le date di esecuzione (da documenti certamente in loro possesso ma a noi sconosciuti) attorno al 1775.


Interventi di consolidamento e restauro nel secolo XIX

Col nuovo secolo iniziano una serie ininterrotta d’interventi, a volte ripetuti, che interessano spesso la staticità dell’edificio piuttosto che l’ornamento.
Nel 1835 viene ricostruita la volta. Dalle note di pagamento non si evince se a causa di un cedimento o per rinnovare la parte terminale dell’edificio.
Vi intervengano diverse maestranze: falegnami, carpentieri, muratori e “mastri di maramma”. I lavori hanno inizio nella primavera del 1835 quando viene approntato il «legname necessario nella costruzione della volta, giusto l’estimo di M. Michele Ballato e M. Carmelo Ragusa». Quest’ultimo è un mastro falegname di fiducia della chiesa, che troviamo associato, in questa fase, ai mastri “marammieri” Salvatore e Santo Fornaro, rispettivamente padre e figlio. Il completamento avviene l’anno successivo. L’annotazione di pagamento datata 29 settembre 1836 si riferisce, infatti, a lavori conclusivi quali «listone e volta, i canali e tetto, le brodate nella volta», le tegole (provenienti «dalla campagna di S. Margherita», zona ricca di creta e dove erano operanti diverse fornaci per la fabbricazione dei coppi).
Della pavimentazione con «balate di pietra forte» e «contorno di pietra nera», oggi non c’è più traccia.
E’ a seguito dei lavori precedenti, che il pavimento della chiesa necessita di restauro: si desume da una nota del 22 marzo 1837 per «compra di calce necessaria per acconciare il pavimento della Chiesa» e «per un giorno di M. Pietro D’Angelo ed un manovale per acconciare detto pavimento».
Sono lo stesso D’Angelo «marammiere» e mastro Raimondo Calabrese, appartenente ad altra famiglia di capomastri operante a Chiaramonte dal post terremoto al secolo scorso, che dall’ottobre 1838 all’agosto 1841 sistemano la pavimentazione «intagliando e sittando le balate». Con un lasso di tempo lungo che evidenzia un lavoro “in economia”.

A distanza di dieci anni la struttura della chiesa, specie la parte apicale, torna a manifestare segni di cedimento.
Necessitano di consolidamento: la volta, «l’arco del Cappellone che minacciava rovina», le pareti, specie quella occidentale, il prospetto.
Per evitare un collasso della struttura viene «sfabbricata la fabrica che poggiava sopra l’Arco Maggiore» poi si passa a «scaricare l’arco e fare il tetto mettere il trabe ed i forbici per levare il peso sopra l’arco» «chiudere le fessure, acconciare la loggetta» «chiudere e murare le fessure nella facciata di fuori e dentro il Cappellone».
I lavori furono eseguiti nel 1845.
I robusti contrafforti con ampie arcate, appoggiati alla parete occidentale, appartengono con molta probabilità a quest’intervento di consolidamento.
Il problema resta insoluto. Nei primi del settembre 1850 necessitava «la formazione di quattro catene di ferro perché la chiesa minacciava rovina».
L’intervento è affidato ai mastri Salvatore e Santo Fornaro, che già nel 1835 avevano consolidato la volta. Si tratta di «situare le catene» e sistemare la copertura consolidandola col gesso.

Nel 1856 in consonanza con quanto avveniva in altre chiese del comune, viene ripitturato e restaurato l’interno.
Artefice e primo finanziatore fu il rettore della chiesa Don Emanuele Nobile, che ne ha lasciato testimonianza autografa nella premessa all’esito dal 1 giugno 1856 sino ad agosto 1857:
«Si avverte che in quest’anno fu intonacata e pittata la chiesa e fatto tutto quanto che fu bisognevole; per la sola pittura furono impiegati onze 40, oltre a tutt’altro, e che la spesa ammontò a circa onze 100 …»
Fu l’intervento più notevole, dopo quello del 1750-70, sia come consolidamento che come abbellimento e restauro. Furono aggiunte pitture, tra le quali, anche se non citate espressamente i 5 affreschi in eleganti tondi, opera di Gaetano Distefano (1809-1896); fu rinnovato l’altare maggiore, la parte in pietra (con “balate petrapece”) opera di mastro Carmelo Pulichino, la struttura in legno dello scultore Rosario Distefano (1789-1874); furono realizzati arredi, le sedie presbiteriali opera di Salvatore Puccio (1812-1904), il confessionale -pergamo opera di Rosario Distefano .
Fu pitturato e decorato l’interno, compresa la volta (tenue azzurro e giallo ocra), indorati gli altari.
Purtroppo fu anche l’ultimo intervento in consonanza ed equilibrio stilistico.
Pochi anni dopo, nel 1860, con la “costruzione dell’organo” si ha la prima rozza sovrastruttura. Si continuerà col saccheggio di decori e fregi, per allestire l’annuale “apparato festivo” (l’uso indiscriminato di chiodi, tavole, e addobbi è testimoniato nel registro degli esiti alla voce “Festa del Patriarca”). E con le pulizie ed imbiancature delle pareti, che hanno cancellato la patina pittorica ottocentesca (oggi scomparsa del tutto).

Nel secolo da poco scorso, si è acuito il degrado: alla decadenza delle strutture si è aggiunta l’incuria per le opere pittoriche (tutti i dipinti necessitano di un radicale restauro), per le sculture (le quattro statue dell’abside furono ricoperte da un melenso strato di pittura), per gli arredi (l’altare e il confessionale-pergamo del Distefano, smembrati e fatiscenti).
L’intervento di consolidamento e restauro, in corso, giunge opportuno; restituirà un piccolo gioiello tardo barocco, alla fruizione del pubblico.
  

_________

Note esplicative

1) «Da un atto del notaro Sebastiano Occhipinti si rileva che nel 1623 fu edificata la chiesa di S. Giuseppe. Essa era però allora più piccola, e vi si entrava per la porta or chiusa, che sporge in via S. Francesco.» S. Nicosia, Notizie storiche su Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1882; pag. 204

2) «Crescendo sempre la pietà dei fedeli, non ostante nel comune fosse stato alzato da poco un convento, sullo scorcio del 1623, il vicerettore Matteo Acciarito, fece gettare le fondamenta di una chiesetta in onore di S. Giuseppe. Il popolo però onde essere preservato dalla peste, portata nel seguente anno 1624 da una galera proveniente dall’Africa carica di schiavi ricomprati dalla carità siciliana, fece sì che fosse presto portata a termine.» C. Melfi, Cenni storici sulla città di Chiaramonte Gulfi, Ragusa, 1912; pag. 98.

3) «Di fatto nel 1623 ebbe principio l’erezione della piccola chiesa di S. Giuseppe, la cui decorazione fu commessa al Mellini. Però questa chiesa nel susseguente secolo fu prolungata e decorata di stucchi e dei lavori del Mellini rimase non innovato l’abside attorno al quale sono otto colonne corinzie con ricche decorazioni nei zoccoli, nel tergo dei fusti e nei capitelli, sui quali posa una elegantissima architravata con finissimi bassorilievi sottoposta ad una cornice con un addentellato seguito da leggiadri intagli.» C. Melfi, Le opere del Mancino e del Berrettaro in Chiaramonte, Noto, 1929; pag. 21.
La figura dell’architetto Simone Mellini e la collocazione temporale della fondazione della chiesa di S. Giuseppe fu desunta dagli storici Nicosia e Melfi (specie quest’ultimo che consultò archivi ed ebbe documentazione di prima mano) da un atto del 1623 rogato dal notaio Occhipinti ; purtroppo oggi non più riscontrabile in quanto il volume relativo all’anno 1623, custodito presso l’Archivio di Stato, sezione di Modica, è deteriorato e non consultabile.  SASM, Notaio Sebastiano Occhipinti (1611-1628), vol. 8.
Simone Mellini operante dagli inizi del ‘600 è ritenuto dagli scrittori locali, specie dal Melfi che purtroppo non dichiara le fonti storiche o documentarie da cui trae notizia, l’artefice di gran parte delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, alcune giunte sino a noi. Per citarne alcune, in ordine cronologico, le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso con le riforme settecentesche e successive della piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza; la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù.

4) Tra i dipinti e le sculture posseduti dalla chiesa di S. Giuseppe, oggi sono ancora esistenti:
S. Giuseppe, una grande tela (320 x 230) un tempo sull’altare Maggiore; olio di autore ignoto, di mediocre pregio, del secolo XVIII. E’ stato restaurato negli ultimi decenni.
S. Ignazio di Loyola, attr. a Costantino Carasi (Noto 1717 – 1779), tela di cm. 300 x 200. Primo altare parete destra. L’attribuzione al Carasi è ipotizzabile sia per la testimonianza del Melfi (Le opere del Mancini e del Berrettaro, Noto, 1929; pag.38) «Nel 1775 i Giurati chiamarono il notinese Costantino Garrasi (sic) al quale, a loro spese fecero eseguire la tela di S. Ignazio di Loyola per la chiesa di S. Giuseppe», sia per confronto stilistico con le sue opere ampiamente presenti nell’area siracusana e ragusana. Numerosi studi ( Citti Siracusano, La pittura del Settecento in Sicilia, Roma, 1986; G: Barbera (a cura), Opere d’arte restaurate nella provincia di Siracusa e Ragusa, II, Siracusa, 1989 (scheda 20); F. Balsamo, Costantino Carasi, protagonista della pittura netina del Settecento,in QdM, Siracusa 1998) hanno definito artista ed opere.
S. Francesco di Paola, attr. a Giovannino Ventura, pittore chiaramontano vissuto nel XVIII secolo operante dalla seconda metà del Settecento. Figlio del più noto Simone è modesto pittore orbitante nell’area degli epigoni del D’Anna e Sozzi. Tela di cm 230 x320, oggi in cattivo stato di conservazione.
S. Eligio, olio d’autore ignoto. Datato «1776», in un cartiglio in basso a destra. E’ posto nel primo altare della parete sinistra.
Madonna delle Grazie, attr. dai locali a Vito D’Anna, ma certamente opera di un epigono. Misura cm 300x 200; è posto nel secondo altare della parete sinistra. 
S. Giuseppe, statua lignea, colorata. Datata 1737. La tradizione popolare la attribuisce a non precisato artista palermitano. Potrebbe appartenere alla bottega del Bagnasco. Le eleganti aureole del Patriarca e del Bambin Gesù, in argento sbalzato, sono opera di Salvatore Puccio (rispettivamente, firmate e datate: S. Puccio 1867,  1873).
Assunzione di Maria, gruppo scultoreo (stucchi bianchi e colorati) che sormonta la cappella di S. Giuseppe in alto al centro del catino absidale. Vengono attribuiti dai memorialisti locali a Giovanni Gianforma. E’ attestata nella seconda metà del secolo XVII la presenza dell’artista nell’area iblea. Più che probante la sua paternità.
Affreschi (5 tondi sulle pareti con episodi della vita di S. Giuseppe, Arcangelo Gabrile e S. Michele Arcangelo).
Via Crucis (olio su lastre di zinco) opera del Sac. Gaetano Distefano.
S. Anna, S. Gioacchino, S. Elisabetta, S. Zaccaria: quattro statue in pietra attribuite dagli storici locali a Benedetto Cultraro, scultore chiaramontano vissuto a cavallo del XVIII secolo; ma sembrano piuttosto essere parte della decorazione del Mellini, a cui, per confronto stilistico con le altre opere esistenti in Chiaramonte e specie con le due statue di S. Vito e S. Francesco di Paola  del prospetto della Chiesa Madre, si possono con maggior verosimiglianza attribuire. Il recente restauro, ha evidenziato a seguito della pulitura delle quattro statue il loro connotato seicentesco (compresa la decorazione con cromie forti che era stata nascosta dalle numerose ridipinture).

5) Due volumi custoditi nell’archivio parrocchiale della Chiesa Madre. Il primo riporta le annotazioni relative agli anni 1751/1803 ed il secondo, agli anni 1774/ 1860; la sovrapposizione di date tra i due volumi, come l’ordine interno delle pagine o fogli discontinuo e disordinato, è derivato dal fatto che ciascun volume raccoglie fascicoli già sciolti e rilegati in un momento successivo.
Nel regesto il volume è indicato col numero romano, il foglio (recto a verso b) con cifra araba.
Tutte le note di pagamento, cui si fa riferimento nel testo, si trovano nella sezione documenti, elencate, per lo più integralmente, in ordine cronologico.

 6) 12 luglio 1745 - I procuratori della chiesa di Gulfi incaricano mastro Giuseppe Sciacco di Chiaramonte di «perfectionare il campanile già cominciato di detta Ven. Chiesa di Gulfi secondo il disegno che li daranno essi procuratori e d’intaglio di pietra della perrera della Valatazza della med. qualità che sono gli intagli della facciata di d. Chiesa e benvisto al rev. Sac. D. Stefano Cutello»  (SASM, notaio Pietro Antonio Bonelli, vol. 4 f. 752)

* Notizie storiche sulla chiesa di S. Giuseppe è tratto dal volume: Giuseppe Cultrera, Artisti & artigiani, aspetti e momenti dell’architettura religiosa a Chiaramonte, 2002

giovedì 13 novembre 2014

Mostra di Giuseppe Cupperi


Paesaggi diversamente abili


Spesso il male di vivere ho incontrato / era il rivo strozzato che gorgoglia /
era l'incartocciarsi della foglia  / riarsa, era il cavallo stramazzato.
 Bene non seppi, fuori del prodigio / che schiude la divina Indifferenza: /
era la statua nella sonnolenza  / del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.
Eugenio Montale, Ossi di seppia


A chi cerca limpidi cieli, terre incontaminate, approdi a mondi e culture variegati, pregnanza di umanità – soggetti abituali della bella mostra fotografica – Giuseppe Cupperi consegna deludenti messaggi minimali, inquieti passaggi attraverso le ferite dell’animo,  percorsi tortuosi disagevoli e disabilitanti. La sua narrazione non è frutto di esegesi e ricerche empiriche, si nutre di quotidiana vicenda umana, anche personale, additandoci una maieutica non salvifica ma appena consolatoria e ristoratrice: in attesa di cammini più impervi.
Non ci sono stati di beatitudine o visioni estatiche da condividere con l’autore: l’inquietum est cor nostrum di Agostino d’Ippona, piuttosto.
Inquietudine che non intristisce il cuore, lo avvia ad un percorso diversamente umano.
E noi che stiamo dall’altra parte della disabilità, percepita appena e intellettualizzata attraverso assolutori grimaldelli semantici - mente, cuore, parola – siamo sufficientemente inquieti ed umani?  L’amico Giuseppe Cupperi, fotografo per passione ed inquieto viaggiatore per  diversa casualità, sottovoce,  attraverso queste 13 finestre nel paesaggio, risponde per se. Ed anche per noi.*

Giuseppe Cultrera















* PRESENTAZIONE per la mostra:
Lugano "Paesaggi diversamente abili" di Giuseppe Cupperi. 
Photographica Fine Arte Gallery - 22/07/2014 - 07/08/2014