venerdì 2 agosto 2013

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C'è un film per capire Bergoglio
di Umberto Eco
(25 luglio 2013) L’Espresso


Papa Francesco assume (lui gesuita) un nome francescano, va ad abitare in albergo, manca solo che calzi dei sandali e vesta un saio, caccia dal tempio i cardinali in Mercedes e infine va da solo a Lampedusa ad allearsi coi reietti del Mediterraneo come se la Bossi-Fini non fosse una legge dello Stato italiano. E' davvero l'unico a dire e fare ancora "cose di sinistra"? Ma all'inizio si sono fatte circolare voci sulla sua eccessiva prudenza verso generali argentini, si è ricordata la sua opposizione ai teologi della liberazione, si sottolinea che non si è ancora pronunciato sull'aborto, sulle staminali, sugli omosessuali, come se un papa dovesse andare in giro a regalare preservativi ai poveri. Chi è papa Bergoglio?

Credo che si sbagli a considerarlo un gesuita argentino: è un gesuita paraguayano. E' impossibile che la sua formazione non sia stata influenzata dal "sacro esperimento" dei gesuiti del Paraguay. Il poco che la gente sa su di loro è dovuto al film "Mission", che condensava in due ore di spettacolo, con molti arbitrii, 150 anni di storia. Riassumiamo. I conquistadores spagnoli, tra Messico e Perù, avevano compiuto stragi inenarrabili, appoggiati da teologi che sostenevano la natura animalesca degli indios (tutti oranghi), e solo un domenicano coraggioso come Las Casas si era prodigato contro la crudeltà dei Cortés e dei Pizarro, presentando gli indigeni sotto tutt'altra prospettiva.

All'inizio del Seicento i missionari gesuiti decidono di riconoscere i diritti dei nativi (in particolare i Guaranì, che vivevano in uno stato preistorico) e li organizzano in "riduzioni", ovvero comunità autonome autosostenute: non li raccolgono per farli lavorare per i colonizzatori, ma gli insegnano ad amministrarsi da soli, liberi da ogni servitù, in una totale comunione dei beni che producevano. La struttura dei villaggi e le modalità di quel "comunismo" ci fanno pensare alla "Utopia" di More o alla "Città del Sole" di Campanella, e di "preteso comunismo campanelliano" parlerà Croce, ma i gesuiti si ispiravano piuttosto alle primitive comunità cristiane. Mentre costituivano dei consigli elettivi formati solo da nativi (ma ai padri rimaneva l'amministrazione della giustizia), insegnavano a quei loro soggetti architettura, agricoltura e pastorizia, la musica e le arti, l'alfabeto (anche se a non a tutti, ma producendo talora artisti e scrittori di talento).

I gesuiti avevano certamente instaurato un severo regime paternalistico, anche perché civilizzare i Guaranì significava sottrarli alla promiscuità, alla neghittosità, all'ubriachezza rituale e talora al cannibalismo. Quindi, come per ogni città ideale, tutti siamo pronti ad ammirarne la perfezione organizzativa, ma non vorremmo certo viverci.

Però il rifiuto dello schiavismo, e gli attacchi dei "bandeirantes", cacciatori di schiavi, avevano portato alla costituzione di una milizia popolare, che si era valorosamente scontrata con schiavisti e colonialisti. Sino a che, a poco a poco, visti come sobillatori e pericolosi nemici dello Stato, nel XVIII secolo i gesuiti erano stati prima banditi da Spagna e Portogallo e poi soppressi, e con loro finiva il "sacro esperimento".

Contro questo governo teocratico si erano scagliati molti illuministi, parlando del regime più mostruoso e tirannico mai visto al mondo; ma altri parlavano però di «comunismo volontario ad alta ispirazione religiosa» (Muratori), dicevano che la Compagnia aveva iniziato a guarire la piaga dello schiavismo (Montesquieu), Mably comparava le riduzioni al governo di Licurgo e più tardi Paul Lafargue avrebbe parlato del «primo stato socialista di tutti i secoli».

Ora quando si propone di leggere le azioni di Papa Bergoglio in questa prospettiva si deve tener conto del fatto che sono passati da allora quattro secoli, che la nozione di libertà democratica è ormai comune persino agli integralisti cattolici, che certamente Bergoglio non si propone di andare a compiere né sacri né laici esperimenti a Lampedusa, e grasso che cola se riuscirà a liquidare lo Ior. Ma non è male vedere ogni tanto, su quanto accade oggi, il baluginio della Storia.

domenica 21 luglio 2013

per altre idee ed altri soggetti ...

Stefano Rodotà 

La normalità deviata

Da La Repubblica del 20/07/2013.

 

Molti fatti, in questi giorni, hanno destato scandalo, suscitato proteste, acceso qualche fuoco d’indignazione. Ma non sono il frutto di una qualche anomalia, non rientrano nella categoria delle eccezioni o degli imprevisti. Appartengono a quella “normalità deviata” che caratterizza ormai da anni il funzionamento del sistema politico.
HA corroso il costume civile, accompagna il disfacimento del sistema industriale e la terribile impennata della povertà.
Il caso Alfano è davvero una illustrazione esemplare del modo in cui questa normalità deviata è stata costruita, fino a divenire l’unica, riconosciuta forma di normalità istituzionale. Lasciando da parte la responsabilità oggettiva per fatti di cui non avrebbe avuto conoscenza, bisogna chiedersi quale ruolo giochi la responsabilità politica.
Dove va a finire questa specifica forma di responsabilità quando si adotta questo tipo di argomentazione? Scompare, anzi è da tempo scomparsa, creando una zona di immunità nella quale i titolari di incarichi istituzionali si muovono liberi, quasi estranei alle strutture che pure ad essi fanno diretto riferimento, anche quando il funzionamento di queste strutture produce gravi conseguenze politiche. La responsabilità politica, anzi, finisce con l’essere considerata come una insidia, un rischio. Guai a farla valere se così vengono messi in pericolo la stabilità del governo, gli equilibri faticosamente o acrobaticamente costruiti.
Questo particolare tassello della normalità deviata finisce con il rivelare la più profonda distorsione del nostro sistema politico – l’essere ormai prigioniero di uno stato di emergenza permanente. Questo è divenuto l’argomento che inchioda il sistema politico alle sue difficoltà, negandogli la possibilità di sperimentare soluzioni diverse da quelle che, via via, mostrano i loro evidenti limiti, fino a sottrarre alla politica ogni legittimo margine di manovra. Di nuovo la normalità deviata, di fronte alla quale vien forte la tentazione di pronunciare un “elogio della follia politica”, che spesso consente di cogliere i tratti reali di una situazione assai meglio del realismo proclamato. Era davvero imprevedibile quello che sta accadendo, l’intima fragilità delle “larghe intese” che, prive di qualsiasi collante politico, sono in ogni momento esposte a fibrillazioni, ricatti, strumentalizzazioni? È la mancanza di coraggio politico a produrre instabilità.
Così non soltanto l’orizzonte dell’azione di governo si accorcia sempre di più, fino a ridursi al giorno dopo. Soprattutto si perde la capacità di operare in modo adguato alle situazioni di crisi e di ripartire le risorse rispettando le vere priorità, le emergenze effettive. Infatti, si accettano come variabili indipendenti quelle che, invece, sono pretese settoriali o prepotenze di parte. Problemi procedurali a parte, com’è possibile ripartire le scarse risposte disponibili assumendo come tabù intoccabile l’acquisto degli F-35, mentre premono altre e più drammatiche necessità? Com’è possibile inchiodare fin dal primo giorno l’azione del governo intorno alla questione dell’Imu, condizionando l’intera strategia economica per soddisfare una promessa elettorale di Berlusconi, mentre svaniscono quelle del Pd?
In questa normalità sempre più deviata non riescono a trovare posto le vere, grandi emergenze. Mentre si dissolve l’apparato industriale, non vi sono segni di una vera politica industriale. Neppure questa è una novità, perché si tratta di una eredità dei governi Berlusconi e pure del governo Monti, dove quelle due parole venivano liquidate quasi con disprezzo come si facesse cenno a una inammissibile interferenza nel mercato. E da questa ulteriore assenza di politica viene un contributo all’aggravarsi della situazione economica, che ormai deve essere letta partendo dalle cifre impressionati sulla povertà. Le ha analizzate efficacemente e impietosamente Chiara Saraceno, sottolineando pure la necessità di modifiche strutturali, come quelle riguardanti l’avvio di forme di reddito garantito. Un governo blindato, non è necessariamente sinonimo di governo forte e efficiente.
Ma la normalità deviata non la ritroviamo solo nel circuito istituzionale. È dilagata nella società, con effetti perversi che verifichiamo continuamente osservando il degradarsi delle regole minime della convivenza civile. So bene che il caso Calderoli è vicenda miserevole. Ma bisogna ritornarci perché si sono ricordati i precedenti di questo eminente rappresentante della Lega, dalla maglietta contro l’Islam all’annuncio di passeggiate con maiali dove si pensava di costruire una moschea. Nulla di nuovo, allora. Gli insulti alla ministra Kyenge appartengono a questa perversa normalità, accettata e addirittura premiata con incarichi istituzionali. Ma Calderoli non era e non è solo, è parte di una schiera che ha fatto del linguaggio razzista, omofobo, sessista un essenziale strumento di comunicazione, per acquisire consenso e costruire identità. E infatti, per giustificarlo, si è detto che le sue erano parole da comizio, dunque legittime, senza rendersi conto dell’enormità di questa affermazione: la propaganda politica può travolgere il rispetto dell’altro, negandone l’appartenenza stessa al comune genere umano, pur di arraffare un miserabile voto.
Ma era una battuta, si è detto. Lo sentiamo dire da anni, senza che questa pericolosa deriva sia mai stata contrastata seriamente da nessuno. Anzi, è stata sostanzialmente legittimata da due categorie – i realisti e i derubricatori. Innocue quelle battute, derubricate a folklore, a modo per avvicinare il linguaggio della politica a quello dei cittadini. Ma il linguaggio è strumento potente e impietoso, e oggi ci restituisce l’immagine di una società degradata, nella quale sono stati inoculati veleni che l’hanno drammaticamente intossicata. Inutili moralismi, ribattono i realisti, che guardano alla Lega come forza politica, addirittura come una “costola della sinistra”. Ma una cosa è considerare la rilevanza politica di un fenomeno, altro è accettarne ogni manifestazione, rinunciando a contrastare proprio ciò che frammenta la società, ne esaspera i conflitti.
Altre deviazioni potrebbero essere ricordate. E tutto questo ci dice che, per tornare ad una decente normalità, serve una innovazione politica profonda, che esige altre idee e altri soggetti.


giovedì 27 giugno 2013

Poeta solitario della luce. Il pittore Giovanni De Vita (1906/1990)

Sul finire del secolo scorso chi, visitando Chiaramonte, si addentrava nella suggestiva  via Castello e per  l’altalenante asimmetrica scalinata ascendeva fino al poggio dell’antico abitato fortificato, si imbatteva a metà percorso in una linda casetta, attraverso le cui porte-finestre si intravedeva l’interno di una bottega di pittore. Le pareti interamente tappezzate di dipinti, gli spazi angusti delle due o tre stanzette occupati da cavalletti, tavole e sedie con altri dipinti, alcuni in fase di completamento altri appena abbozzati: pennelli, colori, cornici da adattare a qualcuna di quelle opere, ovunque.  Lui, l’artista, con l’inseparabile nazionale tra le labbra un pennello nella destra ed un panno schizzato da mille colori nell’altra mano, si aggirava tra paesaggi idilliaci, Madonne campestri, volti taciturni del sud, fiori e nature morte, per depositare su una di quelle tele il tocco finale di un petalo esangue, di un rossore di gota, di uno scintillio di cristallo. Giovanni De Vita, lo conoscevano tutti a Chiaramonte, perché era avanti negli anni e da sempre amava incontrare la gente, quella che curiosava nella sua bottega, passando da lì per andare a far la spese o tornando dal duro lavoro, quelli del quartiere che si affacciavano sul davanzale per scambiare due parole e commentare gli accaduti, o coloro che incontrava dopo pranzo alla Società Operaia o ai Giardini Pubblici sul far della sera. Ascoltava molto, perché per natura era introverso, e parlava poco: ma con tono affabulatorio e saggezza da vecchio.

Ricordo, nell’estate del 1986, quando incontrò un altro affabulatore che amava più scrutare ed ascoltare, che parlare. Leonardo Sciascia, volle conoscere quel tipo taciturno che la sera precedente era stato premiato come siciliano insigne, poco prima di lui e che gli sedeva accanto: lo attrasse forse in quell’esile corpo che sembrava ritirarsi dentro il vestito beige, un fulmineo ghigno serrato nelle pieghe del volto scavato.
Il pittore aspettava sulla soglia del suo modesto studio, in via Castello: lo scrittore, contornato da uno stuolo di amici, giornalisti e curiosi si fece avanti tendendogli la mano e salutandolo. Il maestro farfugliò qualcosa, poi più nitidamente (ma questo era il liet motiv con cui accoglieva gli occasionali visitatori) esternò il proprio disagio per la modestia dell’ambiente, il disordine, la povertà di vita. Disse qualcosa sull’Arte, come egli la intendesse, sulla passione invereconda per questo mestiere, per come fosse contento del poco… Sciascia, il capo leggermente chino, le labbra serrate, l’eterna sigaretta tra le dita (quella che il maestro faceva volteggiare nell’altra mano, era della stessa marca: lo scrittore di Racalmuto quando estraeva dal pacchetto l’ennesima, ne offriva sempre una all’interlocutore) lo ascoltava immobile. Poi  sollevando il capo ed appoggiandogli la mano sulla spalla, aprendo la bocca ad un sorriso   - Se vuole posso interessarmi per farla esporre a Palermo, conosco qualche gallerista,  ho amici; mi interesserò io stesso per la presentazione.
Tornò quel ghigno misterioso, ma ora era facilmente decifrabile: sorriso disarmante di uomo di un piccolo paese del Sud, nel quale si era rintanato, dove caparbiamente aveva esercitato l’esercizio catartico dell’arte, sempre più solo, sempre più lontano da una funzione economica, seppur minima, riducendosi a contemplare le sue opere senza aver voglia di staccarsene, indignato per l’incapacità  degli eventuali compratori di concepire, la finalità di quel pezzo di tela o cartone “scarabocchiato”, altra da sfondo per il salotto buono o  schermo ad una macchia del muro.
Rispose di no. Che non se l’avesse a male, ma ormai si sentiva vecchio e stanco e che quel trampolino per la fama lo aveva sempre sognato con ardore, ma nel contempo temuto negli anni più verdi. La sua vita tranquilla, nel paese, il poco di cui si contentava, gli bastavano.  Grazie lo stesso.
Volle però, in segno di amicizia ed in ricordo di quell’incontro, regalare all’illustre scrittore  un piccolo acquarello, la tecnica che più lo affascinava e nella quale eccelleva. Sciascia lo prese e  sorrise. Confidò poi, che dapprima c’era rimasto male, poi aveva compreso ed ammirato quel piccolo uomo di paese, dal sorriso triste.

Se ne andò in silenzio e con discrezione, come era vissuto, in una limpida giornata di giugno di quattro anni dopo.  L’ultima mostra, una antologica, fu allestita nella Biblioteca Comunale di Chiaramonte, che allora dirigevo, pochi giorni prima a fine maggio 1990: faticammo con Clara Damanti per convincere l’anziano maestro ad esporre i suoi dipinti. Ne scelse 54, tra quelli conservati e selezionati nel tempo, già destinati alla sua città, ove questa volesse accettarli ponendoli in uno spazio espositivo permanente (qui la voce del maestro si faceva rauca e tremolante, ma gli occhi avevano un guizzo di luce, mentre sul viso per un attimo si componeva un fuggevole sorriso). In effetti  quella raccolta oggi è la Pinacoteca De Vita (ospitata negli splendidi  saloni del Piano Nobile del Palazzo Montesano), donata nel 1995 dagli eredi, in primis la nipote Maria, esaudendo il desiderio del pittore.

Non ha  avuto, De Vita, illustri critici che lo abbiano recensito, né mostre in città o gallerie di grande risonanza; non ha collocazione critica ed artistica né tanto meno il suo nome è stato od è inserito nei rinomati repertori per le quotazioni di mercato. La sua personalità schiva ha certamente agevolato l’oblio. Scriveva nel 1987 il compianto Enzo Leopardi, altra voce sommessa di questo Sud spesso marginale, «Certamente De Vita forse è tutto da scoprire come pittore;  certamente non ha ancora avuto il posto che gli compete per la sua maturità d’arte, per la sua maestria compositiva, per la felicità d’interpretazione del dato reale. La sua eccessiva modestia, direttamente proporzionale alla sua bravura, non gli ha consentito finora di vantare le sue affermazioni in concorsi prestigiosi». A posteriori, ce ne accorgiamo. Le celebrazioni, come questo primo centenario della nascita, sono un riconoscimento tardivo, a conferma dell’assioma, che riletture  e riabilitazioni, sono spesso postume.              Giuseppe Cultrera     [2006] 


sabato 8 giugno 2013

Oggi sul "Corriere della Sera"

Corriere della Sera Sabato 8 Giugno 2013   











 

 

Chiaramonte Gulfi

Il balcone di Sicilia

amato da Sciascia

tra ulivi e vigneti


 


 


Adesso che sotto il «balcone di Sicilia» è (virtualmente) operante l’aeroporto di Comiso, la rocca di Chiaramonte Gulfi potrebbe diventare davvero la nicchia di un turismo di qualità. Perché se a Modica, Scicli ed in altri gioielli del barocco siciliano scelti come set dalla produzione del «Commissario Montalbano» è da tempo scattata un’attrazione fatale per scrittori, architetti, medici, agiati pensionati arrivati prima in vacanza e poi decisi ad acquistare un rudere o una villa liberty, la scommessa si fa ancora più immediata per chi domina tanto ben di Dio da questo «balcone» a 600 metri d’altezza. Eccolo il borgo medievale con vista su Comiso e Vittoria, fino al mare di Scoglitti. Il borgo dei boschi, dei grandi vini e soprattutto degli ulivi saraceni che danno l’olio più pregiato di Sicilia, come scoprì Veronelli nel 1965. Quieto eden amato da Sciascia e Bufalino. Ottomila abitanti e otto musei. Un’infinità di chiese e cappelle. Un centro storico tutto da riscoprire. E un santuario della cucina come la secolare trattoria di Salvatore Majore dove dal 1896 «si santifica il porco», come teorizzò estasiato il rettore buongustaio di Messina Salvatore Pugliatti. Fu lui a lasciare incidere il motto sulla parete sopra il suo tavolo a un pittore di prima grandezza, Giovanni De Vita, entusiasta quando il New York Times, già nell’aprile del 1987, dedicò un’intera pagina alle leccornie di Chiaramonte Gulfi con un titolo bilingue: «Where il porco is king». Pagina da albo d’oro, un librone con grandi firme, da Salvatore Fiume a Piero Guccione, da Bufalino a Sciascia, commensali eccellenti accompagnati qui da un allora giovanissimo poeta, Giovanni Catania, adesso vate e cicerone felice di tanta rinnovata attenzione sul paese tratteggiato nei suoi versi. Raccolte presentate da Giuseppe Cultrera, lo storico di tradizione locale, erede di un filone che qui comincia con Serafino Amabile Guastella, l’etnologo morto nel 1899, stesso anno di nascita di Vincenzo Rabito, il contadino semianalfabeta che ha lasciato un libro di mille pagine, «Terra matta», cuore del film girato da  Costanza Quatriglio fra questi angoli scelti come set non solo da Montalbano.

Perché basta lasciare il centro abitato per trovare, fra masserie ristrutturate, alberghetti e B&B di charme, Villa Fegotto dove hanno girato mille sequenze con Luca Zingaretti, ma anche con Philippe Noiret e Laura Morante, mantenendo intatte le scenografie di Marianna Ucria mostrate fra gli scaloni dei Vicerè dall’ospitale proprietario- avvocato, Aldo D’Avola. Lieto di spalancare il cancello come succede in contrada Zottopera all’ingegnere Giuseppe Rosso, produttore di ottimo olio e patron di un agriturismo ormai frequentato soprattutto da tedeschi. Perché è un passaparola continuo, come spiega Giuseppe Schembari, un collezionista di auto d’epoca che della passione sta facendo un mestiere. Crede al futuro ed è tornato dal Nord. «Come tanti figli di coltivatori che hanno studiato fuori», spiega il sindaco Vito Fornaro che con l’assessore Salvatore Vargetto punta a incentivare l’arrivo di turisti da catturare come residenti. Anche con la calamita del buon olio raccomandato dallo chef stellato del «Duomo» di Ragusa Ibla Ciccio Sultano ed esaltato da Carmelo Floridia, lo chef «laureato» al Boscolo di Firenze, da Mualdo a Crespi D’Adda, al Four Seasons di Milano e tornato qui in un angolo raffinato, la «Locanda Gulfi». Proprio il nome dei vini di Vito Catania, un imprenditore della chimica trapiantato ad Arcore, 15 mila clienti, deciso a lasciare un segno nel suo borgo. Con il figlio Davide nato a Monza ed «emigrato al Sud» per dare manforte a Floridia nel ristorante con vista su una cantina spettacolare.

Altro richiamo da aggiungere alle mille attrattive del «balcone» proiettato sul futuro, senza dimenticare il passato che vive nei musei del liberty, dell’olio, del ricamo, degli strumenti musicali, dei cimeli storici, dei paramenti sacri, in quello ornitologico e nella pinacoteca con le meraviglie di De Vita. Otto poste da aggiungere a un percorso (forse) presto raggiungibile con un low cost.

Felice Cavallaro

 


mercoledì 29 maggio 2013

La cucuna del maiale


La cucina del maiale  - Nella provincia di Ragusa abbondano i piatti a base di carne, con prevalenza di quella suina. E forse perché del maiale non si butta niente, come ci ricorda un detto popolare, questo mite animale ha esaltato la ricerca culinaria delle antiche popolazioni iblee.

Tra le città dell’entroterra, è Chiaramonte quella dove si magnifica il porco (la scritta accoglie l’avventore del Ristorante Majore, che l’ha mutuata da un articolo di Leonardo Sciascia); ancor oggi come nel passato più e meno recente.

La predominanza della carne di maiale nella dieta dei chiaramontani storicamente si può far risalire al periodo alto medievale, quando il territorio chiaramontano, per lo più boschivo e demaniale, era estesamente utilizzato per l’allevamento del maiale. L’enorme produzione, e più ancora la lavorazione, presupponevano un notevole quantitativo di prodotto consumato in loco. Ed una conseguente cultura, sedimentatasi nel tempo, relativamente all’impiego nella cucina quotidiana o di lungo periodo (conserve).

La qualità delle carni (una razza autoctona probabile incrocio col cinghiale selvatico presente nei boschi) esaltata dallo stato brado e dalla dieta (ghiande e frutti selvatici) era rinomata in tutto il circondario: tali peculiarità si mantennero nella successiva evoluzione socio-economica, quando la popolazione abbandonata quella primitiva economia di sussistenza incentivò l’agricoltura  e l’allevamento di bovini ed ovini. Infatti nelle fattorie cerialicole o nelle masserie degli allevatori era usuale se non preminente l’allevamento del maiale locale (l’evoluzione di quella razza primitiva, che tra le peculiarità aveva la pregevolezza della carne).

Il maiale era inoltre la base dei tanti piatti della festa; in primis della festa per eccellenza, vale a dire il Carnevale. I maccheroni col sugo di maiale, la salsiccia arrostita o saltata in padella, la costata, ripiena e no, i suppirsati (salami) frittuli (parti grasse fritti in padella) erano piatti tipici del giovedì grasso e del martedì di carnevale.

 

‘A liatìna (gelatina di maiale)  - Uno dei piatti tipici chiaramontani. E’ ottenuta dalle parti meno utilizzabili del maiale. E’ pertanto, all’origine, un piatto popolare.

Fino a qualche anno fa, era approntato dalla persona anziana di casa (nonna, suocera o zia) che nel contempo istruiva le giovani generazioni. Oggi sono meno le persone che conoscono il laborioso percorso di preparazione, ma in compenso è divenuto patrimonio della cucina iblea, presente nelle salumerie specializzate e nei ristoranti più rinomati, fra i quali non si può non citare Majore (via Martiri Ungheresi, 12, Chiaramonte Gulfi) che dal 1896, anno di nascita del ristorante, gli ha riservato un posto d’onore fra gli antipasti. Allora era molto facile reperire nelle masserie e nelle casette di campagna la materia prima, quel tipo di maiale ibleo oggi in via di scomparsa: lo faceva con accurata professionalità personalmente Salvatore Laterra il nonno dell’attuale titolare del ristorante Majore.

 

Costata di Maiale ripiena - La tradizione racconta che nella creazione di questa ricetta  ci sia l’apporto di un Majore, Don Raffaele Laterra, antico avo degli attuali ristoratori, aiuto cuoco della famiglia Montesano. Nel 1748 a Chiaramonte nel palazzo del barone Cultrera di Montesano, in occasione del pranzo ufficiale in onore del Conte Ruffo di Calabria, allora Vicerè di Sicilia, il cuoco francese Monsieur Francois (dai paesani chiamato don Cicciu Monzù) inventò e servì per la prima volta questo piatto, con la collaborazione, ovviamente, di don Raffaele Majore.

mercoledì 22 maggio 2013

Chiaramonte: Villa Fegotto

VILLA  FEGOTTO, contrada Fegotto, Chiaramonte Gulfi (RG)

 

 E’ l'esempio di azienda agricola sorta, dopo l'unità d'Italia, sull'onda del nuovo interesse per l'agricoltura e per il razionale sfruttamento delle sue risorse. La fattoria edificata intorno al 1830 ad opera di Vito Rizza fu, nel 1870, a cura dei figlio Evangelista, ristrutturata in azienda rurale.

In una mappa dell'azienda del 1878 troviamo il dettaglio della disposizione dei locali e l'ampiezza del complesso (che poi è lo stesso di oggi). Attorno alla grande corte centrale si dispongono i magazzini di granaglie, carretteria, chiesa, abitazioni dei lavoranti, stalle e pagliere, cantina, caldaia e fornace, palmento, bottiglieria, cisterna ed abbeveratoio, trappeto con macina, forno e cucina (per i lavoranti), abitazione della massaia, scuderie, attrezzi da stalla e da basto, latrine, pollaio, porcile, appartamenti padronali (piani superiori) e giardino annesso.

I due accessi, Est -  da Chiaramonte  e Ovest - da Vittoria, la collegano alle due principali strade che attraversano il latifondo, appunto quella che porta nella soprastante città di Chiaramonte e l'altra sul fronte opposto che si snoda nella vallata verso le zone marine e si riuniscono al centro del complesso edilizio nella grande corte lastricata con piccole basole di calcare duro.

Attorno a questa "piazza" si svolge la piccola città agricola, con la sua chiesa, le sue monumentali cantine, i vari opifici, le cucine e le stanze per i lavoranti stagionali e per i soprastanti e mezzadri. E persino la scuola. Sul lato meglio esposto (di fronte ai due accessi e rivolto a sud) troviamo la dimora dei padrone,  i cui bassi erano destinati alla produzione. Una scala a forbice conduce al piano superiore il cui portico è abbellito da quattro colonne; la facciata si slancia ancora con un terzo piano che continua il sapiente gioco di pieni e vuoti con lesene che formano archi ciechi. Il tutto coronato da un piccolo campanile.

L’interno è decorato con pitture; i pavimenti sono in ceramica di Caltagirone e mattoni di pietra pece. Le stanze, come avviene comunemente negli edifici di questo periodo, sono disposte in successione.

I resti del giardino rivelano la sua ampiezza e l'originale alternanza di piante decorative e piante da frutto, con spazi dedicati all'orto domestico.

Proprietario della villa, nel suo massimo splendore, fu quel Don Evangelista Rizza, ricco proprietario terriero di origini borghesi, divenuto poi deputato ibleo sul finire dell'ottocento. Potentissimo e temuto dagli avversari, seppe coniugare gestione del potere e illuminata imprenditoria. Nelle terre attorno alla villa tra fine ottocento e primi del novecento fu realizzata un’agricoltura moderna, con produzione vinicola e olearea di buon livello, esportata in Italia ed Europa.

La villa è stata acquistata negli anni ’90 dall’avv. D’Avola, che ne ha curato il restauro con accurata aderenza all’originaria struttura. Elegante set per numerosi film (tra i più importanti: Marianna Ucria e I vicerè, entrambi di Roberto Faenza e un episodio dell’ormai famoso commissario Montalbano) per eventi o serate musicali di alto livello in estate, non è aperta al pubblico.




Testo estratto da:
Giuseppe Cultrera, Edilizia rurale negli Iblei.Le ville,
in "La Provincia iblea dall'unità al secondo dopoguerra", Ragusa, 1996.