Profetico
domenica 21 aprile 2013
giovedì 18 aprile 2013
Passeggiata nel passato alla scoperta delle neviere
> Le neviere che incontreremo nella passeggiata per gli antichi tratturi sul crinale dell’Arcibessi, immersi nel risveglio primaverile della natura…
Sabato 20 aprile, ore 15
La struttura in miglior stato di conservazione, forse perché tra quelle di più recente costruzione, sorge in prossimità del bivio Maltempo. Sullo stipite dell'apertura, utilizzata per estrarre i blocchi ghiacciati, è scolpita la data «1886». Fu tra quelle usate fin nell’immediato dopoguerra: una delle ultime ad accogliere la neve di Serra di Burgio (è il nome della contrada dove sorge) nelle sue capienti viscere.

Accanto verso sud est, sottomessa alla stradina tangente, se ne intravede un'altra, da tempo trasformata in cisterna. Era nota nell'ultima fase d'utilizzo come la nivera di Catalano, dal cognome del gestore od appaltatore.
Maltempo
Il vasto altopiano a sud
est dell’Arcibessi è denominato Maltempo.
La Serra di
Burgio è la parte più settentrionale: e qui troviamo, oltre alle due
precedenti, altre quattro interessanti strutture per la conservazione della neve,
delle quali ci è ignota la denominazione e l’appartenenza. Come le due precedenti, sono adiacenti allo
stradale, di antica costruzione, che collegava la zona montana con la vallata
comisana.
La prima
sorge, pochi metri più in alto a ovest, sul degradare della collina. La
struttura in buono stato di conservazione è ancora attorniata dal recinto in
pietrame a secco. Il maggiore interro della struttura la pone fra le più antiche testimonianze
dell’industria della neve: concorre ad assodare l’ipotesi l’originale apertura sul
prospetto realizzata con tre massi megalitici.
La neviera
dell'Arcibessi, situata in alto (845 metri s.l.m.) sull'omonimo monte, è tutta scavata
nella roccia e con una capienza di gran lunga superiore a tutte le altre.
Raccontava
don Vito Landolina – uno degli ultimi impresari del settore, appaltante della
raccolta della neve e rivenditore del ghiaccio – che varie volte non si riuscì,
in estate, a svuotarla del tutto. E che quando le operazioni di accumulo,
stipaggio e chiusura ermetica del prodotto, erano accurate, l'enorme massa
ghiacciata si manteneva solida e duratura per tutta la stagione calda.
Forse per
questo il popolo la chiamava "la
lupa": per riempire il suo insaziabile ventre uno sciame di oltre cento
raccoglitori, complice anche l'esiguità delle nevicate, non bastava. Il popolo
la chiamava anche, storpiando dialettalmente la denominazione colta del monte, Uccibessi. Esternando, nell'una e
nell'altra identificazione, quel misto d'affetto ed astio, consueto nella
classe popolare, che del lavoro sostanziava l’ambivalenza di fatica e
sostentamento.
Due
documenti attestano la sua vetustà.
·
Un
rivelo del 1681 nel quale si legge: «
E in più la Niviera in detto territorio e
nella contrada della Montagna chiamata la Niviera di Archibes, confinante con
la via pubblica et aliis».
·
Ed
un atto del 13 aprile 1694, notaio Giuseppe Cannizzo: « Item nivariu noncupata d’Arcibessi, potitam in territorio huius terrae
et contrada dicta d’Arcibessi.»
![]() |
Neviera Archibès |
Con
arrogante arbitrio la sovrastano, disarmoniche presenze, due antenne radiotelevisive.
1783
A poca distanza è
ubicata la neviera sull'architrave della quale
si legge inciso «1783». La solida struttura è addossata al declivio del
monte e sprofonda per oltre otto metri interamente cavati nella roccia, culminando
con una volta a botte in conci squadrati, chiusa da doppio spiovente,
impermeabilizzato dalle larghe basole di pietra.
![]() |
Neviera dei Macellai |
Fu attiva
fin nel primo dopoguerra, e vi lavorò, fino al 1915, Giuseppe Gueli (1866-1936)
un esperto delle tecniche di raccolta e conservazione della neve.
Fino a
pochi anni fa sorgeva, proprio accanto, una rustica casetta: forse un edificio
connesso alla lavorazione della neve. La neviera, di recente è stata restaurata
con destinazione di cisterna.
Primosole
Sul fronte nord est
dell'Arcibessi sorge un'altra famosa ed antica neviera, conosciuta con
l'immaginifica denominazione di Primosole.
Mi spiegava un anziano contadino, già nel passato lavoratore delle neviere, che
il nome gli deriva dall'elevazione e dalla posizione, essendo affacciata ad est
verso Palazzolo, da dove la mattina spunta "il primo sole". Era
seconda solo a quella dell'Arcibessi; ed anch'essa di solida costruzione e di
facile utilizzo.
Sul pianoro
che con lieve digradare si estende attorno, si depositava abbondante e soffice
la neve, che i raccoglitori con facilità, (o facendola rotolare o
conficcandola, dopo averla compressa, in un lungo bastone) consegnavano al suo
capiente ventre.
Fu utilizzata per l'ultima
volta nei primi del novecento e poi abbandonata sia per la vetustà della
struttura e sia perché ubicata in una zona meno facile da raggiungere dai
“nuovi mezzi di trasporto”, i carretti, che l'apertura della rotabile per
Ragusa, verso sud, e per Vittoria, verso ovest, rendeva competitivi, rispetto
al tradizionale trasporto a basto con lunghe carovane di muli ed asini.
La struttura e la tipologia
costruttiva, infine, ci rimandano alla prima e più antica fase della «industria
della neve».
![]() |
Altipiano dell'Arcibessi |
Tratto da:
G. Cultrera,
L'Industria della neve Neviere degli Iblei,
Utopia edizioni, 2001
Le schede,
sulle neviere
sono desunte
del volume sopra indicato.
martedì 9 aprile 2013
Postille d'arte 1/2/3
Chiaramonte
Gulfi: architetti e scultori dei secol XVI e XVII
Due gaginiani
tardo manieristi - Nicolò Mineo
operante tra fine ‘500 ed inizio
‘600 e Simone Mellini attivo tra inizio
seicento e metà dello stesso secolo – e uno scultore barocco intriso di classicismo provinciale - Benedetto Cultraro (1670 –
post 1750)
Sono artisti artigiani nell’alveo della
scultura rinascimentale – che in Sicilia
ebbe artefici indiscussi i numerosi discendenti di Giandomenico Gagini – gli
scalpellini, mastri e capomastri, operanti dal secolo XVI e fino al terremoto
del 1693 a
Chiaramonte.
Alcuni anche di notevoli capacità. Come Nicolò Mineo (1542 – 1625) che veniva
già considerato dal Di Marzo un originale gaginiano, autore persino della
cosiddetta Cona nell’antica Chiesa di
S. Giorgio oltre che della cappella del Rosario nella chiesa di S. Filippo in
Chiaramonte. Ipotesi che è risultata parzialmente inesatta, a seguito di un
recente ritrovamento nell’archivio storico di Ragusa di un documento che dà
paternità dell’opera ragusana ad Antonio Gagini, che ne esigeva il pagamento
nel 1576.
Mentre non ci sono dubbi per la cappella del
Rosario, ricollocata dopo il terremoto del 1693 nella sacrestia dell’attuale
chiesa di S. Filippo, accanto alla lapide sepolcrale che ne ricorda l’artefice:
«magister nicolaus de mineo artifex
nobilis et sculptor excellens hic mortuus requiescit, vixit annos 83. obiit 21
xbris 1625».
Il Melfi, studioso locale del secolo passato,
lo dice originario di Caltagirone. Ma nel Rivelo
della popolazione del 1593, risulta stabilmente residente a Chiaramonte,
nel quartiere S. Filippo, proprio accanto alla chiesa dove portò a termine
l’ultima opera: «Mastro Nicolao di Minio,
figlio di Antonio, sposato con Violanti, residente nel quartiere di S. Filippo,
di anni 50, con 3 figli, con un
limpio (reddito tassabile) di 102
onze».
Appare chiaro che la sua opera artistica non è
riconducibile esclusivamente all’arco di cappella della Madonna del Rosario
(nel quale lavoro venne sicuramente coadiuvato dai figli, data l’avanzata età)
concluso nel 1624, un anno prima della sua scomparsa. Ma se quest’opera
sopravvisse al terremoto, lo stesso non avvenne per molte altre testimonianze
del rinascimento, andate perdute immediatamente o destinate a lento degrado per
la loro precarietà e per l’incuria degli uomini. Tra queste certamente l’elegante
cappella dell’Annunziata, quella della chiesa di S. Francesco, il prospetto
della chiesa di S. Giovanni e quello del Salvatore (buona parte del portale è
oggi conservata nella nuova chiesa del Salvatore).
Due di queste opere, la cappella
dell’Annunziata e il portale del Salvatore, potrebbero aver ricevuto il
contributo artistico del Mineo. Questa, che è solo un’ipotesi attributiva, trova
sostegno storico e stilistico nelle testimonianze dei memorialisti locali che
ritengono le due opere di scalpello gaginiano (il Melfi addirittura la ritiene
del contemporaneo Antonio Gagini, quello della Cona di S. Giorgio ad Ibla, che come abbiamo visto, oggi sicura
filologia documentale gli restituisce), e nel confronto tra l’arco di cappella in S.
Filippo, opera di certa fattura del Mineo, ed i resti del portale del Salvatore
(si raffrontino ad esempio il fregio centrale della cappella e quello del
portale con due figure mitologiche antropomorfe, affrontate al centro,
somiglianti per stile e per modalità di esecuzione).
Ciò non esclude che Antonio Gagini, o altri
della sua bottega, abbiano lavorato per gli edifici di culto di Chiaramonte; in
ogni caso sembra verosimile che il Mineo sia stato il principale riferimento per
le committenze dei chiaramontani tra fine Cinquecento e primi decenni del
secolo successivo.
*
Continuatore di Nicolò Mineo e probabilmente discepolo ed aiuto fu Simone Mellini, pure lui originario di
Caltagirone, operante dagli inizi del ‘600 e ritenuto dagli scrittori locali, a Chiaramonte Gulfi, l’artefice di gran parte
delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, giunte sino
a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico, le
statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e
quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto
antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della
piazza, ed una cappella interna non più esistente; la piccola chiesa di S.
Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria
eleganza e il monumentale abside, la cappella maggiore della chiesa delle
Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616) e quella somigliante del
Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù, tutte opere realizzate a
Chiaramonte.
L’arco di tempo in cui fu attivo si può
racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della
chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di
Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del
Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.
*
Imitatore di entrambi, ma non discepolo
essendo di due generazioni più giovane, fu Benedetto
Cultraro (1670 – 1750 c.). Di lui ci è giunta un’opera firmata e datata: «io benedetto cultraro di chia/te
(Chiaramonte) l’ho scolpito 1711». Il Cultraro dà saggio di perizia
tecnica e capacità di sintesi stilistica, nel ristretto spazio (mt. 2 x 1) del
bassorilievo su pietra dura, destinato all’altare della cappella del Crocifisso
all’interno della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Alla sua abilità tecnica si deve anche il
baldacchino, in pietra e legno, che accoglie la statua della Madonna di Gulfi:
dove sono evidenti le ascendenze berniniane ed il fascino manieristico. Che
ritroviamo, sempre stemperato nel classicismo mutuato dai maestri locali, nella
decorazione della chiesa di S.Maria la Vetere (più nota come Santuario di Gulfi) specie
nelle due porte esterne. Replica stile e soggetti antropomorfi nelle tre porte del
prospetto della chiesa di S. Giovanni Battista a Vittoria, attribuitegli, per certa documentazione.
Della
sua valentia di scultore ed intagliatore del legno sono testimonianza alcune
cornici (quella del quadro di S. Teresa, nella chiesa omonima e quello
dell’Immacolata, nella chiesa di S. Maria di Gesù) e il «fercolo» di S. Vito
(datato 1719).
> Nota: Pubblicato col titolo Postille d'arte 1, 2, 3 il 30 marzo, 1 e 2 aprile 2013 in questo stesso blog.
I tre testi, sono qui riuniti, con lievissime varianti ed esclusione delle illustrazioni.
domenica 7 aprile 2013
*
di una celebre lirica i Catullo
Vivamus mea Lesbia,
atque amemus,
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
rumoresque senum severiorum
omnes unius aestimemus assis!
soles occidere et redire possunt:
nobis cum semel occidit brevis lux,
nox est perpetua una dormienda.
da mi basia mille, deinde centum,
dein mille altera, dein secunda centum,
deinde usque altera mille, deinde centum.
dein, cum milia multa fecerimus,
conturbabimus illa, ne sciamus,
aut ne quis malus invidere possit,
cum tantum sciat esse basiorum.
Viviamo
l’amore, mia dolce Lesbia
le invidie dei vecchi astiosi
le invidie dei vecchi astiosi
valutiamole meno di un soldo!
E continui a sorgere e tramontare il sole:
chè quando questa breve luce si spegnerà
ci sarà per noi una notte di sonno
perenne.
Ora dammi mille baci, più cento
e ancora mille, poi altri cento
e mille ancora, che saranno tanti
da non capirci nulla,
(alla faccia di chi ci vuol male)
e nessuno potrà più
contarli …
Gaio Valerio Catullo, Liber :(Vivamus mea Lesbia)
Gaio Valerio Catullo, Liber :(Vivamus mea Lesbia)
mercoledì 3 aprile 2013
Mistero & magia
Chiaramonte Gulfi (RG):
La grotta di S. Giuseppe ed il tesoro svelato
c’a-ssiri mpastatu cu farina ri tri mulina
e acqua ri tri funtani
cuottu cu fraschi ri tri fumazzari
pirchì accussì prestu mi vinisti a liberari!
La grotta di S. Giuseppe ed il tesoro svelato
Una
delle figure più comuni del piccolo borgo di Chiaramonte era la lavandaia,
occupazione che si mantenne, nella sua manualità faticosa, fino al dopoguerra,
quando la civiltà dei consumi e ancor più l’ìntroduzione dell’acqua corrente
nelle abitazioni la resero anacronistica ed inutile.
Andava
nelle case dei benestanti, ma anche in quelle dei popolani “che potevano
permetterselo”, e raccoglieva i panni sporchi, poi con enormi truscie si recava ad una delle sorgenti
ubicate attorno all’abitato ed occupato lo spazio del lavatoio pubblico, che si
era conquistato a costo di notevoli lotte, si poneva al faticoso lavoro. Perché
lavoro faticoso era quello della lavandaia, china tutto il giorno a sciacquare
e strizzare i panni; anche se il tempo scorreva tra una notizia lieta ed una
triste, condito dalla “nobile arte” del pettegolezzo. Uno dei veicoli più
notevoli della diffusione degli accaduti all’interno della comunità era
senz’altro il lavatoio pubblico, assieme naturalmente al curtigghiu.
Ora
una di queste lavandaie, abitante nel quartiere popolare che si sviluppava
sopra la sorgente detta Fontana e che
da essa mutuava il nome di Borgo Fontana, una notte d’estate, come suol dirsi, ci spurtau u suonnu e dopo ripetuti ma
vani tentativi di ripigghiallu si
alzò e presa una delle truscie si
avviò al vicino lavatoio. Tanto valeva almeno fare qualcosa, anche perché
spesso la fatica è il miglior rimedio.
Era
notte fonda, ma la luna alta nel cielo che si rifletteva nell’acqua del
lavatoio, garantiva luce sufficiente per un accurato lavoro.
Stava
per iniziare quando udì un rumore come di qualcosa o qualcuno che stesse
avvicinandosi. Un rumore sinistro, perché subito istintivamente la donna si
nascose, per non essere vista ma per vedere.
Dalla
stradella che tortuosa costeggiava il dorsale della collina su cui si adagiava
il paese e che metteva in comunicazione con la fontana per poi proseguire verso
la grotta di S. Lucia ed immettersi nell’arteria nota col nome di strada romana, venivano lentamente tre
figure. Sarà che la notte di per sé acuisce la paura, sarà che quelle tre cose
animate avevano uno strano incedere, è certo però che la donna si fece piccola
piccola, trattenendo anche il fiato. L’agitazione divenne paura, la paura
terrore.
Quando
le passarono vicino vide che si trattava di un prete, a dorso di un mulo
condotto per la cavezza da un altro sconosciuto. Il gruppo oltrepassato il
lavatoio si diresse verso la grotta di S. Giuseppe che sorge una ventina di
metri oltre; e lì si fermò.
Il
prete con piglio autoritario indicò lo spazio antistante l’altare di S. Giuseppe e l’altro (doveva essere certamente il
suo sagrestano, pensò la donna; ma non erano del paese perché altrimenti li
avrebbe riconosciuti; né mai aveva visto nei dintorni un simile prete e
sagrestano) iniziò a scavare una fossa abbastanza larga, e profonda a vita d’uomminu. Il prete frattanto
disceso dalla cavalcatura traeva dal basto una bisaccia piena d’oro (non che il prete avesse
posto fuori dalla bisaccia l’oro, ma la donna, pur attanagliata dalla paura,
ebbe chiara la percezione che di oro si trattava). Quindi porse il tesoro all’uomo che frattanto aveva
finito di cavare la buca, e che meccanicamente lo prese iniziando ad
interrarlo.
Quando nel buio
repentino si alzò il braccio armato del prete e colpì l’uomo che ignaro gli
voltava le spalle, alla donna si gelò il fiato in gola. Tutto avvenne così
rapidamente, e irrealmente, che la sventurata non ebbe neppure il tempo di
pensare e si ritrovò intenta a fissare il prete assassino che prono sulla fossa
recitava il segreto per sciogliere quell’incantesimo:
Ppi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
e ss’arrumpiri supra sta valata un cuddiruniPpi ddapiri stu ‘ncantesimu ci-a-ssiri a luna cina
c’a-ssiri mpastatu cu farina ri tri mulina
e acqua ri tri funtani
cuottu cu fraschi ri tri fumazzari
Quella
gelida aura che aveva accompagnato l’arrivo del prete lo seguì mentre
scompariva nella notte.
La
donna dapprima rimase rannicchiata nel suo nascondiglio, poi lentamente riprese
coraggio ed accertatasi che tutto fosse tornato tranquillo, recuperò i panni e
corse a casa.
A
letto stavolta non cercava il sollievo del sonno. Cogli occhi sbarrati riviveva
la scena e lentamente rientrava in sé; e la realtà di ciò che poco prima era
accaduto le appariva nella sua mostruosità. Anche
se una sottile curiosità la legava al misterioso evento. Di
truvature ne conosceva tante: tutte
le lavandaie nelle lunghe giornate di lavoro raccontavano di qualche conoscente
che aveva cercato di scioglierne una, ma col deludente risultato di ritornare a
mani vuote perché non aveva eseguito il rituale “com’era giusto”.
Lei
però non ne avrebbe parlato con alcuno: di ciò era certa. Meno certa era che
avrebbe cancellato dalla mente l’evento. Anzi cominciava a vagheggiare l’idea
di tentare di entrare in possesso del tesoro, dal momento che conosceva con
precisione quello “che andava fatto”.
Al
mattino aveva già le idee chiare. Chiamato l’ignaro marito si fece giurare che
avrebbe eseguito quello che stava per chiedergli senza esigere spiegazioni né
frapporre ostacoli, per strani che fossero sembrati i suoi dettami. Fu così
convincente e risoluto il suo fare, che l’uomo, pur controvoglia, si dichiarò disponibile.
Sicché
dapprima gli impose di recarsi dai tre mulini ad acqua di Murana ri sutta, Murana ri
supra e Supranu, per prelevare
“un pugno” di farina da ciascuno. Poi fu la volta delle tre fontane (Furrieri, Funtana e a ‘Razia).
Infine si recò a raccogliere frasche e legna nelle tre concimaie del paese, ri Ghésu, ri Santu Vitu e ro Sarbaturi.
Avuto
l’occorrente la donna confezionò il pane: con tre parti di farina dai tre
differenti mulini, tre parti d’acqua dalle tre fontane, ed usando per la cottura
legna raccolta nelle tre concimaie. Quindi
si pose in attesa della mezzanotte con quel segreto dentro che non aveva
partecipato neppure al marito che, poverino, si era adattato controvoglia a
quelle strane incombenze.
U ciccagninu (come chiama il popolo il suono della campana di
mezzanotte) rimbalzò nella stretta gola della cava Fontana: la donna era già
lì, con la luna piena che la illuminava, accanto alla grotta di S. Giuseppe con
il magico pane stretto tra le mani. E tremava di paura e d’emozione. Mentre in
ginocchio, proprio sul luogo della sepoltura, spezzava il pane eseguendo il
rito previsto, si “aprì l’incantesimo” ed apparve, con in mano il tesoro,
l’uomo morto:
O chi viristi o chi sintisti:pirchì accussì prestu mi vinisti a liberari!
«Di certo tu vedesti e
sentisti, per essere venuta così presto a liberarmi!»
Fu
così che la lavandaia e il marito si arricchirono, e l’incantesimo della grotta
di S. Giuseppe fu sciolto.
Tratto
da:
Giuseppe
Cultrera, IL SEGNO E IL RITO, 2005;
(capitolo III Il rito magico, pagina 39-41).
martedì 2 aprile 2013
Postille d'arte - 3
Benedetto Cultraro (sec. XVII), scultore in Chiaramonte
Seguito dei post (20 marzo 2013, Nicolò Mineo) e (1 aprile 2013, Simone Mellini)
Imitatore
di entrambi, ma non discepolo essendo di due generazioni più giovane, fu
Benedetto Cultraro (1670 – 1750 c.). Di lui ci è giunta un’opera firmata e
datata: «io benedetto cultraro di chia/te
(Chiaramonte) l’ho scolpito 1711». Il Cultraro dà saggio di perizia
tecnica e capacità di sintesi stilistica, nel ristretto spazio (mt. 2 x 1) del
bassorilievo su pietra dura, destinato all’altare della cappella del Crocifisso
all’interno della chiesa di Santa Maria di Gesù.
Alla
sua abilità tecnica si deve anche il baldacchino, in pietra e legno, che
accoglie la statua della Madonna di Gulfi: dove sono evidenti le ascendenze
berniniane ed il fascino manieristico. Che ritroviamo, sempre stemperato nel
classicismo mutuato dai maestri locali, nella decorazione della chiesa di
S.Maria la Vetere
(più nota come Santuario di Gulfi) specie nelle due porte esterne. Replica
stile e soggetti antropomorfi nelle tre porte del prospetto della chiesa di S.
Giovanni Battista a Vittoria,
attribuitegli, per certa documentazione.
Benedetto Cultraro,
Angelo reggicartella, 1746.
Chiaramonte Gulfi,
Santuario di Gulfi
lunedì 1 aprile 2013
Antonino Di Vita: Acrille
Sul sito on line dell'Encicopedia Treccani sono pubblicati due articoli dell'archeologo prof. Antonino Di Vita su Chiaramonte Gulfi ( il primo del 1959 ed il secondo - un aggiornamento - del 1994). Li ripropongo a ricordo dell'illustre studioso, scomparso nel 2011.
CHIARAMONTE GULFI
di Antonino Di Vita
CHIARAMONTE GULFI. - Paese della
Sicilia orientale in provincia di Ragusa. È il centro abitato più vicino
all'insediamento dell'antica città di Akrillai (῎Ακριλλαι), fondata dai coloni di
Akre (῎Ακραι). Akrillai è ricordata da Tito Livio (xxiv, 35, 8-10; 36, 1),
da Plutarco (Marc., 18, 2) a
proposito di un episodio della II guerra punica, e da Stefano Bizantino (s. v.). L'identificazione è stata
possibile grazie alle fonti ed ai numerosi resti archeologici venuti in luce a
N-O dell'odierno abitato, in insediamenti posti all'inizio della pianura che si
estende alle spalle di Camarina. Il centro doveva essere attraversato da quella
importante arteria congiungente Siracusa a Selinunte attraverso Agrigento,
della quale si hanno ininterrotte notizie dal VI sec. a. C. fino al 1290. La
località ebbe, verosimilmente, nome di "Gulfi", in seguito
all'occupazione araba. Ha concorso alla identificazione del luogo l'antico
toponimo tuttora esistente e significativo "Cianuriddu",
"Planucrille".
Le più importanti tracce preelleniche della
zona vennero in luce nelle località "Paraspola" e
"Pipituna". Si tratta di grotte funerarie ellissoidali contenenti
scheletri isolati e riuniti in gruppi con il capo rivolto a valle e poggiante
su un gradino. Il corredo funebre consta di numerosi vasi attestanti una
continuità da una prima fase castellucciana ad una fase del tipo
"Thapsos". In contrada Piano del Conte è stato possibile rintracciare
un abitato che ha restituito abbondante ceramica databile fra il iv sec. a. C. ed il I d. C Ciò testimonia
una continua occupazione del luogo. In una tomba a fossa, è stata trovata una
coppa emisferica recante la firma del fabbricante Menemachos la cui bottega in
Delo ha prodotto la varietà più tarda delle coppe dette megaresi. Sono state
trovate monete che giungono fino all'imperatore Valente. Dalle necropoli di età
imperiale provengono anche vetri interessanti, fra cui uno, intatto, con una
scena di caccia sul corpo. Esso va datato fra la fine del III e gli inizî del
IV sec. d. C. Citiamo, infine, sette titoli cristiani in greco, uno in latino
ed un titolo ebraico (in caratteri greci), tutti fra il IV e il V sec. d. C.
Dalla chiesetta bizantina di S. Elena provengono avanzi di interessanti
sculture. Numerosi i resti bizantini della località S. Nicola.
Bibl.: A. Di Vita, Vetro
romano con scena di caccia da Chiaramonte Gulfi, in Siculorum Gymnasium, n. s., IV, 1951,
pp. 60-65; id., Iscrizioni funerarie siciliane di età cristiana,
in Epigraphica, XII, 1950, p. 104 ss.; id., Ricerche
archeologiche in territorio di Chiaramonte Gulfi (Akrillai), Catania 1954; id., La
penetrazione siracusana nella Sicilia sud-orientale alla luce delle più recenti
scoperte archeologiche, in ΚΩΚΑΛΟΣ, II, 2, 1956.
CHIARAMONTE GULFI
Enciclopedia dell' Arte Antica II Supplemento (1994)
di Antonino
Di Vita
CHIARAMONTE GULFI (v. vol. Il, p. 547). -
Nonostante sia stata proposta una localizzazione al guado del Dirillo (Uggeri),
il centro antico che, formatosi a partire dal VI sec. a.C., prosperò in età
ellenistico-romana e sopravvisse alla conquista araba fino al 1299 col nome di
«Gulfi» nella pianura ai piedi del nuovo abitato medievale di Ch. G., è tuttora
identificato - e con validi motivi d'ordine diverso (storico, topografico,
archeologico, linguistico) - con Akrillai-Acrillae.
Nell'area occupata dall'antico centro
greco-romano- bizantino non s'è avuto alcuno scavo sistematico, anche se è
stato programmato un piano di ricerche topografiche volto a chiarire l'impianto
urbano.
Scoperte di un certo rilievo sono invece
avvenute nel territorio di Ch. G.: in località Mandredidonna, nella pianura
presso il Dirillo (probabilmente l'antico Achàtes),sono stati raccolti avanzi
castellucciani e sono stati ripresi saggi di scavo nell'abitato di
Scornavacche, il quale, a tutt'oggi, costituisce il più importante villaggio di
ceramisti, attivo a cavallo del IV-III sec. a.C., che si sia mai scavato in
Sicilia. D'importanza rilevante i corredi di una necropoli romana di II sec. in
contrada Mazzarrone, località che occupa anch'essa, come Scornavacche, un
pianoro digradante sulla riva sinistra del Dirillo. Oltre a un raro bicchiere
«corinzio» (il secondo dalla Sicilia), è stata recuperata numerosa terra
sigillata africana che mostra come i centri della pianura camarinese lungo il
fiume fruissero sia della via interna che portava ad Acre sia di quella che
risaliva lungo il fiume verso N, in direzione di Licodia. E in effetti al
limite settentrionale del territorio di Ch. G. (e della provincia di Ragusa),
in località Ragoleto, ancora una volta sui pendii di un pianoro che
strapiombava sul fiume, la costruzione della diga sul Dirillo ha portato alla
luce un notevole gruppo di sepolcri databili nel V sec. d.C. da cui proviene,
fra l'altro, una lucerna in terra sigillata importata dall'area dell'odierna
Tunisia.
Si tratta, in entrambi i casi, di prove
tangibili e significative della penetrazione, attraverso i centri romani della
costa meridionale e lungo le antiche principali vie di comunicazione
dell'Isola, delle ceramiche fini delle vicine Zeugitana e Bizacena.
Bibl.: G. Di Stefano, Appunti per la carta archeologica della regione
camarinese in età romana, in Kokalos, XXVIII-XXIX,
1982-1983 (1984), pp. 332-340; G. Ragusa, Chiaramente Gulfi nella storia della Sicilia, Modica 1986, pp. 24-41; A. M. Fallico, Necropoli romana tarda alla diga del Dirillo e ceramica romana del
territorio di Chiaramente Gulfi, in
G. Di Stefano (ed.), Archeologia Iblea 1987,Ragusa 1987, pp.
107-111, 211-213.
Per le stazioni preistoriche del territorio:
G. Di Stefano in Tabellarius, Ragusa, genn. 1975, pp. 6-10; id., in Piccola guida delle stazioni preistoriche degli Iblei, Ragusa 1984, pp. 67-76.
Per i materiali del territorio chiaramontano
esposti al Museo di Ragusa: P. Pelagatti,Il
museo archeologico di Ragusa, in SicA, XI,
1970, pp. 21-31, passim (ripubblicato in G. Di Stefano,
P. Pelagatti, Ragusa archeologica, Ragusa 1984, pp. 19-30 e inArcheologia Iblea..., cit., pp. 9-12); G. Di Stefano, Ricerche
a Camarina e nel territorio della provincia di Ragusa, in Kokalos, XXX- XXXI, 1984-1985 (1988), pp.
779-782; id., in BTCGI, V, 1987, pp. 276-280 s.v.
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Della splendida fiasca vitrea da Ch. G. al museo di Siracusa si ha ora una nuova edizione con riproduzioni a colori a cura del Comune di Ch. G.: A. Di Vita, Vetro romano con scene di caccia da Chiaramonti Gulfi (con aggiornamento di M. Sternini), s. 1. 1991.
Della splendida fiasca vitrea da Ch. G. al museo di Siracusa si ha ora una nuova edizione con riproduzioni a colori a cura del Comune di Ch. G.: A. Di Vita, Vetro romano con scene di caccia da Chiaramonti Gulfi (con aggiornamento di M. Sternini), s. 1. 1991.
Postille d'arte - 2
Simone Mellini, architetto e scultore in Chiaramonte
(sec. XVI/XVII)
L’arco di tempo in cui fu attivo si può racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.
(sec. XVI/XVII)
Continuatore di Nicolò Mineo (1542-1625) e
probabilmente discepolo ed aiuto fu Simone Mellini, pure lui originario di
Caltagirone, operante dagli inizi del ‘600 e ritenuto dagli scrittori locali, a Chiaramonte Gulfi, l’artefice di gran parte
delle strutture architettoniche o plastiche, tardo rinascimentali, giunte sino
a noi.
Per citarne alcune, in ordine cronologico:
le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della piazza, ed una cappella interna non più esistente;
la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza e il monumentale abside;
la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616)
e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù,
tutte opere realizzate a Chiaramonte.
le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola del prospetto della Chiesa Madre e quelle non più esistenti di S. Pietro e S. Paolo che ornavano il recinto antistante, scomparso col terremoto o con le riforme settecentesche della piazza, ed una cappella interna non più esistente;
la piccola chiesa di S. Giuseppe, della quale ci resta una porta laterale (a sud ovest) di sobria eleganza e il monumentale abside;
la cappella maggiore della chiesa delle Grazie (chiesa edificata a partire dal 1616)
e quella somigliante del Crocifisso nella chiesa di S. Maria di Gesù,
tutte opere realizzate a Chiaramonte.
L’arco di tempo in cui fu attivo si può racchiudere tra il 1608 (data incisa sul primo ordine del prospetto della chiesa Madre) quando ragazzo scolpisce le statue di S. Vito e S. Francesco di Paola ed il 1750 circa quando lavora, secondo C. Melfi, alle cappelle del Crocifisso (chiesa di S. Maria di Gesù) e della Grazia nella chiesa omonima.
< segue dal post Artifex nobilis (20 marzo 2013)
continua con > Benedetto Cultraro ((2 aprile 2013)
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